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CAPITOLO SEI

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“Questa volta il caffè non lo vado a prendere,” disse John austero.

Adele scosse la testa mentre avanzava in direzione dell’ingresso dell’ospedale.

L’agente Marshall era già vicina alle porte di vetro rotanti. Sorrise educatamente e fece segno a lei e John di seguirla. I tre agenti entrarono nella lobby dell’ospedale e vennero accolti dall’odore dolce e nauseante di detergenti e disinfettanti. Adele sentì subito un prurito dietro al collo. Scosse la testa. C’era qualcosa negli ospedali che le dava sempre i brividi. Segretamente sperava che se mai si dovesse ammalare gravemente, la gente la lasciasse morire in pace nel suo letto, piuttosto che trascinarla in un posto orribile come quello. E neanche i dottori le piacevano particolarmente.

John andò dritto al bancone dell’accoglienza e parlò in francese: “Mademoiselle. Ha dei medici che parlano francese che si occupano di Amanda Johnson?”

La donna dietro al banco lo fissò esitante. Guardò uno dei suoi colleghi, ma il giovane uomo scrollò le spalle.

L’agente Marshall si avvicinò, toccando delicatamente il gomito di John. Parlò sommessamente e con rapidità agli infermieri e alla fine vennero tutti accompagnati a un ascensore in fondo all’ampio atrio. Passarono accanto a un paio di piante in vaso finte. Di nuovo Adele pensò a quanto odiava gli ospedali.

“Va tutto bene?” le chiese John, mentre le porte dell’ascensore si aprivano con un ding e loro entravano.

“Tutto ok,” rispose lei senza tanti giri di parole.

“Stai sudando,” le disse. “Fa freddo. Perché stai sudando?”

“Non sto sudando, taci.” Adele si girò, ma quando John riportò la sua attenzione sulla Marshall, mettendosi a chiacchierare con la giovane agente mentre l’ascensore arrivava al piano, si passò una mano sulla fronte. Umida. Stava sudando. Dannazione. Doveva sforzarsi di tenere a bada le proprie emozioni, anche in un posto come questo.

Uscirono dall’ascensore e si trovarono davanti un altro lungo corridoio con finestre di vetro da entrambi i lati. In lontananza si udivano suoni di macchinari: un altro rumore che le dava lo stesso effetto di unghie su una lavagna.

“Sei sicura di stare bene?” le mormorò John in un orecchio.

“Sto bene. Andiamo a vedere se riusciamo a trovare questo dottore.”

La Marshall, sentendo la conversazione, disse educatamente: “Il capo reparto che si occupa del caso di Amanda sa parlare inglese. Ho richiesto che ci aspettasse fuori dalla sua stanza. Da questa parte.”

La Marshall fece strada attraverso tre porte chiuse. Due avevano tende, ma una era aperta, con tre infermiere all’interno che indossavano i loro camici verdi e stavano tentando di sollevare un uomo debole e anziano per metterlo su un lettino con ruote.

La scena, gli odori, i bip bip dei macchinari. Tutto l’insieme provocò in Adele un altro spasmo di timore esistenziale. Per qualche motivo, pensò a Robert. Pensò alla sua tosse, alla sua età. Forse avrebbe fatto bene a correre un altro paio di ore domani. Sì, questo le avrebbe schiarito le idee.

Alla fine si fermarono davanti a una porta a vetri aperta. C’era un uomo che li stava aspettando. Aveva uno stetoscopio infilato malamente nel taschino del suo camice blu e una targhetta con il nome appuntata al petto.

“Dottor Samuel,” disse l’agente Marshall. “Abbiamo parlato al telefono poco fa.”

Il medico era di mezz’età, con la barba bianca candida e gli occhi contornati di rughe. Ma laddove le rughe del camionista erano d’espressione, generate più che altro dal sorriso, quelle del dottor Samuel erano rughe di preoccupazione.

“Non ho molto tempo,” disse senza tanti convenevoli. “Come posso aiutarvi?”

L’uomo parlava un inglese perfetto. L’espressione di John si illuminò e gli rispose con il suo pesante accento. “È lei che si occupa del caso di Amanda Johnson?”

Il dottore annuì. Non offrì nessun’altro particolare e aspettò, un piede nella stanza e uno fuori.

All’interno Adele scorse la figura della vittima distesa su un letto. La camera era buia, le luci spente. Tre diversi scherni mostravano i segni vitali della ragazza, con numeri che lampeggiavano e pulsavano. La giovane giaceva immobile sotto a due coperte. Il respiratore sembrava un macchinario estraneo, un dispositivo di invasione. I tubi, il metallo, le luci intermittenti: il tutto contribuì ad aumentare l’ansia di Adele. La ragazza sembrava così piccola, come una bambina rinchiusa in una trappola per orsi, o avvolta in una bara di tubi, metallo e vetro delle dimensioni di un ospedale.

Adele rabbrividì e distolse lo sguardo, rifiutandosi di continuare a guardare. “C’è niente che possa dirci?” chiese a labbra strette. “Si riprenderà?”

Il medico parlò con tono rapido e secco. Sembrava irritato dalla loro presenza, ma Adele sospettò che fosse irritato da tutto. “La poverina è scappata,” disse. “Ha passato ore nella foresta. Ecco,” disse. “Guardate voi stessi.”

Tirò fuori una cartella da una fessura accanto alla porta e la porse ad Adele. Lei abbassò lo sguardo, sfogliando le grandi foto, gli occhi che si socchiudevano su ciascuna.

Prima di tutto vide i piedi della ragazza. Tagli profondi su tutta la pianta, la pelle sbucciata, la terra sotto alle unghie e all’interno delle ferite. Due unghie mancavano del tutto e un paio di dita erano di colore bluastro.

“Congelati?” chiese Adele.

“Quasi,” disse il dottor Samuel. “Quei tagli, li vede? Per aver corso a piedi scalzi nella foresta. Terreno duro. Qualsiasi cosa l’abbia spaventata, l’ha fatta andare avanti nonostante il dolore.”

Adele annuì. “E il resto del corpo?”

Il dottore tirò fuori la prima immagine, girandola sopra alla cartella. Indicò quella accanto. “Altri lividi e piccoli tagli in tutto il corpo. Qui e qui.”

Adele scorse dei graffi sopra all’ombelico e altri lividi sopra al petto della ragazza.

“Ma qui,” disse l’uomo, “queste sono ferite più vecchie. Vecchie cicatrici.”

“Quanto vecchie?” chiese Adele rapidamente.

Il medico scosse la testa. “Nella sua condizione è difficile dirlo. Stiamo ancora cercando di capirlo. Ma non pensiamo che sia rilevante per la sua condizione attuale.”

“Cinque mesi?” chiese Adele.

Ma il medico scosse la testa. “Di più. Anche se questa,” disse sommessamente, “potrebbe rientrare in quel lasco di tempo.”

Passò all’ultima foto, che mostrava la sommità della testa della ragazza, con parte dei capelli rasati.

“Che cos’è?” chiese John.

Adele guardò soltanto. C’era una piccolissima cicatrice sopra a un lembo di carne sollevato. Era guarita, ma malamente.

“Questa ha cinque mesi?” chiese Adele.

“Cinque mesi senza cure od ospedale. Cinque mesi se qualcuno continua a stuzzicarla. Sì. Può vedere come si è allargata la cicatrice e come la ferita non si sia mai del tutto rimarginata.”

Adele si voltò lentamente verso John e l’agente Marshall, inarcando le sopracciglia. “Cinque mesi fa. Pensate che sia stato in questo modo che l’aggressore l’ha sottomessa?”

Il dottor Samuel si schiarì la gola. “È stato un colpo alla nuca. Potrebbe benissimo averle fatto perdere conoscenza, se è questo che vi state chiedendo.”

Adele premette le labbra tra loro, pensando. Guardò il contegno preoccupato del medico, il suo volto segnato dalle rughe. “Nient’altro?”

“Ho trovato qualche altra ferita. Segni di abusi. Un braccio rotto e risistemato in malo modo. Segni che potrebbero corrispondere a lividi causati da pugni. Ho anche visto dei graffi sulla schiena della ragazza che potrebbero derivare da un animale o da unghie lunghe.”

“Magari uno degli altri rapiti dallo psicopatico?” commentò John sottovoce. “Ha detto che ce n’erano degli altri.”

Adele esitò, considerando tutti quei dati preoccupanti, poi si rivolse nuovamente al dottore. “Quante possibilità ci sono che sia in grado di parlare con noi?”

Il medico stava ancora con un piede sulla soglia e uno fuori. Scosse la testa. “Non molte. Le possibilità di un recupero totale sono scarse. Come ho detto, è rimasta in quella foresta per ore, a correre tra gli alberi. I tagli non sono l’unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci. Il freddo ha avuto il suo effetto sui suoi polmoni. Era in ipotermia quando è arrivata qui.”

“È sedata?”

“Per il dolore. Ma non molto. È in coma. Attaccata al respiratore.”

Adele guardò ancora nella stanza e le ci volle un momento, ma poi scorse il macchinario di compressione dell’aria: una cosa in plastica bianca e beige con un sacco di pulsanti.

“La ragazza è rimasta sui suoi piedi così a lungo solo perché è di tempra tosta,” disse il medico. “Molte persone potrebbero non avercela fatta per così tanto tempo in mezzo alla foresta. Soprattutto non avrebbero percorso tanta strada. L’adrenalina l’ha spinta avanti. È stata fortunata a trovare la statale in quel momento. Altrimenti sarebbe morta in qualche buca in mezzo al bosco.”

Adele si accigliò. “È un pensiero macabro.”

“Eppure vero. Senta, ho altri pazienti. Se non c’è altro,” disse il dottor Samuel interrompendosi.

Adele guardò i suoi colleghi, ma loro rimasero in silenzio. Gli investigatori salutarono il medico e lo guardarono allontanarsi, percorrendo il corridoio con passi lunghi che stridevano con il suo aspetto anziano.

Adele si girò verso la Marshall. “Hai il numero di telefono dei genitori della ragazza?”

La Marshall non perse un secondo. “Negli Stati Uniti? Con il fuso orario, è giorno inoltrato e dovresti riuscire a trovarli al telefono.”

Adele annuì riconoscente e aspettò che la Marshall sfogliasse il suo bloc notes alla ricerca dei giusti dettagli.

La porta vicino alla quale il dottore si era trovato fino a poco fa si stava ancora chiudendo, rallentata da un meccanismo a molla sopra alla cornice. Quando si fu chiusa, li escluse dalla vista della stanza, con il respiratore e Amanda Johnson.

“Troviamo una sala del personale, così posso fare questa chiamata,” disse Adele, la bocca nuovamente tesa in una linea severa.

***

Adele ascoltava il sommesso trillo del telefono. Aveva su di lei un effetto stranamente calmante: il metallo fresco premuto contro la guancia, il tut tut che assomigliava al cinguettio di una ninna-nanna. Era seduta con un ginocchio premuto contro la lunga gamba di John. Lui era accasciato sulla sua sedia, le braccia incrociate e gli occhi fissi su di lei.

L’agente Marshall ancora una volta stava in piedi. Adele si chiedeva se la giovane agente fosse mai stanca. La Marshall aveva chiuso la porta della sala del personale alle loro spalle e aveva anche tirato le tende per ottenere maggiore privacy.

Adele ascoltava il trillo.

Abbassò lo sguardo sul numero sotto al suo braccio piegato, scritto a mano su un pezzo di carta che la Marshall le aveva dato. Il numero era giusto. Forse aveva sbagliato con il fuso orario.

Un altro trillo. Adele stava per mettere giù il telefono, quando si sentì un’interruzione, un fruscio e poi una voce dall’altro capo della linea parlò. “Pronto? Chi è?”

La voce era allerta, ansiosa.

“Salve, sono l’agente Sharp. Sono dell’Interpol. Parlo con il signor Johnson?”

La voce le arrivò ora più lontana, come se il telefono fosse stato abbassato un momento. “Tesoro, è l’Interpol. Sono in linea. Sì, adesso, sbrigati.”

Poi la voce divenne di nuovo forte e chiara. “Scusi il ritardo. Eravamo fuori con il cane. Qualche aggiornamento? Ecco…” Una pausa e l’uomo si schiarì la gola. “Immagino stia chiamando per nostra figlia.”

Adele si trattenne prima di annuire e disse con tono risoluto: “Sì. Mi scuso se ci sono stati dei ritardi da parte nostra. Sua figlia è viva. Detto questo, volevo…”

Prima che potesse continuare, udì un lieve sussulto dall’altra parte. La seconda voce, più lontana e quasi impossibile da distinguere disse: “Grazie, oddio. Grazie, Signore santo.”

La prima voce, quella del signor Johnson, proseguì: “Sono belle notizie da sentire. L’ultima volta che ci hanno contattati non erano sicuri che ce l’avrebbe fatta.”

Adele arricciò il naso. Non si era resa conto di essere stata designata a unica comunicatrice di notizie alla famiglia Johnson. Immaginò che, essendo americana, aveva senso che i tedeschi le lasciassero quel compito. Cambiò rapidamente tattica, cercando di gestire al meglio quel suo nuovo incarico. “È ancora presto,” si affrettò a dire. “Non è in buone condizioni. Non ho intenzione di mentirvi. Non sono ancora certi se si potrà riprendere del tutto.”

Mentre parlava, sentì che la sua voce vacillava. Una leggera frammentazione del suono, ma che bastò a prenderla alla sprovvista. Continuando a tenere il telefono sollevato, la sua fronte si aggrottò. Uno strano miscuglio di emozioni gli stava crescendo nel petto. Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi, ma sebbene il signor Johnson le stesse rispondendo dall’altro capo della linea, lei aveva difficoltà a seguire le sue parole.

Sanguinante… Sanguinante… Sempre sanguinante…

Il lampo di un’immagine – un sogno, il fotogramma di una vecchia foto – Adele lo ricordava a malapena. Le si presentava di notte, di solito. Sua madre, mutilata, distesa in un giardino francese. Morta. Ricordava di essere volata in Germania subito dopo per stare con suo padre. Ricordava le telefonate… molto simili a questa. Telefonate da lontano. Telefonate che criticavano l’esperienza più straziante delle loro vite, facendo domande, chiedendo risposte. E alla fine di tutto?

Niente. Sua madre sempre morta. L’assassino sparito.

Questa volta, la storia non poteva finire con un niente. Questa volta le telefonate da nazioni lontane non potevano essere semplicemente delle interferenze, un rumore bianco stagliato sullo sfondo della calamità. Questa volta doveva essere diverso.

Adele ricacciò giù la bile che le saliva alla gola. Chiuse gli occhi davanti alle improvvise immagini che riempivano la sua vista sotto alle palpebre chiuse. E poi, espirando, fece del proprio meglio per ascoltare.

Il signor Johnson stava ancora parlando: “… proprio niente? Non c’è nulla che possiamo fare per aiutare?”

Adele deglutì ancora. La sua voce le suonava roca nelle orecchie e per un momento si sentì gli occhi della Marshall addosso. Alla fine parlò: “Abbiamo qui alcuni dei migliori dottori del mondo. Stanno facendo il possibile. E… e anche io…” Si interruppe sull’ultima frase. L’urgenza, il bisogno di promettere. Di tenere a bada le paure, il terrore che serpeggiava nella famiglia di Amanda. Adele conosceva quella paura, ma per lei era stata carica di dolore. Per ora ai Johnson era stato risparmiato quel risvolto particolarmente amaro. Ma alla fine, se i medici non avessero trovato una soluzione… l’avrebbero vissuto anche loro.

“Tesoro,” disse la seconda voce, più delicata, più liscia. “Tesoro, andrà tutto bene. Abbi fede. Andrà tutto bene.”

Adele udì una pausa, poi un’altra conversazione sussurrata tra le due voci. Gentile, non contenziosa. Provò un leggero sollievo. Nella sua esperienza c’erano due tipi di reazioni a notizie del genere. Potevano servire a tenere la famiglia ancora più unita, o strapparla del tutto, lasciandone solo dei brandelli. Almeno per ora, i Johnson sembravano seguire la prima strada. Avrebbero avuto bisogno l’uno dell’altra nei giorni a venire.

Adele riprese la parola. “Sono sicura che riusciremo ad aggiornarvi non appena avremo qualcosa di nuovo. In un senso o nell’altro.”

Il signor Johnson rispose. “La nostra Amanda è una ragazza forte. Si riprenderà. Ne sono sicuro. Si fidi di me.”

Adele fece un piccolo e triste sorriso. Ma svanì subito, mentre le stesse emozioni di prima si contendevano la sua attenzione. Sanguinante… Sempre sanguinante… “Lo spero proprio. È forte. Avete detto bene.” Adele pensò ai commenti del medico. Aveva corso per ore nella foresta, al freddo, i piedi sanguinanti, feriti. Un gomito slogato e rimesso a posto. Lividi in tutto il corpo. La ragazza aveva sofferto qualcosa di orribile. Nello stesso modo in cui anche Elise aveva sofferto. Almeno Amanda ne era venuta fuori viva.

“Se c’è qualcuno su cui scommetterei, è proprio lei. Ma mi ascolti un attimo.” Adele di nuovo mantenne un tono professionale nonostante l’improvvisa imboscata da parte dei suoi pensieri. Un’abilità più volte esercitata, ma non facile da mettere in atto. “Ho bisogno di sapere se era normale per sua figlia viaggiare con amici.”

Questa volta fu la voce femminile a rispondere al telefono. “Ispettore, signore,” disse la voce, suggerendole che Adele non era stata messa in vivavoce.

“Sì, signora Johnson?” le rispose.

“Oh, sì, scusi, signorina.”

Adele mantenne un tono gentile, completamente privo di ripicca. “Sono l’agente Sharp.”

“Agente Sharp. Nostra figlia faceva sempre di questi viaggi con i suoi amici. A volte si dividevano e proseguivano le loro esplorazioni per un po’ da soli, per poi ritrovarsi.”

“Ed è stato a questo punto che è scomparsa? Quando si sono divisi?”

“Sì,” disse la voce della donna, incrinandosi un secondo, per poi presentarsi più squillante e continuare. “Per quello che possiamo immaginare.”

“C’è stato niente di strano al tempo? Nessuna telefonata? Nessuno che le desse fastidio? Magari anche uno dei suoi amici?”

“Niente. Niente del genere. Amanda era felicissima per quel viaggio. Tutte le sue chiamate erano piene di risate e gioia quando ci raccontava le cose che aveva visto. Amava viaggiare. Niente fuori dall’ordinario.”

“Signor Johnson?” chiese Adele.

“Non ho detto niente,” disse la voce della signora Johnson.

Si sentì qualche fruscio e la voce del signor Johnson tornò in linea. “Sono sicuro che non intendesse niente di offensivo, cara. Vuole solo sapere tutti i fatti.” Poi con tono più forte aggiunse: “Niente. Proprio come dice mia moglie. Amanda era felice. Entusiasta. Chi le avrebbe mai fatto una cosa del genere. È… è stata lei da sola? Quando ci hanno contattato la prima volta, la polizia tedesca ha detto che l’avevano trovata.  Qualcuno le ha parlato? Avete dei sospetti?”

Adele odiava quella parte. Il necessario ma doloroso velo tra i cari e l’indagine. Fece del proprio meglio per gestirlo dicendo: “Alla fine speriamo di capire tutto. Perché questo accada, avrò però bisogno di un po’ di tempo. Spero che me lo concederete. Da quello che ho visto e sentito, vostra figlia è una ragazza molto forte. Concentrerei i miei pensieri su questo. Il resto lasciatelo a me, ok?”

Qualche respiro pesante, ma poi: “Va bene. Grazie, agente Sharp.”

“Un’altra cosa,” disse Adele. “Se potete farmi un piacere, e so che è una grossa richiesta, ma sarebbe di aiuto: potreste scrivere, per quello che ne sapete, l’itinerario di vostra figlia? Da quando ha lasciato gli Stati Uniti a quando è sparita. Qualsiasi cosa vi venga in mente. Dove possa essere andata con i suoi amici, qualsiasi email possa avervi mandato dai diversi posti che ha visitato. Alberghi, motel, B&B. Come ho detto, so che è tanta roba, ma sarebbe di aiuto. Vi farò dare la mia email dall’agente che vi ha contattati prima di me. Potete inviare il tutto direttamente lì.”

“Sicuramente,” disse il signor Johnson con la voce leggermente affaticata.

Per un momento regnò il silenzio. Poi Adele si morse il labbro e prima di potersi trattenere, uno sfogo di ciò che stava provando dentro di sé si palesò esternamente. “Scoprirò chi è il colpevole. Ve lo prometto,” disse, la voce tutt’a un tratto tirata. “Troverò il colpevole. Vostra figlia se lo merita… Alla fine, lo scoprirò. Va bene? So che fa paura, essere lontani. Avere la sensazione di non poter aiutare. Ma giusto perché lo sappiate… ci sono passata. E troverò il colpevole. Ve lo prometto.”

L’improvvisa fuga di emozioni parve scatenare una reazione simile dall’altra parte della linea. Adele sentì qualcuno che piangeva sommessamente di sottofondo, poi il signor Johnson parlò con voce brusca. “Una promessa coraggiosa, agente Sharp. Credo che lei stia parlando sinceramente.”

“È così.”

“Buona sera, agente. Buona fortuna.”

Si salutarono e Adele abbassò il telefono, permettendo alla coppia di mettere giù per primi e interrompere la chiamata.

“Niente?” chiese John. Aveva preso un sacchetto di patatine dal distributore automatico, ma grazie al cielo aveva aspettato ad aprirlo durante la chiamata. Ora però, prima che Adele potesse rispondergli, lo aprì.

“Niente,” gli disse lei mentre lui masticava rumorosamente. Respirò dal naso, calmandosi più che poteva. Poi si concentrò. Prima di tutto veniva il caso. Le promesse non significavano niente senza i fatti. “Niente di nuovo, almeno. Per loro era normale dividersi. Non lo so. Forse dovremmo parlare con alcuni dei suoi amici. Vedremo.”

“Era normale per lei anche sparire per cinque mesi?” chiese John. “È successo qualcosa, qualcosa di fuori dall’ordinario. Ma cosa?”

Adele annuì. “È qui che entriamo in ballo noi.”

Si mise in tasca il telefono, si sistemò le maniche e poi andò verso la porta.

Non resta che uccidere

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