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III

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L'arrivo di Loreta fu stabilito per l'ultima settimana di ottobre. Prè Letterio l'aveva preannunciato con una lettera affettuosissima, in cui si dichiarava addolorato di non potere, a cagione di certi gravi suoi affari, recarsi al paese per assistere alla venuta della sua protetta.

In casa Sant'Angelo già da qualche settimana era quello il discorso di tutte le ore.

A mano a mano che il giorno dell'arrivo si approssimava, cresceva la impazienza della signora Chiara. E lo stesso professore, che di solito serbava in ogni cosa la piena serenità dell'animo, non sapeva sottrarsi dal dividere la irrequietezza di sua madre, la quale per parlargli di quell'argomento aveva perfino smesso il suo abituale scrupoloso riguardo di entrare nello studio di lui, durante le ore ch'egli consacrava al lavoro.

Tale irrequietezza doveva spiegarsi assai facilmente da quanti conoscevano il modo uniforme di vita che i due Sant'Angelo conducevano da tanti anni. Soltanto che, mentre nell'animo della signora Chiara altro non era che la spinta della sua bontà e il forte desiderio di conoscere questa ignorata parente, in quello del professore era pure un dubbio molesto, sortogli involontariamente per effetto di qualche parola maligna, ch'egli aveva potuto cogliere quasi per caso sulle labbra di alcuni conoscenti.

Una sera, al Caffè della posta, un vecchio amico di casa, il conte Leonardo Mangilli, un burberaccio che godeva in paese la fama di un vero orso, mentre gli altri, venuti a conoscenza del divisamento del Sant'Angelo, gliene davano in coro gran lode, s'era lasciato scappare una delle sue solite sfuriate:

–Eh! una giocata al lotto, professore mio! Non si sa mai che numeri sortono da quella ruota benedetta. E poi io, io che orso lo sono sempre stato, a' miei parenti, peggio che al diavolo, la porta l'ho sempre serrata a triplo giro. Chi ha la pace non si muova, dice il proverbio!.. E dice assai bene!

Gli altri s'erano messi a far baccano: "quello scettico del conte Leonardo aveva sempre le sue; a sentirlo pareva che ci avesse un cuore con tanto di pelo; invece…" E avevan finito per celiare tutti, compreso il conte, il quale provava una certa soddisfazione a vedere come la gente lo tenesse in fondo per un burbero benefico di quelli della vecchia commedia.

Ma il professore Mattia di coteste parole si ricordò. E quella sera, quando fu solo nel suo studio, in mezzo a' libri, in quell'ambiente tranquillo dove passava tante ore deliziose, stette a lungo collo sguardo fisso sulle pagine di un volume, aperto dinanzi a lui, vinto da una strana preoccupazione. Il proverbio che il conte aveva citato gli ronzava all'orecchio fastidiosamente… Se, obbedendo ad un consiglio inspirato dalla bontà, avessero commesso un errore? Se per quella decisione presa con troppa sollecitudine, avessero dovuto poi subire qualche amarezza?.. Fatta questa prima riflessione, una lunga catena di pensieri tristi, nerissimi, pieni di torve previsioni, si formava nella mente del professore. Vecchie storie dimenticate, nelle quali la ingratitudine umana era sorgente di dolori e di ansietà, rinascevano nella sua memoria. Di molti fatti analoghi si ricordava: amici suoi che per animo buono eran stati spinti al beneficio e ne avevano avuto pagamento colle peggiori disillusioni. Poi… conoscevano essi abbastanza quella giovane che stavano per accogliere? Chi era? Donde veniva? Che cosa aveva nel suo passato?.. È vero, Prè Letterio l'aveva raccomandata: era uomo di coscienza, e non l'avrebbe fatto senza convinzione. Ma d'altro lato non poteva essere stato tratto in inganno egli pure?.. E lo afferrava quasi un pentimento e si sentiva assalito da un arcano timore pensando che sua madre avrebbe forse un giorno potuto dolersi del passo che avevano fatto.

Di tali suoi timori il professore Mattia, nel desiderio di alleggerirsi l'animo di una preoccupazione della quale provava acuta molestia, aveva voluto muovere qualche accenno anche alla signora Chiara.

Lo aveva fatto attendendo con pazienza il momento opportuno, senza darvi importanza, a velate parole. Ma la signora Chiara gli tappò la bocca subito, con una di quelle frasi, piene di dolce mitezza, che erano in lei consuete e per le quali si faceva adorare:

–Che vuoi che avvenga, figlio mio? Al bene si risponde col bene. Noi abbiamo offerto la nostra casa a questa giovane sventurata, come era nostro dovere, con tutto il nostro cuore. Ella non potrà non amarci. E poi-non ridere, sai, se ti dirò una cosa-ma credi che i miei presentimenti non contino per nulla?

Il professore non si tenne dal sorridere.

–Oh! mamma, i tuoi presentimenti!

–Già, già, lo so, tu li metti in canzone. Roba da vecchiette, che amano le fantasticherie… Ma intanto-voialtri gente seria, fìlosofoni che non credete a nulla di nulla, potete ridere quanto volete-certi presentimenti non fallano mai! E questa volta…

–Ebbene, mamma, questa volta?

–Sono presentimenti de' migliori! – fè la signora tutta allegra, fregandosi le mani.

Il professore, dinanzi alla figura così placida, così serena di sua madre, sentì anche questa volta, come sempre nelle incertezze della propria vita, venire una tranquillità soave nel suo spirito:

–Iddio voglia che sia così, mamma, – disse. E non ci pensò più.

Intanto il giorno della venuta di Loreta era giunto e mezz'ora prima dell'arrivo del treno il professore Mattia trovatasi già in attesa alla stazione di Tricesimo.

Passeggiava impaziente in su ed in giù dinanzi alla piccola casa, tendendo l'orecchio se si udisse il rumore del convoglio, affacciandosi allo stanzino ove il capostazione se ne stava curvo sull'apparato del telegrafo, per sapere se per caso fosse segnalato qualche ritardo. Intanto fuori, sulla strada, di là dallo stecconato dipinto di verde, Agnul stavasene curiosando anche lui, colla frusta fra le mani, accanto al cavallino che sonnecchiava.

Il treno finalmente arrivò.

L'unica persona che scese a quella stazione fu Loreta Lambertenghi. Ma se anche ve ne fossero state cento, il professore Mattia non avrebbe durato fatica a riconoscerla, tanto la sua figura era distinta e tanto rassomigliava al ritratto fattone da don Letterio Prandina.

Era una donna ancor giovane, alta, bruna, molto pallida, dalle vesti di lutto semplicissime. Portava un cappello rotondo, di paglia nera, e sul viso una veletta grigia sotto la quale brillavano due occhi grandi e profondi.

Scese rapidamente da una carrozza di terza classe e volse subito uno sguardo in giro come cercando qualcuno.

Il professore Mattia si avanzò:

–La signorina Lambertenghi… – chiese con voce un po' tremante.

La ragazza ebbe un sorriso di piacere.

–Sono io. E lei… il professore Sant'Angelo?

–Sì.

Si strinsero la mano non trovando subito altro da dirsi, con quella incertezza che non si scompagna mai da un primo incontro il quale avvenga in così delicate contingenze.

–Ha fatto un buon viaggio?

–Buonissimo; solo mi parve tanto lungo. Non vedevo l'ora di essere arrivata.

–L'attendevamo anche noi con tanto desiderio. La mamma poi…

–Sua madre! Come dev'essere buona!

E uscirono dopo che il professore ebbe incaricato un guardiano della stazione di ritirare il bagaglio di Loreta e di recarlo poi in casa.

Fuori, Agnul era già pronto. Il ragazzo seduto a cassetta colla frusta tra le ginocchia, spalancò tanto d'occhi a vedere la forastiera e nella sua grande curiosità dimenticò perfino di mettere la mano al cappello.

–E presto! – disse il professore quand'ebbero preso posto.

Il carrozzino partì velocissimo.

Per qualche minuto nè Mattia nè la giovane dissero parola. Lei guardava intorno le belle distese de' prati già invasi dalla mestizia autunnale.

–Che luoghi pittoreschi! – mormorò dopo un poco.

–Sì, il paese è bello. Certo, adesso che l'autunno avanza, tutto apparisce più malinconico. Ma nella stagione buona…

Erano giunti ad uno svolto della strada e sul colmo di un poggio apparve la casa dei Sant'Angelo, bianca, coi vetri luccicanti nello splendore del tramonto.

–Ecco lì la nostra casa, – fe' il professore accennando col dito, – laggiù dietro a quei due grandi pini.

–Ah! laggiù!

–Sì: ed ecco mia madre, che ci sta aspettando. Infatti a piede del viale che saliva alla casa, fiancheggiato di vecchi pini, la signora Chiara, avvolta nel suo sciallino di lana scura e colla sua cuffietta nera in capo, li stava aspettando.

Con un sorriso sulle labbra la buona donna si avvicinò al carrozzino quand'esso sostò, e affabilmente, con quel modo incoraggiante che concilia di primo acchito la simpatia, tese le mani a Loreta.

La giovane balzò a terra, afferrò le mani della signora e con espansione, vincendo con uno sforzo la riluttanza di lei, gliele baciò replicatamente:

–Come la ringrazio! come la ringrazio!

La signora Chiara si strinse la ragazza al petto, dandole un bacio sulla bocca:

–Ma che, ma che! Siate benvenuta nella nostra casa. Lassù c'è bene un posto anche per voi…

Loreta, confusa, sorpresa quasi, da quell'accoglienza tanto affettuosa, si provò indarno a parlare. Le parole non le uscivano, mentre una lagrima le scorreva giù per le guance patite.

La signora le cinse col braccio la vita e riprese il cammino verso la casa.

–Aveva ragione Prè Letterio, – disse dopo un lungo silenzio la giovane, – aveva ragione quando mi scrisse che avrei trovato la bontà più grande…

–Prè Letterio ci vuol troppo bene, – rispose la signora Chiara. – Non è bontà questa. È un dovere ed una gioia. Io spero che mi vorrete bene, e che sarete contenta in mezzo a noi.

–Se sarò contenta!.. Dio è stato così pietoso verso di me, mandandomi questa grazia. Se vi vorrò bene?.. Come mai altrimenti!

E nel trasporto sincero della sua gratitudine, altre cose la giovane soggiunse, ed altre molte ne avrebbe soggiunte se la signora Chiara non glielo avesse proibito. "Era momento di finirla adesso! Doveva riposarsi, doveva tranquillizzarsi che proprio il bisogno ce lo aveva. E poi già glielo comandava e intendeva di essere subito obbedita…"

Tale fu l'ingresso di Loreta nella famiglia dei Sant'Angelo.

Il peccato di Loreta

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