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CAPITOLO IV

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Sotto i tegoli.

Lo stesso giorno che quella ibrida conversazione si era tenuta al caffè dell'Aquila, il nostro Nicolino Ariberti andava in cerca di Filippo Bertone.

Il giovine studente sentiva rimorso di essersi vergognato del suo povero amico, in quella stessa guisa che mille ottocento anni addietro un pescatore di Galilea si era pentito d'aver rinnegato il maestro nell'anticamera del pretorio di Gerusalemme. Ed anche lui voleva fare una specie di ammenda, non già andando a confessare d'aver fatto le viste di non vedere l'amico e il suo giubbone color tabacco, che una tal confessione sarebbe stata superiore alle sue forze; ma andando almeno a casa sua, come per vedere se fosse arrivato da Mondovì, e per passare un'ora con lui. Sapienti rappezzi, immaginati da una società rimpiccinita, per rimediare senza troppa vergogna agli errori commessi, chi potrà mai lodarvi abbastanza?

Filippo Bertone abitava una meschina cameretta, anzi una stamberga, nelle soffitte d'una vecchia casa in via degli Argentieri, che era tra le più popolose, ma altresì tra le meno signorili dell'antica Torino. Un letticciuolo di contro alla parete, che faceva venir freddo solamente a vederlo, due sedie zoppe, un tavolino presso la finestra, che dava sui tegoli neri del tetto, un baule spelacchiato che doveva offrire ai visitatori un modus sedendi non guarentito loro dal picciol numero e dalla poca sicurezza delle sedie, un catino sul suo trespolo di legno, e finalmente una pila di libri su d'una stufa rotta erano tutti gli arredi della cameretta di Filippo Bertone. Non c'era armadio, nè portamantelli, per gli abiti dello studente; ma bisogna anche dire che Filippo Bertone non aveva abiti di ricambio; il suo giubbone di color tabacco lo portava con sè, e quando, per le ore di sonno, o dello studio in camera, dovea pur separarsene, un umile chiodo alla parete gli serviva d'appiccagnolo. I mattoni del pavimento, corrosi dal lungo uso di parecchie generazioni d'inquilini, smossi la più parte dai loro alveoli di calce, ballavano sotto i piedi, quasi a dimostrar loro la instabilità delle cose umane. Le imposte sgangherate dell'unica finestra insegnavano la medesima filosofia ed agguerrivano lo spirito alle burrasche della vita. Ed anche per esser la camera sotto i tegoli, in estate ci si schiattava dal caldo; per contro, nell'inverno ci si moriva dal freddo. Ma già, era opinione degli Spartani, che i giovani dovessero formarsi ad una simile scuola e prosperarvi per giunta. Il Bertone, a dir vero, non ci prosperava; ma bisogna soggiungere ad onor suo che ci si era avvezzato.

Nicolino Ariberti salì rapidamente le otto scale che mettevano a quel nido di rondini, senza aver chiesto nemmeno al portinaio se l'amico suo fosse in casa. Dimenticanza perdonabile invero, perchè quella casa non aveva, per custode all'ingresso, nemmanco il più umile tra i censori d'Apelle, che era, come sapranno i lettori, un maneggiatore di lesina. E giunto all'ultimo piano, tanta era in lui la pratica del luogo, sebbene si trovasse al buio, trovò l'uscio della stamberga, e stese la mano alla corda unta e bisunta del campanello, che rispose con un allegro tintinnio alle sue confidenti strappate.

Subito dopo, un passo frettoloso si udì mettere in iscompiglio i mattoni del pavimento, mobili sulla base e vocali quanto il sasso di Melinone. Ma quello non parve all'Ariberti il passo dell'amico Bertone, e il fruscio di una gonna che accompagnava quel passo e quella musica di mattoni, lo fece pensare piuttosto alla signora Paolina, megèra d'aspetto, e padrona di casa per condizione sociale, che forse era là, nell'assenza dell'amico, a rassettare la camera.

Ma anche qui s'ingannava. La voce che poco stante gli domandò chi cercasse, non era quella, punto armoniosa della signora Paolina.

–Amici!—rispose egli, mentre in cuor suo domandava a sua volta chi diamine poteva essere là dentro, e del sesso femminile, attirato dalle lusinghe di un giubbone di color tabacco, o dagli agi sibaritici di due sedie zoppe e d'un baule spelacchiato.

L'uscio si aperse, e Nicolino Ariberti si vide davanti una ragazza. Almeno, così gli parve nella mezza luce che disegnava i contorni flessuosi e snelli della persona di lei, senza lasciargli scorgere le fattezze del volto. La donna per fermo vide meglio lui, e non dovette sembrargli uomo da chiudergli l'uscio in faccia; chè anzi fu pronta a tirarsi da un lato per lasciarlo passare.

Ariberti rimase perplesso, senza profittare di quel tacito invito. Cercava l'amico Bertone e trovava in quella vece una donna sconosciuta. Chi era costei? Nel tirarsi da banda che ella avea fatto, la luce della finestra la coglieva di fronte ed egli potè rilevarne in di grosso i connotati. Era difatti una ragazza, che poteva avere dai diciotto ai vent'anni, piuttosto alta, abbastanza in carne e di buon colore, sebbene desse un tal po' nell'arsiccio, accusando l'origine campagnuola; gli occhi piccini e maliziosi, il naso tirato leggermente all'insù, la bocca piccola e sorridente, i capegli biondi e indocili al pettine; una figura chifonnée, avrebbe detto il Candioli; in complesso la bellezza del diavolo, che si compone per un terzo di carne, per un terzo di gioventù, e per un terzo d'irregolarità senza difetti fisici apparenti.

Tutte queste cose egli vide in un batter d'occhio. Ella in pari tempo ravvisò in lui un giovine di primo pelo, un po' timido, ma di bello aspetto e signorilmente vestito; perciò lo accolse senza paura, accennandogli che volesse entrare, mentre collo sguardo curioso parea dirgli: «a che debbo io l'onore d'una sua visita?» oppure, se la frase vi par troppo pettinata per una ragazza sua pari: «bel giovine, che cosa volete da me?»

–Scusi, signorina,—balbettò l'Ariberti, impacciato come un pulcino nella stoppia;—cercavo un amico che abita qui… il signor Filippo Bertone.

–Qui non abitano Bertoni;—diss'ella, ma senza aver l'aria di mandarlo via;—ci abito io, Giuseppina Giumella, fiorista presso madama Falcheri, in via Doragrossa, numero 15.—

Tutto quello sfoggio di indicazioni non commosse pure una fibra nel cuore di Nicolino Ariberti.

–Signorina, scusi,—ripetè egli colla medesima confusione di prima.—L'amico mio abitava qui l'anno scorso… È uno studente di filosofia… cioè lo era l'anno scorso… Credevo che ci fosse tornato…

–In filosofia?

–No, volevo dire ad abitare qui. Ma se non c'è più, mi ritiro. Le chiedo scusa… Buon giorno, signorina.—

Quando la signora Giuseppina Giumella si avvide che l'amico Bertone non era un pretesto e che quel timido giovinetto non cercava proprio di lei, uscì sul pianerottolo per fargli servizio e chiamare la padrona di casa.

–Aspetti,—disse ella,—adesso chiederemo alla signora Paolina, e chi sa ch'ella non sappia dove è andato a stare il suo amico Bertone, io non sono qui che da un mese. Signora Paolina!

–Chi è?—domandò da un uscio in fondo al pianerottolo una voce chioccia ben nota a Nicolino Ariberti.

–Son io, signora Paolina;—rispose egli, per mostrare alla ragazza che non era davvero uno sconosciuto lassù;—Sono Ariberti, l'amico di Filippo Bertone.—

In quel mentre l'uscio di fondo si aperse, e la megèra comparve sulla soglia.

–Ah, è lei, signor Ariberti? Cerca del signor Filippo?

–Sì; mi hanno detto che è giunto a Torino e venivo a salutarlo. Credevo che fosse tornato nella sua cameretta, che gli piaceva tanto…

–Oh, per questo ci aveva ragione;—soggiunse la vecchia.—Una camera come quella, non fo per dire, ma non si trova in tutta la via degli Argentieri. E difatti è venuto l'altro giorno da me per riaverla; ma che vuole? Io già l'avevo appigionata. Colpa sua, perchè, quando è partito l'estate scorsa, mi ha lasciato nel dubbio del suo ritorno a Torino. È un bravo giovane, quantunque stia male a contanti, e mi è rincresciuto di perderlo. Ma non potevo mica sacrificarmi… Capirà, signor Ariberti: dodici lire al mese sono poco e son molto, secondo i casi.

–Eh, capisco, dodici lire… già… sono una somma.

–Almeno per me;—proseguì la signora Paolina, Ah, se si fosse —trattato di Lei, signor Ariberti, che ci ha i denari a palate…

–Non tanto, signora Paolina, non tanto;—gridò Nicolino Ariberti ridendo.—Son figlio di famiglia, non lo dimentichi.

–Sicuro, e un bravo giovane, come ce n'è pochi. La non dubiti; il signor Filippo le rendeva giustizia. Egli mi diceva sempre: veda, signora Paolina; di tutti i miei compagni, il migliore, il più sincero, il più studioso, è l'Ariberti.

–Caro Filippo!—esclamò egli, mentre il rimorso, di cui sanno i lettori, gli dava un'altra e poderosa stretta.—E sa Lei almeno, dove sia andato a mettere il nido?

–Oh, La non dubiti; appena lo ha trovato è corso ad avvisarmene. Aspetti, ora mi raccapezzo. Santa Teresa… No, San Francesco di Paola… Nemmeno! Di San Francesco me ne ha parlato, ma là c'era un quartierino di tre camere, un po' caro per la sua borsa. Ecco, ora mi ricordo; è andato proprio a stare in via Santa Teresa, la seconda casa a sinistra; e mi pare che abbia detto il numero 4.

–Ultimo piano, m'immagino.

–Per l'appunto. Sui tetti c'è l'aria buona. Ma dopo tutto il signor Filippo non è parso molto contento del suo nuovo alloggio. La camera è brutta e piccola. Si figuri; un terzo della mia, e non ci ha neanche la stufa.

–Non è poi un gran male;—pensò l'Ariberti;—avercela guasta o non averne è tutt'uno.—

Il lettore discreto capirà che quel suo pensiero il nostro adolescente se lo tenne gelosamente per sè. La signora Paolina credeva nella bontà della sua stufa e a screditargliela le si sarebbe data una stilettata nel cuore.

–Grazie, signora Paolina;—diss'egli in quella vece.—Mi sa mill'anni di vedere Filippo. Corro in via Santa Teresa.

E fatte altre poche parole di commiato, il nostro Nicolino infilò le scale, dopo aver risposto con una scappellata al gentile saluto e al profondo inchino della signora Giuseppina Giumella, fiorista in Doragrossa, a cui certe parole della padrona di casa avevano dato un gran concetto delle ricchezze di quel timido visitatore.

Per altro, Nicolino Ariberti non la passò così liscia, come potrebbe argomentarsi da questo commiato. A mezzo le scale fu ancora trattenuto da una chiamata della signora Paolina, che aveva dell'altro ancora da dirgli. Laonde si fermò ossequente al suono delle venerande ciabatte, ed aspettò che avessero fornita tutta la distanza che già era tra lui e l'ultimo piano.

–Scusi, sa;—gli disse la megèra, abbassando la voce con aria di mistero, quando fu giunta sul pianerottolo dov'egli era rimasto inchiodato;—vorrei pregarla di un'imbasciata pel signor Filippo. La camera che gli piace tanto, un giorno o l'altro sarà libera. La ragazza che Lei ha veduto non vuol rimanerci più molto. Si figuri che siamo al venti, e non ha ancora pagato l'affitto di questo mese. Già, se non pensa a trovarsi un benefattore, poverina, come ha da fare, con quel gramo mestiere che ha per le mani?

–Un benefattore!—esclamò Ariberti, a cui l'età non dava di capire alle prime.—Se posso far io qualche cosa….–

E metteva mano, così dicendo, alla borsa.

–Oh, non a me, non a me!—rispose frettolosa a quel gesto la signora Paolina, come se si fosse scandalezzata all'idea di dover intascare la somma di prima mano.—Se vuol fare una carità fiorita a quella povera ragazza, ci vada lei; quanto a me, Dio mi guardi; potrebbe parere che avessi cantato.—

Nicolino Ariberti nicchiava. Con che fronte si sarebb'egli presentato a quella Flora cittadina, che aveva veduta a mala pena sul suo uscio, e come avrebbe potuto dicevolmente consegnarle la tenue moneta di dodici lire?

–In verità, non ardisco;—diss'egli, dopo essere stato un poco perplesso.

E fu per rimettere la borsa in tasca. Ma qui la signora Paolina si avvide di aver fatto una papera.

–Già, capisco;—ripigliò prontamente.—Lei vuol fare il bene e non averne i ringraziamenti. Si vede proprio che ha buon cuore. Dia dunque il danaro a me; le dirò io donde viene.—

All'Ariberti non pareva vero di cavarsela in quel modo. E alleggerito di dodici lire, ma contento di avere aiutato quella povera figliuola, che non ci aveva lì per lì un benefattore a darle una mano, se ne andò in traccia di Filippo Bertone.

Per altro, egli non doveva sfuggire alla gratitudine della signora Giuseppina Giumella. Il bene che si fa, non si perde. Anche il nostro Nicolino Ariberti se lo avrà a ritrovare tra' piedi. Seguitiamolo frattanto in via di Santa Teresa.

Filippo Bertone era andato ad abitare laggiù. La rondine, al suo ritorno da quelle parti, aveva trovato occupato il vecchio nido ed era andata più lungi a fabbricarsene un altro. L'altezza di questo era a un dipresso la medesima, cioè sotto le travi del tetto. E non è questa forse la postura più acconcia pei nidi? Dopo tutto, il primo nido di Filippo Bertone dava sopra una sequela, anzi una confusione, di tetti più bassi; laddove il secondo dava in una corte abbastanza spaziosa, dov'erano certe scuderie, e vedeva le spalle d'una gran casa, che poteva, dall'altra banda, pretendere al nome e alla dignità di palazzo.

A tutta prima, quel luogo gli era parso un po' troppo signorile e da farlo stare in soggezione col vicinato. Ciò pel di fuori. Quanto all'interno, la camera era più stretta, e Filippo Bertone pensava con raccapriccio che non avrebbe potuto scaldarcisi nell'inverno, come nell'altra in via degli Argentieri.

Il nostro Bertone ci aveva un metodo suo per riscaldarsi d'inverno. Andava in volta su e giù per la camera, imprimendo alle braccia penzoloni un moto isocronico che le faceva combinare ad ogni tratto in croce di Sant'Andrea, mentre le palme andavano regolarmente a battere sotto le ascelle. S'intende che a queste nozze non era invitato il giubbone color di tabacco. Poverino! Un altro poco di strofinio, e se n'andava in isbrendoli.

Filippo Bertone aveva ingegno, e il lettore ha già capito, da una certa stoccata del Balestra all'amico Ferrero, che egli in iscuola faceva qualche volta il lavoro suo e quello degli altri. Ma la sua valentìa non si fermava lì; che a volte, trattandosi di broda scolastica, anche uno sgobbone ci riesce. Filippo non era solamente un giovine studioso; aveva, come suol dirsi, due corde al suo arco, la svegliatezza e la costanza, due cose che vanno così raramente di conserva nei giovani.

Come mai questo miracolo di ragazzo era nato da un umile maniscalco e da una povera massaia di villaggio? Arcani impenetrabili dell'esistenza, i quali, bisogna pur dirlo, sono spesso mirabilmente aiutati dalla mancanza di svaghi d'una casa tapina e dalla fortunata presenza d'una buona scuola di provincia.

Dopo tutto, gli è per l'appunto in provincia che si vedono di questi prodigi. Nelle capitali (e un italiano può aggiungere eziandio nelle metropoli) le buone scuole sono molto più rade; forse per la ragione che il maestro non può darsi intieramente alla cattedra, essere totus in illa, come direbbe Orazio, tanti sono i sopraccapi che lo frastornano, gli svaghi che lo trattengono, le ambizioni che lo tirano in alto. I mediocri, e spesso anche i bisognosi, ci aggiungono la cura delle ripetizioni a casa, conseguenza e cagione a sua volta delle distrazioni in iscuola.

Guardate in quella vece il collegio d'una città di provincia. Le voci, i rumori, le vanità profane del mondo, o non giungono laggiù, o vi mandano a mala pena un'eco affievolita, cioè a dire quanto basta perchè laggiù non si credano a dirittura segregati dal mondo. E fermi lì; il maestro non pensa che alla scuola; ci si distende, dirò meglio, ci si sprofonda; può darsi che ci si dimentichi, può darsi anco che ci si adiri; ma non dubitate, c'è tutto. Spesso è una vittima del cieco caso; frate, chierico, o secolare che sia, è un ingegno che in altri tempi avrebbe potuto dar frutti per sè, e in quella vece s'è ridotto a far fruttificare l'ingegno degli altri. Lo si direbbe un albero che s'adatta a far da palo, e si lascia coprir tutto dai pampini della vite che gli s'intreccia ai rami, e si sostiene, s'innalza, si soleggia per lui. E tuttavia, dura in quell'uomo il sentimento della sua forza, comunque rimasta inoperosa e latente. Sansone dai capegli recisi, aquila a cui furono tronche le penne maestre medita le grandi intraprese, anela agli spazi lontani; e questa sua bramosìa, questo bisogno d'altro, si apprendono allo scolaro. Un maestro cosiffatto ama espandersi, mettere in comune co' suoi discepoli ciò che ha studiato e ciò che viene man mano leggendo. Con chi altri potrebbe parlarne, chetare i bollori della sua mente, avida da un tempo e riboccante di nuovi tesori? Donde avviene che, imbevuti di quella pioggia assidua e benefica, i giovani alunni escano dal collegio più colti e meglio compresi della vita nuova, che non i loro compagni delle grandi città, dove pure questa vita è pane quotidiano, aria respirabile… e chi più n'ha ne metta.

Bisogna dire altresì che lo scolaro ha meno svaghi in provincia. La famiglia, se egli è nato colà, il convitto, se egli c'è giunto da fuori, hanno consuetudini patriarcali. Non feste, non teatri, non allegri ritrovi; qualche sagra tutt'al più; riposo, non turbamento dello spirito. Però la sua vita si raccoglie tutta in iscuola; anch'egli è totus in illa. In tal guisa s'incarna il concetto degli antichi spartani; che certo non volevano la vita chiusa del ginnasio, se non perchè l'adolescente vi si foggiasse il suo mondo. E là i fanciulli s'innamorano sul sodo di quello che studiano, dei greci, dei romani, dei cavalieri e dei bardi, tutta brava gente che, usciti di là, non troveranno più alla prima tappa, ma con cui fa bene aver vissuto un pochino e con una certa dimestichezza fraterna. Credete che tutte quelle larve del passato serviranno poco nel futuro? Sia pure; a noi basta che abbiano svegliato, aperto l'animo giovanile ai concetti del bello e del grande. E badate; se cova in quelle tenere menti una scintilla del fuoco sacro «che il figlio addusse di Giapeto in terra» quella salda, intensa ed amorosa preparazione della scuola di provincia, la nutrirà, la sprigionerà, la farà divampare in incendio.

A Mondovì il giovinetto Filippo Bertone era citato come un genio nascente. Suo padre, facendo sforzi inauditi per metter d'accordo volere e potere, lo avea mandato agli studi in Torino. E il nostro adolescente, che amava svisceratamente suo padre ed era al fatto dei sacrifizi della famiglia per lui, aveva vissuto otto mesi a Torino, cioè a dire tutto l'anno scolastico, senza oltrepassare le quattrocento lire di spesa, tra alloggio, vitto e quel po' di bucato. Era un miracolo di risparmio, per verità. E non si è detto ancora ogni cosa. Su quella somma il povero studente di filosofia ci aveva fatto anche le male spese. Verbigrazia, era andato una volta al teatro Regio per sentire il Mosè, ed aveva pagato dieci lire un'opera di entomologia, scompleta, se vogliamo, ma corredata di molte tavole in rame. Imperocchè, bisogna sapere che la storia naturale era il debole di Filippo Bertone.

Ma intanto, e con tutta la sua assegnatezza di quell'anno passato a Torino, egli doveva accorgersi che anche quattrocento lire erano un troppo grave sdruscio nelle entrate d'una famiglia che campava col lavoro quotidiano e che ci aveva per giunta due fanciulle da accasare. Ne aveva a ferrare dei muli, il povero babbo! Ne aveva a cavare del sangue, nella sua sussidiaria qualità di flebotomo!

Pure, tanto era nel figlio l'amore allo studio, tanta era la onesta ambizione nel padre, che questi al finire delle vacanze, gli aveva posto in mano dugento lire, strappate a fatica da tutti i capi del bilancio domestico, e lo aveva rimandato a Torino.

–Ci caveremo la fame coll'appetito;—aveva detto il vecchio con una fermezza da stoico;—ma tu diventerai un gran medico.—

Il lettore di certo avrà capito che la storia naturale portava la medicina. Del resto, il figlio d'un flebotomo doveva diventar medico, essere il complemento del padre.

Ed era tornato a Torino, mesto nel cuore, ma pieno di buona volontà e di coraggio. Il suo giubbone di color tabacco non gli faceva vergogna. Gli scaffali delle biblioteche, amicissimi suoi, nel rivederlo con quell'eterno giubbone, non glielo avrebbero mica apposto a delitto. Quanto al sogghigno della scolaresca, non gliene importava un bel nulla. Dopo tutto, egli era sempre così contegnoso e stava così poco in orecchio, che le risa dei compagni non giungevano a lui.

Entrato nella capitale, che non contava più di rivedere, e presa la sua iscrizione pel primo anno di medicina, Filippo Bertone era andato ad ossequiare i suoi futuri professori. Si usava poco di farlo; epperò la sua visita tornava tanto più grata a quei parrucconi, in quanto se l'aspettavano meno. Uno di essi, buon vecchio e gran luminare dell'arte, lo aveva squadrato ben bene dal capo alle piante, e, vistolo così male in arnese, gli si era affezionato alla bella prima. Anche lui, il vecchio Esculapio, venuto a' suoi tempi dalla montagna, aveva cominciato così, e amava ricordarsene.

–Studiate;—gli disse, con un suo accento tra burbero ed amorevole;—i poveri debbono insegnare questa virtù ai ricchi. Alla vostra età io vivevo di pane e cacio, e il cacio me lo portavo da casa. Per poter studiare di sera, avevo preso a pigione un sottoscala da un ciabattino, e la lucerna posata sul suo bischetto mi dava modo di leggere. Avete libri? No, me lo imagino. Guardate nella mia libreria; se ci trovate il fatto vostro, servitevi pure.

Filippo Bertone, commosso da quella ruvida e schietta bontà, balbettava alcune parole di ringraziamento.

–No, lasciate andare;—ripigliò il vecchio professore.—Farete lo stesso voi, quando verrà la vostra volta coi giovani, e tutti pari. Un'altra cosa; son solo, e la domenica pranzo, anzi no, desino alle tre. Una minestra e due piatti caldi; il convento non passa che questo. Ma anche la scuola di Salerno raccomanda la temperanza, mio caro.

«Coena levis vel coena brevis, fit raro molesta; Magna nocet, medicina docet, res est manifesta».

Quelle paterne accoglienze avevano un po' consolato il giovinetto. E lo avevano anche ammaestrato a fare un risparmio più grande nelle spese dello stomaco. La domenica era l'unico giorno in cui egli mangiasse. Gli altri giorni, una coppia di pani, con due soldi di cacio, era tutto il suo scialo. Se il Ferrero lo avesse saputo, egli che toscaneggiava volentieri, avrebbe potuto dire che Filippo Bertone viveva di buio, come le piattole.

Ed ecco anche la ragione per cui Filippo Bertone era pallido e punto in carne. Figurarsi! Pane e cacio! E di quest'ultimo, a mala pena due soldi! È vero bensì che la non mai abbastanza lodata scuola di Salerno, tra tutte le altre belle sentenze, ha lasciato questa sul cacio:

«Caseus est sanus quem dat avara manus».

Ma è vero altresì che in nessun luogo del Regimen sanitatis si legge che non s'abbia a mangiare altro che cacio, per companatico; e ciò per sei giorni alla fila.

Per fortuna, il nostro Filippo non aveva spinto l'imitazione fino ad allogarsi in un sottoscala. Se lo avesse trovato lì per lì, forse! Ma non lo aveva trovato; e fu bene per lui. Il suo bugigattolo a tetto pigliava almeno un po' d'aria sana. La finestra vedeva, come ho già detto, in un ampio cortile, sul di dietro di un palazzo, che era ancora per lui senza nome. Ci aveva a stare della gente titolata, in quel luogo, o almeno dei pezzi grossi, perchè ogni mattina si vedevano alla ringhiera del ballatoio due o tre servitori, intenti a spolverare abiti, o a sciorinare tappeti. Filippo Bertone non aveva vedute mai cose più belle. È vero che non ne aveva veduto neppure di somiglianti, o giù di lì.

Poi, sulla gronda del tetto, a tocca e non tocca dal suo davanzale, crescevano tra le commettiture degli embrici, alcuni cespi di semprevivo e d'altre erbe di facile contentatura. Il botanico ci aveva la sua occupazione. E quella finestra gli piacque, e fece proponimento di passare le sue ore di svago piuttosto lassù, che per le vie di Torino. Già, con quel suo giubbone addosso, non c'era da godersela troppo in istrada. Così, salvo le ore di università e di biblioteca, che lo tenevano fuori di casa, il suo spasso era questo, di starsene qualche ora al balcone, a veder crescere le sue pianticelle, seminate dal caso, e a guardare i servitori del palazzo che davano le loro ripulite.

E non era soltanto la gente di servizio che si facesse vedere laggiù. La seconda mattina che Filippo Bertone s'era affacciato al suo abbaino (perchè così e non altrimenti bisogna chiamarlo), da una di quelle finestre dei palazzo, che in tutto il rimanente della giornata soleva esser chiusa, gli era apparsa una bella signora, alta della persona, dal volto sereno, e di regolari fattezze; bianca come un giglio, o, se vi torna meglio, come una gardenia, di cui la sua carnagione aveva infatti i soavi riflessi perlati. L'aspetto a tutta prima poteva dirsi altero; ma il cuore doveva esser buono, e l'animo gentile, poichè ella si era fermata un tratto a guardare con affettuosa cura alcune pianticelle fiorite che ornavano il suo davanzale, e venuta poi nel vano della porta finestra che metteva sul ballatoio, aveva parlato con garbo amorevole ai servi, che stavano ad udirla con rispettosa attenzione. La bontà e la gentilezza non si nascondono; spirano dal volto, trapelano da ogni atto più lieve, e non è mestieri che si manifestino colle parole.

La leggiadra apparizione era durata pochi minuti, troppo pochi pel giovane studente, che la contemplava ammirato, e con quella trepidanza inesplicabile, che cela qualche volta il presentimento.—Oh, se ella guardasse in alto!—pensava Filippo tra sè.—Darei non so che cosa, perchè ella guardasse in alto e mi lasciasse vedere i suoi occhi.

E tuttavia, poco stante, per una di quelle contraddizioni così frequenti nelle anime timide, egli avrebbe voluto essere lontano, molto lontano, dal suo modesto davanzale. La signora aveva alzato gli occhi a guardare il cielo. Niente di più naturale, ma nel guardare il cielo i suoi occhi s'erano incontrati nell'abbaino e s'erano posati un istante sulla pallida faccia di Filippo Bertone.

L'antichità, immaginosa e proclive a stampare in forme sensibili tutto ciò che le passava per la mente, ha significato in parecchi modi l'impressione fatta, anzi, per dire più veramente, il suggello lasciato sul volto da qualche aspetto gradito, o spiacevole, invocato o temuto. Questi a guardare una bella faccia, senz'altro difetto che i capegli un pochino arruffati (e azzuffati) sul fronte, ci rimaneva di sasso, laddove noi, gente più agguerrita, rimarremmo a mala pena di stucco; quegli, a vederne troppo da vicino un'altra, ne riportava per tutta la vita incomodi segni sul capo; un terzo ne usciva trasfigurato e faceva anco la sua volatina a mezz'aria.

Io non dico come uscisse Filippo Bertone da quello incontro dei più begli occhi che ancora gli fosse toccato di vedere in questa valle di lacrime. Certo, il suo abbaino gli dovette parere un po' stretto e un po' basso, per contenere tanta felicità. E notate, anche la trasfigurazione ci fu; quella del sullodato abbaino, che dopo quel giorno apparve agli abitanti in excelsis, incoronato di fiori. Filippo Bertone avrebbe voluto metter là tutto il meglio della flora a lui nota, come a dire argirèe, ipomèe, ed altri stupendi esemplari della famiglia delle convolvulacee; nè avrebbe indietreggiato davanti al sacrifizio di qualche lira di più, per adornare le imposte del suo finestrino coi tralci rampicanti d'una bignonia, che facesse ricadere leggiadramente a grappoli i suoi fiori d'un bel roseo di porpora. Ma il giovine botanico non istette molto a ricordarsi che si era in novembre, a Torino, e che il suo tetto non era una stufa; laonde, si contentò di alcune piante più umili e meno costose, che tuttavia riuscirono ad abbellire il suo nido.

–Quando ella tornerà alla sua finestra e guarderà in alto,—pensava lo studente,—non le dispiacerà questo poco di verde.—

Ma la signora, il giorno dopo, non era più comparsa a quella finestra del secondo piano, nè ad altra del palazzo senza nome. E nemmeno comparve i giorni seguenti, con grande rammarico di lui, che era rimasto più del solito in casa.

–Che cosa vorrà dire?—domandava egli a sè stesso.—Già, capisco, da questa parte son tutte camere di servizio, e non ci avrà occasione di venirci di sovente. Basta, aspetteremo. È comparsa di sabato, e quest'oggi è martedì; chi sa che sabato non torni?—

Egli dunque aveva ancora tre giorni buoni da aspettare, quando Nicolino Ariberti si inerpicò sulla vetta del piccolo Sinai. Filippo stava seduto presso la finestra, con un trattato d'osteologia tra le mani, per studiarvi la interna struttura di questo bel mobile che è l'uomo. Sul davanzale aveva un quaderno, nel quale veniva man mano facendo le sue annotazioni, compendio e ricordo di ciò che leggeva. Ho già detto che i libri non erano suoi. Del resto, quegli appunti quotidiani erano un ottimo espediente per fissar meglio in capo le cose lette, e all'uopo per rinfrescar la memoria.

Ariberti fece un'entrata chiassosa, anzi una vera irruzione, in quel nuovo domicilio dell'amico. Per fermo il nostro Nicolino mirava a far dimenticare il suo tradimento di quella mattina. Ma Filippo, o non ci aveva badato più che tanto, o era magnanimo d'indole e perdonava cosiffatte debolezze agli amici; fatto sta che accolse il nuovo venuto con un sorriso, quantunque gli capitasse ad un'ora un po' incomoda e lo distogliesse dal suo osservatorio.

–Ma sai che si sta bene qui?—gridò l'Ariberti, dopo aver abbracciato con uno sguardo la camera, dal pavimento al soffitto.

–Sì, ne sono abbastanza contento.

–E, come dunque hai potuto dire alla signora Paolina che rimpiangevi il tuo vecchio canile della via Argentieri? Già, capisco; lo avrai fatto per politica…. per complimento….

–No, ti giuro;—disse Filippo arrossendo;—sulle prime la mi piaceva poco.

–Ed ora….

–Ora mi ci sono avvezzato.

–Avvezzato? Oh, oh! Tu ne parli come faresti d'una prigione. Vediamo un po' la inferriata. Non ce n'è; tu sei libero, padrone padronissimo di allungare il collo fuori del tuo abbaino, a contemplare gli amori dei gatti. Ah, ecco un paese di cristiani! Una corte spaziosa, con scuderia! Ci abita della gente per la quale. Bene, bene, Tu mi diventi un aristocratico, Filippo.

–Vieni; ti fo vedere i miei libri;—entrò a dire quell'altro, cercando di tirarlo via dalla finestra.

–Sì, vengo; lasciami dare un'occhiata a questi fiori. Chi si occupa del tuo orto botanico? La padrona o la serva?

–Io stesso,—rispose Filippo,—che era sulle spine.

–Come sai, studio medicina, e la botanica…

–Ah sì, è vero; ma perchè diamine non studiar legge?

–Caro mio, se tutti gli uomini dovessero averci i medesimi gusti, povero mondo! Del resto, quello dell'avvocato è un mestiere da signori. Io sono un Giovanni Senzaterra, e poco o molto che sia, debbo cercare di guadagnar subito il pane quotidiano.

–Ah, povero Filippo, non ci pensavo; perdonami.

–Non c'è bisogno;—soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.—Io non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione, è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.

–Oh, questo, poi….

–Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente, e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con te.

–Scusami;—disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia dell'amico, i più brutti versacci del mondo;—ma la tua retorica non mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo, bisogna parere.

–L'accidente prima della sostanza!—esclamò facetamente Filippo Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.—Io direi anzi il contrario.

–Sì, cambia pure a tuo modo,—rispose l'Ariberti, purchè in fondo io —abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo —dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla —mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose, —create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare —l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane —la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?

–Certo;—replicò Filippo Bertone—ma assicurata questa, non hai libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora di pace?

–E crepi l'avarizia; non è egli vero?—soggiunse ironicamente l'Ariberti.—Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!

–Io!… No, certo;—rispose Filippo, reprimendo un sospiro;—non ho ancora avuto tempo.

–Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una donna come l'ho incontrata io…

–Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber…

–Che! Ti parlo dell'ultima.

–Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?

–Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a teatro.—

Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.

–-Ma sai,—diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,—che tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo, giungerai presto alle mille e tre.

–No, questa è proprio l'ultima;—esclamò l'Ariberti con accento di convinzione profonda;—oramai lo sento, non amerò più altra donna. Figurati, amico mio, una vera Giunone.

–Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.—Conosci Giove?—sei forse entrato nelle sue grazie?

–No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.

–Ho capito; l'Olimpo era a teatro;—notò Filippo, con quel suo fare malizioso ed ingenuo.—E poi, finita la stagione teatrale…

–Ne è cominciata un'altra ad un teatro di prosa. I teatri di Torino io li ho girati tutti, e qualche volta tre in una sera, per veder di trovare la mia bella Giunone. In queste corse a teatro c'è tutta la mia storia di cinque o sei mesi. Poi è venuto il mese di studiare, per prepararmi all'esame; poi le vacanze… ed ora… ed ora capirai che mi sapeva mill'anni di rivedere Torino.

–Per correre sotto le finestre della signora… Giunone.

–Non so dove abita.

–Bravo! Sei molto avanti.

–Ma che farci? La vedevo sempre al Regio e ci volle un secolo perchè sapessi il suo vero nome. Sulle prime non era dentro di me che un pochino di curiosità artistica, o estetica, se ti piace meglio. Non avevo ricevuto dalla sua bellezza che una impressione passeggera, nè più, nè meno di quella che avrebbe potuto far su te. Anche tu, vedendo una bella signora, avrai detto qualche volta a te stesso: «ecco una bella donna», senza bisogno di andare più in là.

–Certamente;—balbettò Filippo, mentre si avvicinava al balcone, col pretesto di strappare due foglie ingiallite ad una rosa delle quattro stagioni;—senza andare più in là.

–Orbene, io che non ci vedevo un pericolo al mondo, guarda oggi e guarda domani, tunfete! ci sono cascato. Innamorato, Filippo mio, innamorato morto. Il guaio si è che, quando me ne avvidi, ero diventato timido come un coniglio. Canzonami, ma la è così, come io te la dico. Ti basti che voltavo gli occhi da un lato, o li piantavo a terra, quando mi pareva di veder volgere i suoi dalla mia parte, e che mi facevo del color della brace, quando per caso il suo binocolo si appuntava su me. All'uscita, ogni sera, facevo il proponimento di fermarmi, per vederla passare. Vuoi credere? Ogni sera mi mancava il coraggio. Vedevo spuntare da un pianerottolo delle scale il lembo della sua veste, e fuggivo. Già, l'anno scorso ero ancora un ragazzo.

–E avrai più coraggio quest'anno?

–Oh sì! l'ho giurato;—rispose solennemente l'Ariberti.—Ho scritto nelle vacanze un migliaio di versi per lei. Sono senza fallo i migliori che ho fatto fin qui. Vuoi sentirne qualcuno?

–Anzi, mi farai un vero regalo.

–Te li dico… Ma, di grazia, lascia un pochino il tuo orto botanico.

–Sì, sì;—disse l'altro, che oramai per quel giorno disperava di vedere la sua bella vicina.

E stette a sentire i versi dell'amico; versi abbastanza belli e più levigati che a quell'età non si usi ancora di farli. Nicolino Ariberti si chiariva in quelle composizioni un divoto seguace dei classici e prometteva (poichè tutti promettiamo qualcosa da giovani) prometteva, dico, alle lettere italiane un nuovo e felice cultore dell'epiteto. La qual cosa, se faceva prova del suo buon gusto letterario, dinotava meno calore d'affetto, e fors'anco d'ispirazione. Almeno, così affermano i critici ed io ripeto. Del resto, da quel profano ch'io sono e mi tengo, so che tra i latini, Ovidio epitetava alla grossa, e Virgilio con giusta misura. Ora, io leggo assai volentieri Virgilio e trovo più calore nel quarto libro dell'Eneide che in tutte le elegie venute dal Ponto. E per venire ai moderni, dove troverete più affetto che nel povero Foscolo? Eppure, che nobil fioritura d'epiteti, giusto Iddio! Ma sono un profano, lo ripeto, e vi dò le mie chiacchiere per quel poco che valgono.

–E questi versi,—disse Filippo Bertone, dopo che li ebbe uditi e lodati,—li farai giungere a lei?

–Spero;—rispose l'Ariberti;—chi sa che non le cadano sott'occhio? Fo conto di stamparli. Si sta fondando in Torino un giornale letterario, artistico, e scientifico, e capirai…

–Ah, bene! E chi ci scrive?

–Io, come puoi figurarti; ma io sono l'ultimo degli ultimi. Ti dirò dunque i nomi degli altri; Ferrero, Vigna, Balestra, il conte Candioli.

–Candioli! Quello sciocco?—non potè trattenersi dallo esclamare Filippo.—E di che cosa scriverà mai, il signor figlio di suo padre?

–Note di viaggi, ricordi parigini…

–Perdinci! E con quel po' di italiano che lo ha fatto passare in proverbio fra tutti gli studenti di rettorica del Piemonte?

–Hai ragione;—disse l'Ariberti ridendo;—ma il conte Candioli scriverà a dirittura in francese.

–Eh, in questo caso,—notò Filippo, chinando la testa—non dico più altro. Temo soltanto una nota diplomatica del governo francese. Ma via, il signor padre è ministro; ci penserà lui.

–Senti;—soggiunse poco dopo l'Ariberti, che era in un momento di tenerezza per Filippo Bertone;—vuoi scriverci anche tu?

–Io? Che cosa potrei scrivere io?

–Ma… quel che vorrai. Di botanica, per esempio. Descrivi magari il tuo orto babilonese. Come ti ho detto, il giornale è anche scientifico e tu saresti proprio la mano di Dio.—

Nicolino Ariberti aveva parlato col cuore sulle labbra, epperciò col desiderio di mettere l'amico Filippo a parte di quel passatempo. Non avrebbe operato diverso, se si fosse trattato di una scampagnata a Moncalieri, o a Superga. Ma poco stante, anzi subito dopo aver fatto l'invito, gli venne in mente la ripulsione, sciocca, se vogliamo, ma profonda, e tale per conseguenza, da non doversi trascurare, che i suoi eleganti compagni sentivano pel giubbone di color tabacco. Era là, appeso alla parete, di rincontro a lui, quel povero giubbone, e certamente ignorava di quanta avversione fossero causa, o pretesto, il suo colore, il suo taglio e la sua antichità venerabile.

Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto solo.

–Mi passi i tuoi manoscritti,—soggiunse egli, a modo di conclusione,—ed io li consegno al direttore… che sarà probabilmente il signor conte Candioli. Tu sei modesto, lo so, e non ami farti conoscere. Orbene, c'è rimedio anche a questo; tu ti nascondi sotto uno pseudonimo. Anzi, vedi, mi par meglio così; lo pseudonimo aguzza la curiosità dei lettori e fa anche bene al giornale, perchè, trattandosi di materie scientifiche, la gente si metterà in capo che abbiamo la collaborazione di qualche professore. Dunque, è intesa?

–No; non mi va;—rispose Filippo accigliato.

–Perchè?

–Perchè non amo gli pseudonimi. Lo scrivere in tal modo mi parrebbe un lavorare alla macchia, per aspettare il giudizio del pubblico, pronti a scoprirsi e gridare: ecce, ad sum qui feci, se il lavoro piace, o a sconfessarlo, e a dir corna dell'autore, se quel lavoro è riuscito e giudicato un pasticcio. So bene che su questo argomento si possono dire molte cose pro e contro, e che uno pseudonimo, segnatamente nei giornali, può ammettersi come un nome di guerra. Tuttavia, letterariamente parlando, mi pare che la comodità del soprannome (e metti anche del nome soppresso, come si usa appunto nella più parte dei giornali) aiuta un po' troppo a tirar giù come viene, in quella stessa guisa che la maschera sul volto aiuta a parlare con una libertà a cui non vorrebbe licenziarsi una faccia scoperta. Te l'ho dunque detto, non mi va. Se scriverò qualche cosa lo farò sempre col mio nome, umilissimo, se vuoi, ma schiettamente disposto a pigliarsi il biasimo, come si piglierebbe la lode.

Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda voltarsi.

–Del resto, ti ringrazio della profferta;—ripigliò Filippo, con accento malinconico,—ma non potrò scrivere nel nuovo giornale. Questo lusso non è fatto per me. Si perderebbe del tempo, ed io non posso perdere neanche un'ora del mio. Vedi, Ariberti; io dovrò faticar molto per vivere agli studi in Torino, e cercarmi forse qualche occupazione fuori via, per guadagnarmi il diritto di restare. Hai da offrirmi lavoro? Lo accetto, qualunque esso sia. C'è da far l'amanuense? Ho, grazie al cielo, una bella mano di scritto. Far di conti? Ho l'aritmetica sulle dita. Vegliare infermi? Non patisco il sonno. Corregger bozze di stampa? Ho buoni occhi. E poi, non vedo che una cosa; rimanere agli studi. Sono venuto con questa idea. Forse è una vanità pericolosa, fatale, che è nata in capo al mio povero padre; ma ti assicuro che dal canto mio farò ogni sforzo, ogni sacrifizio, perchè il futuro non mi dia una smentita. Entro per la via più difficile; non avrò gioventù; ci vuol pazienza; ed io ne ho quanto occorre. Addio giuochi; addio passatempi; addio lieti indugi (come li chiamava il mio maestro di rettorica) cogli amici e i compagni di scuola; ho rinunziato a tutte queste bellissime cose, pensando alla mia famiglia che soffre, che si priva del necessario per me. Questo, intendiamoci—soggiunse Filippo con una grazia e con una nobiltà che avrebbero fatto onore ad un artista più provetto di lui sul palcoscenico della vita,—non torrà che io ti accolga volentieri quassù. Quando vorrai studiare, o avrai qualche rammarico da sfogare con un amico sincero, vieni liberamente; sarai il benvenuto in questo aereo nido.

–Grazie!—mormorò l'Ariberti, commosso da quella triste schiettezza. E diede frattanto un'occhiata furtiva a quel giubbone di color tabacco, che gli parve risplendere, appiccato alla parete, più glorioso di uno stinco di santo.

–E a proposito di nido,—continuò Filippo Bertone,—ti ricordi degli uccellini? Nella nidiata ce n'è sempre uno, venuto su a stento, che è l'ultimo a impennarsi e a volare, quando pure ci riesce. Piccino e balordo ma non per sua colpa, lo chiamano comunemente la cria, Qualche volta il poveretto non vince l'avversa fortuna, e muore nel nido, abbandonato dalla madre, che non ha potuto addestrarlo al volo e che ha fretta di portare via i suoi fratellini, nati tutti vitali. Farò anch'io questa fine? Non lo so; ma mi par di poterti dire che questo nido è fatato; o sarà il mio trampellino, per ispiccare il salto, o sarà la mia tomba.—

Così parlava Filippo Bertone. Nicolino Ariberti avrebbe voluto dire qualcosa, per consolare l'amico; ma pensò giustamente che quello non aveva bisogno di consolazioni, come non aveva bisogno d'incoraggiamenti. Son rari, ma pure qualche volta si trovano, questi uomini privilegiati dal destino, solitarî sventurati e sereni, che possono dar consiglio altrui, ma non riceverne per sè. Si direbbe che cosiffatti caratteri sfuggono alla legge di compensazione, che fa di tutte le esistenze una catena e di tutte le creature un aiuto scambievole; tanto essi appariscono bastare a sè medesimi, anco nella più umile delle condizioni sociali, e trovare in sè stessi ogni cosa, non esclusi i balsami per le proprie ferite, come per quelle degli altri.

La notte del Commendatore

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