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CAPITOLO III
ОглавлениеCome il biondo Fiordaliso fu vinto in tenzone poetica, e del rammarico ch'ei n'ebbe
Allora, in mezzo alla aspettazione universale, lo strano ospite di Roccamàla pose le mani sullo stromento di Fiordaliso, che più non parve lo stesso. Le sue dita, adunche come gli artigli d'un falco, cavarono dalle corde una tempesta di suoni, striduli e sto per dire non umani; strano preludio che fece correre un brivido di terrore per l'ossa a quella nobile udienza.
– O come suonate voi, messer pellegrino? – chiese Enrico Corradengo.
– Come il Paganini.
– E chi è il Paganini? – dimandò un altro della brigata.
– Un gran trovatore, messeri, un gran trovatore.
– E… – si provò a dire Fiordaliso, che udiva toccato il liuto da mano maestra e già si sentiva una spina nel cuore, – e vi ha insegnato egli?..
– No, io a lui; – rispose asciuttamente il pellegrino.
– Ah! noi siamo dunque al cospetto di un maestro… – disse il conte Ugo.
– Oh, questo poi no, messer lo Conte! Pizzico un tratto, per mio logorare, ma non la pretendo a maestro nella gaia scienza, come fa qualcun altro. Ora, ecco, magnifici messeri, vi canterò la ballata dell'uom felice, la ballata di Giobbe.
– Vuol essere allegra! – disse mastro Benedicite fra i denti; e frattanto di sotto alla tavola fece il segno della croce, imperocchè, dopo quel preludio indiavolato, gli era tornata la paura in corpo.
Per tutta la comitiva si fece un gran silenzio, appena il pellegrino ebbe annunziato il titolo della sua ballata. E l'ospite di Roccamàla, con voce ingrata, ma che costringeva ad ascoltare, così diede principio al suo canto:
Era su in alto splendida festa,
Chè avea l'Eterno corte bandita.
Calici in mano; corone in testa;
Tocche le cetre da rosee dita.
Tutti raccolti nel ciel natio
Eran gli alati figli di Dio.
– Il cominciamento è bello! – gridò Ansaldo di Leuca. – Pare una copia della nostra brigata, salvo che noi non abbiamo corona in testa e non siamo figli di Dio, e voi non avete le dita rosee, messer pellegrino! —
Il cantore rispose alla celia di Ansaldo con un sorriso che mise in mostra trentadue denti nitidi ed acuti come quei d'una sega, e, ripigliato l'arpeggio, prosegui:
C'eran tutti, chè in lieto accordo
Venner da' chiari regni e da' bui;
E quell'astuto, cui non fu sordo
D'Eva l'orecchio, c'era pur lui,
Da Dio colpito già d'anatema,
D'alta scienza mastro Aporèma.
– Aporèma! È un nome saracino? – esclamò Ansaldo di Leuca.
– No, – soggiunse Corradengo – un nome greco.
– Greco, o saracino, – borbottò mastro Benedicite, – gli ha da essere sinonimo di Satanasso. —
Il pellegrino rispose con un altro dei suoi tetri sorrisi, e continuò cantando:
Spirto del dubbio, spirto che indaga,
Che viver sdegna contento al quia,
Nè di fallaci larve s'appaga,
E l'uom da' stolti sogni disvia.
Com'ei da sezzo giunto s'assise,
Lo vide il vecchio Sire e sorrise.
– Che vuoi Satanno? – Buon sire Iddio,
Un posto al vostro gaio banchetto!
Vostra fattura, padre, son io,
Sebben m'abbiate poi maledetto,
E qual maestro lasciato all'uomo
Dopo la biblica scena del pomo.
– Sì veramente, spirto malnato,
E aver ciò fatto mi seppe reo!
Ma non hai tutti pure ingannato…
Ti sfugge il giusto prence Idumeo…
– Ve' gran fatica! Voi lo volete…
Ma lo lasciate solo, e vedrete! —
– Sì, tenta! io tolgo da lui la mano…
Ma inver sovr'esso fai mala prova,
– Perchè? fors'egli fuor dell'umano,
Oltre la terra sue gioie trova?
Hollo a far tristo, buon sire Iddio,
O ch'io, Satanno, non son più io! —
Qui il pellegrino fece una sosta, che nessuno degli astanti volle turbare co' suoi ragionari, tanto erano ansiosi di udire la continuazione. E questa non si fece attender molto, poichè, dopo un altro arpeggio più cupo del primo, e con voce più stridula, il cantore di Aporèma venne alla seconda parte della ballata.
Il vecchio di lassù tenne la fede,
Perchè sillaba sua non si cancella,
E l'uom felice in potestà gli diede.
Ratta sui vanni allor d'atra procella,
Scende sventura all'idumee pendici,
Strugge i campi, gli armenti e le castella.
Ve' subito oscurarsi i dì felici
Del prence, e ve' dalle dolenti case
Ad uno ad uno disparir gli amici!
Nè il vinse ciò, nè l'ira al cor süase.
Guardò la donna sua, baciolla, al core
Forte la strinse, e impavido rimase.
Ma passa ancora il nembo struggitore
E a lui, che nulla sembra aver sofferto,
Della salute inaridisce il fiore.
Già bellezza e vigor l'hanno deserto,
E tabe ria da cento piaghe stilla
Onde apparisce il corpo suo coverto.
Ve' donna innamorata! Amor vacilla.
Ve' cor cui l'uomo non mutevol creda!
Torse il piede ad un tempo e la pupilla.
Solo, ognor solo, parta il giorno o rieda,
Alla brina gelata, al sol cocente,
Solitario carcame a' vermi in preda!
Pur gli rimase il raggio della mente…
Ma udite qual ne fece uso sennato;
Maledisse all'Eterno, e irriverente
Gli domandò: «perchè m'hai tu creato?»
Giunto alla fine della seconda parte, la quale, anzi che un canto, fu una recitazione drammatica, accompagnata da rauchi suoni di corde, il pellegrino fece la seconda sosta.
La brigata non fiatava; ma il suo silenzio non era per fermo testimonianza di freddezza; chè ben dimostravano il contrario gli sguardi fisi e le labbra ansiosamente tese verso il cantore.
La imprecazione di Giobbe era stata resa con un accento da mettere i brividi, e più paurosa l'avea fatta il liuto, con un suo accompagnamento beffardo. Poco stante, il pellegrino, facendosi da capo alla cantilena delle prime strofe, ripigliò in questa guisa a cantare:
Era su in alto splendida festa
Ed Aporèma fu del cortèo.
– Orben, signore, dite, che resta
Del vostro lieto prence Idumèo?
Povero, infermo, solo, reietto,
Al suo fattore grida così:
«Perchè mi desti core e 'ntelletto?
«Perchè m'apristi le luci al dì?»
Affè, gran cosa l'esser felice
Se un sogno all'uomo la vita infiori,
E raggio d'iride l'ingannatrice
Zona vi stenda de' suoi colori!
Felice è l'uomo fin che la fede
Inviolata nel cor gli sta,
E il primo intonaco di ciò che vede
A brani a brani non se ne va. —
– E tu, Aporèma, forse più lieto
Sei tu che 'l negro dubbio diffondi,
Tu che turbandomi l'alto secreto
Ogni parvenza scuoti e disfrondi?
Dimmi, te stesso non hai dannato
A lutto eterno fin da quel dì
Che in questo sogno viver beato
Sdegnasti e l'ira mia ti colpì?
– Il ver parlate, buon sire Iddio;
In cor non sente gioie Aporèma.
Nel duol mi cruccio, ma il duolo mio
Non può speranza vincer, nè tema.
Quanto la vostra mano dispone
Per me segreti, sire, non ha:
So quanto valgono cose e persone,
E niun sul prezzo gabbo mi fa.
La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma. A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno che il suo turbamento era grave.
Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo fidato vassallo e non vedesse nell'ospite di Roccamàla che un uomo come tutti gli altri suoi commensali. La filosofia dello sconosciuto lo aveva profondamente commosso, ed egli era rimasto inerte sulla scranna, con lo sguardo fiso ma disattento, come di chi sembra aguzzar l'occhio verso un punto dello spazio, e non fa in quella vece che seguire il corso vagabondo d'immagini confuse, le quali non hanno per anche presa la forma di un pensiero.
Il primo a rompere quel silenzio, e direi quasi quell'incantesimo, fu il biondo Fiordaliso, pieno il cuore della sua giovanile baldanza.
– Leggiadra è la vostra ballata, messer pellegrino; ma egli mi sembra che la storia da voi narrata non sia molto d'accordo con la Bibbia, segnatamente nella chiusa. —
La nota del paggio era girata per la mente a tutti i commensali; epperò eglino, udendola espressa dalle parole dell'adolescente, gli tennero bordone con un cenno del capo.
Ma il pellegrino non era uomo da darsi vinto per simili frasche. Crollò le spalle, fece una smorfia e rispose con aria benigna e compassionevole:
– Ah! perchè voi non avete letto che la Volgata, messer Fiordaliso. La storia vera è quella che v'ho raccontata io, e si legge nel testo caldaico della Vaticana. Nella Volgata s'è tenuto altro metro, per tema che la lettura avesse a riuscire troppo sconsolante; della quale sollecitudine per le coscienze timorate vuolsi saper grado alla Chiesa.
– Per ventura le sono finzioni poetiche dei tempi andati! – disse Ottone di Cosseria.
– Sì, e non possono mutare il verace aspetto delle cose; – soggiunse Enrico Corradengo. – L'amicizia, a malgrado dei vostri biblici esempi, è un alto e durevole affetto.
– Giobbe lo sa, mio nobil sere! – esclamò il pellegrino.
– Ah, lasciamolo in pace! – rispose il Corradengo. – Io, per me, tengo che se egli avesse vissuto ai tempi nostri, tra cavalieri, nessuno degli amici suoi lo avrebbe abbandonato nella disgrazia, e ognuno si sarebbe recato a ventura di spartire con lui. —
Il sogghigno di Aporèma si dipinse anco una volta sulle labbra del pellegrino. Il Corradengo, turbato, non disse più altro.
– E non si dirà nulla della donna del principe d'Idumea? – entrò Ansaldo di Leuca. – Io mi penso che questa dama, se pure c'è stata, ed ha operato secondo il detto della vostra canzone, messer pellegrino, non era donna di gentil sangue. L'amore è fortissimo e nobilissimo affetto, che vince ogni ostacolo, che sopravvive ad ogni sciagura, come c'insegnano esempi molti e recenti. Io vi prego, messere, se avete caro il vostro buon nome di trovatore, a non farvi udire nè da Matilde, contessa di Sciampagna, nè dalla marchesina di Monferrato, nè da Giovanna di Torrespina, la più savia come la più leggiadra gentildonna di cui cavaliero portasse mai i colori. —
Al nome della castellana di Torrespina, l'ospite sconosciuto fece un volto più umano, come chi intenda ad entrare nelle grazie di qualcheduno, o non voglia, per cortesia, far contro a giudizii che risguardano le persone.
– Tolga il buon sire Iddio, – rispose quindi ad Ansaldo, – che io voglia farmi udire a cantar sul liuto fuori di questa nobil brigata. Vi ho poi detto, messeri, che io non sono trovatore. La canzone di quel biondo alunno delle Muse mi ha messo in vena, e mi sono provato anch'io a dirvi la mia, tanto per fargli intendere quello che una lunga esperienza ha insegnato ad un povero vecchio; che tale io mi sono da lunga pezza, e abbandonato da tutte quelle dolci fantasie che illeggiadriscono la vita ai giovani cavalieri. Ma io so bene che i miei canti non potrebbero andare a grado di tutti, come so che la verità non è mai bella, nè lieta ad udirsi. —
Il conte Ugo uscì finalmente allora dal suo silenzio.
– Messer pellegrino, – diss'egli con molta gravità, – la vostra ballata è triste assai, ma bella del pari, e vi pone così alto nella mia estimazione che io non saprei dirvi di più. Voi siete il mio ospite per tutto quel tempo che a voi piacerà, e quando la mia casa vi riesca troppo uggiosa dimora, della qual cosa io sarò dolentissimo, il miglior ronzino, o palafreno di Roccamàla rimarrà vostro, e vostro il migliore de' miei falconi, se il passatempo di sant'Uberto v'è grato.
– Voi siete, messer lo conte, – disse il pellegrino inchinandosi profondamente, – il più magnifico e liberal cavaliero che al mondo sia. —
A Fiordaliso si sbiancarono le guancie; delle labbra non saprei dirvi, perchè il biondo adolescente, vinto nella sua poetica tenzone al cospetto e per sentenza di conte Ugo, le aveva raccolte tra i denti, e premea forte, in atto dispettoso. Era quello il primo giorno di sua vita che cosa alcuna gli avesse a dolere; e il cominciamento fu amaro.
Tanto per fare alcun che, e per non addimostrare il suo broncio, il povero paggio andò a togliere il liuto dalle mani del pellegrino e lo recò fuor della sala.
– Va, stromento d'inferno! – gridò egli stizzito, buttandolo su d'una cassapanca che era nella sua camera. – E adesso aspetta che io ti ripigli!
Il povero liuto, che non ci avea colpa, risuonò alla percossa; le corde mandarono un gemito, quasi un accento di rimprovero. Ma il paggio non si pentì dell'opera sua, e chiusosi l'uscio dietro le spalle, se ne andò a parare il vento su d'un terrazzo, molto lunge dalla sala dov'erano i convitati del conte.