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Il cuore senza amore è come il mondo senza sole.

Immaginate voi questo globo abbandonato dall'astro luminoso che gli riscalda le fonti della vita! Ne avete un breve esempio, un fugace concetto nella semplice durata di un'ecclissi solare. Solo che un'ora que' raggi, interrotti nel loro veloce cammino dalla intromissione di un corpo opaco, non giungano alla terra, impallidisce ogni cosa creata, il vento soffia impetuoso, il freddo e le tenebre v'investono e paiono dirvi che non siete più nulla, dov'essi regnano soli.

Nè dissimilmente si oscurò l'animo mio, quando gli venne meno la speranza dell'amor di Cecilia. Rabbrividii come per gelo improvviso a quella risposta, che io pure avea preveduta e provocata, e dopo una breve pausa, in cui ebbi a sentire tutte le più crudeli trafitture che esacerbassero mai il petto di un uomo:

– Addio, Cecilia – esclamai. – Non ci vedremo mai più.

– Perchè? – mi disse ella, guardandomi con mesta cura nel viso. – Non toccherai più la cetra? Il mio cembalo non ripeterà più le tue melodie?

– No! mi sento morire; il solo vederti mi duole; il rimanerti accanto mi sarebbe un supplizio dell'Erebo. —

Ella chinò il capo e rimase inerte, con le mani prosciolte sulle ginocchia. Io mi alzai e, salutandola con un gesto disperato, varcai rapidamente quella soglia, per la quale io non dovevo tornare più mai.

Mi ridussi a casa e visitai il mio scrigno. Gli avanzi delle mie ricchezze erano là dentro; diecimila sesterzi, un nulla per le consuetudini del mio vivere in Roma. Congedai i parassiti; mandai liberi i servi, e al più fedele donai, insieme alla libertà, una parte del mio oro.

Allora mi vidi solo, deserto d'ogni gioia, d'ogni speranza nella vita, e non piansi. Smemorato, quasi ebbro, errai molti giorni per la città, non vedendo, non riconoscendo nessuno. Due mesi dopo, ero soldato, e partivo, con la legione a cui m'ero scritto, alla volta dell'estrema Germania, dove la guerra riardeva, tra l'impero e i popoli barbari. Colà, dimenticate le sontuose cene e le profumate dolcezze del mio cielo, nelle stragi che le aquile nostre seminavano sul loro cammino, nei tripudii e nelle gioie bestiali del campo, giunsi a tale da non riconoscere, in breve corso di tempo, me stesso.

Talvolta, a dir vero, mi assaliva amaro il ricordo di avere avuto amici e di avere amato; ma erano sprazzi di luce, brevi e fugaci come i lampi in un cielo ingombro di nubi caliginose, e la mia anima tornava ad errare inconscia nel buio.

La Parca mi rispettò, siccome un capo sacro alle Erinni. E certo alcun che di fatale ebbe ad esservi nel richiamo della legione, ov'io combattevo, a Roma. Tornare a Roma era per me una sciagura, tanto più grave in quanto che io la sentivo cadermi addosso e non potevo definirla, come avviene di pericoli ignoti che ci minacciano in sogno. E non era il pensiero di trovarmi soldato umile colà dove ero stato ricco e spensierato cavaliere, che mi pungesse; nè lo amor di Cecilia, che si era come assopito nel profondo del cuore e quasi dimenticato. Tremavo, e non sapevo il perchè.

Quando giunsi a Roma, dopo due anni di assenza, nessuno mi riconosceva più. D'altra parte, le mie nuove consuetudini non mi conducevano mai agli antichi ritrovi; io vivevo, per così dire, in una nuova Roma, per lo innanzi a me sconosciuta. Seppi di Volumnio che era tribuno nelle legioni di Tracia; di Cecilia non sapevo, nè amavo chiedere; solo il caso mi fece un giorno conoscere che da un anno ella era andata a nozze, e che l'avventuroso consorte aveva nome Valeriano.

Per Giove! credetti morirne, quel giorno. Tutte le mie ricordanze si svegliarono ad un tratto; le antiche fiamme mi divamparono nel seno, e mi riconobbi ancora per quel di prima, con tutte le acerbe trafitture del passato. Io penso che se quelle angosce fossero durate, in breve ora sarebbe volata l'ignuda anima a Dite; e certo sarebbe stato il mio meglio. Ma così non fu; l'eccesso del dolore affogai nella crapula e nel giuoco, e alla dimane credetti essere risanato per sempre.

Ero, credetemi, il primo bevitore, come il primo e più accanito feritore della centuria. Chi mai nelle taverne della Suburra, stupidamente inteso a cioncar falso Massico e Falerno inacetito, o a ricambiar carezze a taluna di quelle sconcie femmine che lo attorniavano, avrebbe riconosciuto Calisto, il profumato garzone di Corinto, l'amante della pudica Cecilia?

Un giorno finalmente la vidi. Ella tornava, come seppi di poi, dalla villa di Valeriano sull'Aniene. Era adagiata su d'una lettiga, coperta di candido bisso, e le veniva accanto il suo Valeriano, giovine, bello ed altiero. Ella era ancor più leggiadra del volto che non fosse dapprima, e più lieta che io non usassi vederla nella casa paterna.

Valeriano, misurando il suo passo su quello degli schiavi che portavano la lettiga, inchinava il capo verso Cecilia, ed ella sorrideva dolcemente alle parole di lui. Tu non sei dunque, chiedevo io, tu non sei più la casta Diana? Sei discesa tu pure da quel trono di luce che l'amor mio ti aveva edificato sulle stelle?

Avevo io semplicemente pensato, o il mio pensiero m'era uscito dalle labbra con improvvide parole? Cecilia volse il capo; mi vide e rabbrividì: Valeriano, sul quale io aveva piantato due occhi infiammati, stringendo i pugni in atto di avventarmi su lui, mi fulminò di uno sguardo…

La lettiga passò, ed io non vidi più altro.

– Orbene, collega, – mi dissero alla sera i compagni, – che strana malinconia ti ha preso quest'oggi? Tu sei stato ad un pelo di farla grossa.

– Io? non so…

– Come? non ti ricordi? T'eri scagliato come una pantera sulla lettiga e sulla gente del patrizio Valeriano! e se noi non eravamo là per trattenerti, tu correvi un bel risico; chè i suoi servi t'avrebbero accoppato come un cane. Buon per te che sei uscito dei sensi… —

Il giorno dopo, mentre ero ancora tutto confuso e sdegnato contro me, contro tutti, fui chiamato al cospetto di Almaco, il terribile prefetto di Roma, il cui nome facea tremare la gente, assai più che la presenza dello stesso imperatore.

– Che cosa vorrà da me quest'altro? – pensai; e la mia mente correva alla scena del giorno innanzi. I compagni pensarono che un grave malanno mi sovrastasse, e mi videro partire come un uomo che non dovesse tornare mai più.

Io tremavo, e le gambe mi reggevano a stento; pure andai, e fui tosto chiamato innanzi al prefetto.

Santa Cecilia

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