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III

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– Voi mi vedete in basso stato e così male in arnese, – cominciò a dire il maestro, – ora che ho dimenticato gli uomini e ogni altra cosa al mondo, per racchiudermi nella sconsolata solitudine del mio cuore. Ma io non indossavo un tempo questi luridi cenci, nè era così incolta la mia persona.

Mi vestiva, negli anni della beata giovinezza, una bianca clamide, con un bel pallio di porpora. I miei capegli erano ricciuti e profumati, e le vezzose fanciulle di Corinto si facevano rosse al mio apparire, siccome le ciliegie al sole di primavera.

Nei misteri di Eleusi, ove la santa Cerere chiamava ogni anno il fiore della greca gioventù alle sue orgie solenni, io ero sempre il primo e il più lodato, sia che toccassi la cetra lesbia, o che le mie dita errassero con sapiente magistero sul rozzo clavicembalo antico; e i grandi occhi azzurri delle figlie del Peloponneso seguirono sovente con amorosa cura la biga di Calisto sull'arena del Circo.

Ma io non amavo. I miei sensi soltanto si allegravano di giocondi sacrifizii all'ara di Guido; ma il mio cuore dormiva; nè valeva a commoverlo l'acceso volto di Erigone, o lo sguardo scintillante di Cerere, o la lusinghiera dolcezza di Venere. Il casto riserbo della vergine Diana avrebbe potuto infiammarlo; ma Diana era invisibile, nè ella, d'altra parte, anco se colta all'impensata, avrebbe perdonato agli sguardi profani. E ben lo seppe Atteone, che ella diede in pasto ai suoi veltri, perchè egli tra il fitto delle piante aveva potuto ammirare le ignude bellezze della dea. —

Fu questo l'esordio del nostro convitato, e i lettori argomenteranno di leggeri la maraviglia che ci colse, al vederci affondati nella mitologia pagana fino agli occhi. Altro che santa Cecilia! Qui eravamo in Grecia a dirittura, in mezzo a tutte le sue classiche e statuarie divinità, evocate da un povero pazzo, il quale parlava con l'accento della persuasione e, data una storta premessa, andava diritto a tutte le conseguenze, come il più savio ragionatore del mondo.

Alla metà di questo esordio, e appena veduto come il nostro narratore andasse a briglia sciolta, con gli sproni nei fianchi di un gigantesco anacronismo, noi cinque ci eravam ricambiato un malinconico sorriso. Egli non se ne addiede, e proseguì il suo racconto. Seduto in capo alla tavola, al lume di due candelabri, con la persona appoggiata alla spalliera della sedia e gli occhi in alto, egli aveva quasi dimenticato il suo uditorio d'increduli; ma gli increduli stavano ad ascoltarlo, e che volete? finirono anch'essi con salirgli in groppa e, cedendo al fascino del racconto, seguirlo nella sua pazza cavalcata pei tempi remoti.

A questo errore io mi penso aiutassero molto le frequenti libazioni, dalle quali era accompagnato l'ascoltare, e le ondate di fumo che ci uscivano tacitamente di bocca. Tito rinvoltava di continuo le sue cartoline spagnuole intorno alla foglia sminuzzata del latakiè, e mandava buffi profumati in mezzo a noi; Tiberino guardava in alto i rabeschi del soffitto; Battista, con una gamba a cavalcioni sull'altra, aveva ricominciato a contarsi i peli sulle guance; io stavo coi gomiti appuntellati sulla tovaglia e le palme raccolte sotto il mento, Fabrizio avea cavato fuori il suo albo da disegno e abbozzava sbadatamente figure di donna, coperte del peplo argivo; ma nessuno di noi, checchè facesse, perdeva una sillaba dello strano racconto.

– Rifinito dai piaceri, – proseguì il suonatore con la sua facile e poetica vena, – io mi ritraevo sovente da quei tripudii del senso, nè più mi allettavano i giuochi del Circo, l'oziar delle Terme, o il sorriso delle etère fra le libazioni del simposio. Forse l'animo mio correva con desiderio confuso ai tempi che non erano ancor nati? Non saprei dirvelo; ma il tedio di quella vita, tutta consacrata al culto della materia, mi aveva soverchiato. Pieno di sconforto io mi chiudevo nelle mie case, e mentre dal vano di un loggiato stavo guardando il sole morente, che illuminava ancora di un raggio obliquo il bel golfo di Crissa, il mio pensiero alato correva lontano, oltre i monti dell'Arcadia, in cerca di tal cosa che vedeva mancargli e non sapeva che fosse.

Così a me stesso mi feci inutile, agli altri molesto. Gli amici, che non mi vedevano più a novellar nelle Terme, nè a correre o a lottare nel Circo, mi davano del pazzo per lo capo. Glicera, la bella etèra che io avevo tante volte incoronata nei conviti con serti di rose, dopo avermi aspettato invano una decade (una decade era l'eternità per una donna di Corinto), fece buon viso alle ventimila dramme d'argento che da lunga pezza le profferiva, come dono votivo per rendersela benigna, il ricco Messàpo, e mi mandò, per mano della sua schiava, una corona di foglie d'elleboro, e una tavoletta con queste parole:

«A Calisto prega salute Glicera. Le foglie salutari, colte in Antìcira, risanino un cuore che dispregia le rose di Amatunta.»

Il rimprovero di Glicera non mi punse; nè mi dolse che quelle bianche braccia ministrassero le vivande e quelle labbra di corallo sorridessero al simposii di Messàpo. La mia mestizia cresceva a dismisura: e mi assaliva il fastidio d'ogni cosa che per lo innanzi mi fosse piaciuta.

Allora Volumnio, duumviro romano… Ma voi forse non sapete, o signori, che i Romani a quei tempi signoreggiavano la Grecia…

– Ohè, maestro! in qual conto ci tenete voi? – gridai io allora, punto sul vivo. – Sappiamo perfettamente che i Romani soggiogarono il vostro paese nell'anno 146 innanzi la fruttifera incarnazione, e che il console Mummio, impadronitosi di Corinto, le appiccò il fuoco, distruggendola così intieramente, con tutti i capilavori d'arte che l'arricchivano su tutte l'altre città del Peloponneso. Sappiamo altresì che in questo incendio le molte statue di svariati metalli si fusero per modo, che ne venne fuori il celebratissimo metallo di Corinto. Giulio Cesare, poi, risollevò la caduta all'antico splendore, facendola colonia romana, e ricorderete, su questo proposito, la leggenda: Laus Julia Corinthus, come io ricordo che la vostra città fu governata d'allora in poi da due cittadini romani, col nome di duumviri, i quali probabilmente si saranno divise le attribuzioni come da noi, ai tempi nostri, l'intendente, o governatore, ed il sindaco. —

Al compare non dispiacque punto quella mia raffica di erudizione; chè anzi l'accolse con un sorriso affettuoso, e accennando del capo ad ogni parola, come un maestro esaminatore contento del suo discepolo.

– Benissimo! – diss'egli, quando ebbi finito. – Io dunque avevo molta dimestichezza col duumviro Volumnio, bel giovane sui trentadue, ottimo soldato e gentil cavaliero. Egli sovente mi chiedeva della mia mestizia e non sapeva capacitarsene. Io avevo un bel dirgli le mie malinconiche pensate; gli era come se parlassi trace od armeno. Patrizio romano qual era, ed amante di tutte le lautezze del vivere, Volumnio non intendeva come si potesse rinunziare ai simposii, ai giuochi, alle belle figlie di Pelope, per altra cosa che non fosse il grave ufficio della milizia o della magistratura; ed era sua sentenza che neppur queste due cose dovessero escludere affatto i sollazzi della vita. E mi citava a questo proposito i suoi primi anni di tirocinio militare in Caledonia, dov'egli, facendo il debito suo, aveva potuto proseguire una ventura amorosa con la più bionda tra le compaesane di Fingal.

Ma tutti i più bei discorsi di Volumnio facevano mala prova sul tedio dell'anima mia. Laonde, veduto come io fossi proprio ammalato dello spirito, egli mi prese un giorno in disparte, e mi disse: – «Calisto, tra breve io partirò da Corinto, per tornarmene a Roma. Vientene a Roma con me. Io son certo che colà ti passerà dal capo la tristezza e la noia. Vientene a Roma. Sappi che Roma è l'Urbs, la città per eccellenza. Dappertutto, undique orbis terrarum, si vegeta come tanti cavoli! a Roma soltanto si vive.»

Queste facete esortazioni di Volumnio rispondevano troppo bene al desiderio che mi struggeva di novità, perchè io non cedessi. Raunai quel tanto che mi rimaneva delle mie larghe sostanze, e due mesi dopo, la nave di Volumnio, sulla quale io mi ero imbarcato, giungeva con vento propizio alla foce del Tevere.

L'animo mio non era presago dei mali che mi attendevano nella città dei sette colli. Mi pareva in quella vece di esser rinato, e il mio petto respirava con gioia le aure di quella Italia, che io salutai dalla prora con la lieta esclamazione di Acate, che è uno dei più felici passi dell'Eneide.

«O Volumnio, io dicevo, ti sian rese grazie per il tuo invito cortese. Qui mi sento felice, e penso che là, dietro a quei monti ove tu mi accenni esser Roma, io troverò la pace del cuore.»

E davvero credetti averla trovata, la pace del cuore, quando fui dentro a quella smisurata città, a quel brulichìo di gente d'ogni nazione, tributo del mondo alla potenza di quei fastosi cittadini che passavano per le ampie strade in lettiga, seguiti da un lungo stuolo di clienti e di schiavi. Era quello appunto per Roma un bel tempo, o, se non era, pareva. Alessandro Severo imperava con temperanza e saviezza, e i suoi miti costumi, se facevano desiderare una maggiore fortezza nel governo della cosa pubblica, consolavano tuttavia il popolo delle recenti memorie di Caracalla e di Eliogabalo.

Allora, per altro, io non avevo tempo nè modo di pensare a cotesto. L'amicizia di Volumnio mi aveva aperto le case di tutti i patrizii, ed io mi ero dato a vivere splendidamente, senza curarmi d'altro che di sempre nuovi piaceri, e senza darmi un pensiero al mondo di ciò che potesse maturarmi il futuro. I parassiti popolavano il mio triclinio; l'Asia mandava a Roma per me le sue bestie feroci e le sue donne incomparabili, e queste io provai feroci del pari, imperocchè, se quelle con le unghie laceravano le carni, queste levavano i pezzi a dirittura. Il mio scrigno sel seppe.

Ora incominciano le note dolenti. Un dì Volumnio mi condusse alle case dei Cecilii, illustre famiglia, che non la cedeva in nobiltà di sangue che ai Metelli, dei quali era un ramo secondario. Colà vidi Cecilia, la bellissima fanciulla che doveva soggiogarmi, e, sollevando lo spirito mio a desiderii infiniti, precipitarmi nell'abisso. —

Qui il pazzo si fermò; due lagrime gli scesero giù dalle guance, ed egli, senza pure asciugarle, si stette immobile e senza parole per lunga pezza, in atto di chi pensa e, con l'amara voluttà delle ricordanze, ricostruisce il suo tempo perduto.

Noi rispettammo il suo silenzio, e taciturni aspettammo ch'egli si facesse a romperlo.

Santa Cecilia

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