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IV

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Come si riebbe da quella estasi malinconica, e facendosi scorrere una mano sulla fronte, il pover'uomo proseguì:

– Nata, siccome vi ho detto, di nobilissima gente, cresciuta in mezzo agli agi di una splendida vita, Cecilia era il desiderio dei giovani patrizii di Roma.

Era pur bella, nella sua serena tranquillità! Biondi capegli le incoronavano la fronte alabastrina, su cui non faceva ruga mondano pensiero; gli occhi nerissimi non scintillavano di voluttà come quelli delle Eleusine, sibbene spiravano un fuoco soave; e talvolta, in mezzo alla lieta comitiva dei parenti e degli amici che le si raccoglieva dintorno sotto le magnifiche arcate dell'atrio domestico, essi illanguidivano, assorti in una contemplazione divina.

Vi parlo, con parole nuove, di cose antiche, le quali allora io non avrei neppur saputo colorire, perchè non sempre mi era dato d'intenderle. Ricordate che noi assistevamo alla rovina di un vecchio mondo e ai nascimenti di un nuovo. La confusione era nelle lingue, nei riti, nel costume, nei pensieri, e da per tutto. Il greco, il germanico, l'assiro, l'egizio, il gallo e il britanno, si confondevano colà, in quel vasto centro del mondo, e davano temperanze svariate ai colori, forme nuove ai modi del vivere.

Io paragonavo nel mio cuore Cecilia a Diana, perchè la mia educazione pagana non trovava altro esempio di purezza che quello della casta e solitaria dea delle selve. Dopo la mia vita militare sul Baltico, avrei potuto paragonarla assai meglio ad una delle belle ed ispirate profetesse dell'isola di Rugene, ad una sacerdotessa di Herta, la invisibile ed ignota Dea della Germania.

Ma anche prima, ed allorchè vidi per la prima volta le mani di Cecilia posarsi sul cembalo e gli occhi suoi cercar l'infinito, ben mi accorsi che Diana cedeva al raffronto; bene intesi allora che una nuova donna era nata, non pure meno materiale di Cerere, ma più pensosa di Minerva e più casta di Diana: ch'ella recava in terra l'immagine della Venere celeste, che i miei concittadini, per consiglio di paurosa riverenza, avevano collocata nelle nubi, molto più in su dell'Olimpo.

E l'amai, l'amai con tutte le potenze dell'anima. Intrinseco del fratel suo e tenuto in gran conto dal padre, io passavo i miei giorni nella sua casa, alternando con lei i suoni del cembalo e le canzoni.

Mi ricambiò ella?.. Oh, Cecilia non amava gli uomini se non come fratelli, e l'essere meco, il conversar meco assiduamente, non la turbò, come suole turbare i nostri animi la fiamma dell'amore, come la sua vista turbava l'animo mio. Era la sua vita un'estasi continua, ogni suo sguardo, ogni atto, ancor che lieve, l'adorazione di una cosa ignota agli occhi della mia mente mortale; e non è a dire quanto me ne struggessi in silenzio.

Frattanto il tempo scorreva; le mie dovizie erano ite; Volumnio era volubile come il suo nome e si era allontanato da me. Egli pure aveva amato Cecilia e l'aveva chiesta in maritaggio ai suoi, che avevano accolta con giubilo l'offerta; ma Cecilia aveva ricusato, ed egli, credendomi cagione del rifiuto, me ne voleva un mal di morte. Così, percosso d'ogni parte dai fati, io andavo perdendo anche gli amici e mi trovavo solo nell'ampia Roma; non ero nulla; non potevo esser nulla.

La necessità, la urgenza dei casi miei, mi diede l'ardimento. Fui come la lucerna che, presso a mancare, dà l'ultimo guizzo. Narrai a Cecilia del mio immenso affetto per lei, come l'avessi amata lunga pezza tacendo; come alla perfine più non sapessi frenarmi, e la supplicai pietosamente dell'amor suo.

Sulle prime ella non rispose parola; poi, fervidamente pregata, e alzando, giusta il suo costume, gli occhi al cielo, – «tu non puoi, mi disse ella, o Calisto, essere lo sposo mio. Da gran tempo io m'ho eletto il signore di tutta me stessa, e debbo serbargli la mia fede.»

Santa Cecilia

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