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IV

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Per quanto da una parte le accoglienze fossero state cordialissime, e per quanto dall'altra vi avesse risposto la più calda riconoscenza, certo, ne' primi giorni non potè completamente essere vinto quel vicendevole imbarazzo, che tratto tratto s'impadroniva così dei Sant'Angelo come di Loreta, e che tutti e tre riuscivano assai malamente a dissimulare.

V'erano delle ore nella giornata-quelle specialmente che di solito sono consacrate alle intime confidenze familiari-in cui cotesto imbarazzo manifestavasi più molesto. Alla sera, quando terminavano la cena e si erano esauriti i soliti argomenti della chiacchiera giornaliera, facevasi assai sovente un improvviso silenzio fra que' tre personaggi. La signora Chiara andava a sedersi nella sua grande poltrona, in un angolo della stanza, che rimaneva quasi immerso nella penombra, accanto alla stufa dove già s'era acceso il primo fuoco; il professore si poneva a giocherellare col grosso cane di casa-un bel terranova dagli occhi intelligenti-che veniva a posargli la testa sulle ginocchia. Loreta rimanevasene al suo posto, pallidissima, collo sguardo fisso a terra, come assorta in una lontana visione. Sulla sua fronte bianca si sarebbe creduto di scorgere una nube di tristezza. E nel fissarla attentamente quasi s'indovinava uno sforzo ch'ella s'imponesse per celare il vero stato dell'anima sua.

La signora Chiara pescava nelle proprie memorie, per rompere que' silenzi incresciosi, i vecchi aneddoti paesani, le burlette di cui in altri tempi era stato maestro il nonno Sant'Angelo, qualche strofetta allegra, di quelle che l'arguto vecchietto improvvisava ne' momenti di buon umore nella sua caffetteria di Tricesimo e che si citano ancora oggi nel Friuli insieme a' versi migliori di Pietro Zorutti.

E quando Loreta sorrideva:

–Eh! eh! – esclamava tutta soddisfatta la buona signora-casa Sant'Angelo è stata sempre casa di gente allegra. Visacci mai, neanche nelle ore cattive. E tutti così: il nonno non si dice; il babbo di Mattia, con tanti pensieri, allegro sempre anche lui. E Mattia come lo vedete, con tutti i suoi studi e le sue medaglie e i suoi occhiali d'oro, così serione ch'egli pare… Ma se ci si mette!

–Non ci credete veh! alla mamma. Dice così per farmi arrabbiare.

–Sicuro, poverino! Ma se mi ponessi a narrare un paio soltanto delle sue storielle!

E ne narrava alcune difatti, ad onta delle proteste che il professore affettava di fare.

Una fra quelle storielle era graziosissima davvero e curiosa anche per la sua eccentricità.

Si riferiva al grosso cane di Terranova, che accompagnava dovunque il professore come la sua ombra e per il quale in famiglia si avevano grandissime cure.

La storiella rimontava ad un paio di anni ed aveva avuto origine da un singolare processo che per il corso di molti mesi era stato argomento di ardenti discussioni in tutto l'alto Friuli. Si trattava di una querela sporta contro il professore Sant'Angelo al tribunale di Udine da un notissimo prete di Collalto, don Giovanni Morganti, a proposito del diritto di proprietà sur una breve zona di prato, che trovavasi sul confine de' loro possedimenti. Era una prateria piccina, di poche centinaia di metri quadrati, che dava ogni anno uno scarsissimo raccolto di fieno e che, a giudizio della gente, non meritava certo il chiasso e le spese che i due litiganti avevano fatto. Ma c'era per questo la sua brava ragione. In quel campo pochi mesi prima un contadino, scavando una fossa, aveva trovato una piccola urna contenente dieci o dodici monetucce coll'effigie dell'imperatore Massimino, una fibula, una collana di ametiste e due aghi crinali, che al professore Mattia erano parsi un vero tesoro. Il prete Morganti, collettore arrabbiato di vecchie medaglie, e che in fondo sentiva una grande invidia per la bella fama del Sant'Angelo, non aveva più dormito i suoi sonni tranquilli. E avendo, tra antiche carte di famiglia, ritrovato certi documenti, che gli parevano dargli un titolo ad accampare de' diritti su quel pezzo di terreno, s'era affrettato a movere lite al professore.

La lotta fu lunga. Gli avvocati-i migliori di Udine-moltiplicarono scritture e controscritture. I due litiganti ebbero a spendere di gran quattrini. Ma la vittoria infine rimase al Sant'Angelo.

La sentenza del tribunale, se mise in regola la questione giuridica, non bastò a conciliare i due antagonisti. Il prete non si dette più pace e non lasciò occasione per manifestare il suo malanimo contro l'usurpatore. Questi dal canto suo se la godette a rispondere coi dispetti ai dispetti. E ne pescò di quelle che fecero montare il prete Giovanni su tutte le furie. Basti il dire che un bel giorno, per far rabbia a don Morganti, gli venne il ticchio di imporre al suo grosso terranova il nome di prè Zuan, cosa che fece ridere di cuore tutto il paese e fruttò al magnifico cane una rinomanza quasi maggiore di quella procurata da Alcibiade al suo col famoso taglio della coda.

–Eh! ho ragione io se dico che i Sant'Angelo sono gente allegra! – concludeva la signora Chiara tutta gongolante nel vedere che un sorriso illuminava la bella faccia della giovane Lambertenghi.

La signora Sant'Angelo provava una soddisfazione, nell'agire in tal guisa. Ottima di cuore e un po' facile a prestar fede a quello ch'essa soleva chiamare il volere del destino, aveva sentito di primo impulso, appena l'ebbe veduta, una viva simpatia per la nipote. Ne' suoi lineamenti severi, in quegli occhi pieni di pensiero, nella parola di lei misurata e dolce, le pareva di avere già indovinato il carattere della giovane. Certo in quell'anima la tempesta delle passioni doveva essere già passata implacabile, lasciandovi il segno del suo furore. Ma in quell'anima non poteva essere distrutta l'ingenita delicatezza di sentimento, che è la più bella qualità di ogni umana creatura. Tutto questo la signora Chiara era riuscita a comprendere osservando attentamente ogni atto di Loreta, pesando ogni sua parola, non lasciandosi sfuggire alcun particolare del suo contegno.

La vita che Loreta conduceva era assai semplice. In pochi giorni aveva saputo perfettamente accordarsi alle abitudini regolate ed uniformi della casa. Di più, con tatto squisito, aveva subito cercato di mostrarsi premurosa e non inutile nelle bisogne domestici. Quando la signora Chiara accingevasi a qualche lavoro, Loreta prontamente si offeriva di darle mano. Se il professore esprimeva qualche desiderio concernente la casa, la giovane procurava subito di concorrere perchè egli fosse soddisfatto. Perfino, talora, ne' giorni che c'era gran da fare, o pel bucato o per i fittaiuoli che venivano a pagar le pigioni o per qualche forestiero che capitava a visitare il medagliere e le lapidi del professore, Loreta, ad ogni costo, voleva addossarsi una parte de' lavori che incombevano alla Vige.

La vispa contadina però si ribellava. Non poteva permettere che quella signorina sciupasse le sue piccole manine bianche nell'attendere a certe cose. Mani da ricamare, mani da contessina. E poi, con quella salute che aveva, starsene al foco de' fornelli, starsene curva sulla tavola da stirare. Mai e poi mai!

–Vige mia, lasciatemi fare. Mi ci diverto e mi fa piacere!

Vige la guardava, la guardava fissamente, e comprendendo che le parole della giovane erano veritiere si guardava dal contraddirla più oltre.

Ma quando, qualche volta, Loreta usciva a fare degli acquisti a Tricesimo od andava, accompagnata da Agnul col carrozzino a Udine, per visitare il suo amico e protettore don Letterio, Vige provava il bisogno di dire l'animo suo alla padrona:

–Non è una donna quella lì, è un angelo! Buona, buona come il pane. Ha fatto una gran opera santa, signora mia, prendendola in casa.

–Per buona, sì, mi pare.

–E dev'essere stata così sfortunata! Guai a dirlo: è un grosso peccato! ma è proprio vero che sono i buoni quelli che hanno le maggiori disgrazie!

–Ti narrò mai qualchecosa la signorina?

–A me! si figuri! Che confidenza vuole che abbia per una povera serva come son io? Però ho indovinato ed ho anche udito…

–Udito? Che cosa?

–Eh! ma tante volte! Alla sera quando ella, signora, ed il professore son già coricati ed io passo, per andarmene a dormire, dinanzi alla camera della signorina…

–Ebbene?

–La odo di dentro a piangere sommessamente. E una volta anzi… – ho fatto male, lo so-ma, avendo visto ohe il lume era ancora acceso, presa dalla curiosità, ho anche guardato dal buco della toppa… Avesse visto! La povera signorina era inginocchiata dinanzi al suo letto e tenendo fra le mani un oggetto lucente, – che so? una croce, un medaglione… – lo baciava replicatamente, colla faccia tutta bagnata di lagrime. Certo qualche memoria de' suoi cari…

–Certo, – fe' la signora Chiara. – Queste sono cose che provano ad ogni modo un animo buono ed affettuoso…

–Altro che buono!.. Se sapesse la pietà che m'ha fatto!

E l'ottima Vige, per poco fosse stata incoraggiata, quasi quasi si lasciava intenerire al solo ricordo di questi particolari.

Ma la signora Chiara non gliene lasciò il tempo:

–Tutto va bene… tutto va bene. Ma non va bene niente affatto di spiare, come hai fatto tu, dal buco delle serrature…

La Vige chinò il capo tutta mortificata, buscandosi senza proteste quel piccolo rimprovero che sapeva bene di meritarsi.

La signora Chiara non avrebbe del resto avuto bisogno alcuno dei racconti della sentimentale servetta per essere persuasa della grande bontà della sua povera parente, il cui carattere espansivo e cordiale le si veniva rivelando ogni giorno di più colle prove che Loreta le dava del suo attaccamento e della sua gratitudine. S'erano fatte amiche. Omai per la signora Chiara la compagnia della giovane era divenuta un'abitudine gradevolissima, di cui non si sarebbe privata che a malincuore. Erano pochi mesi dall'arrivo di Loreta e la vecchia signora la considerava già com'ella fosse stata sempre nella loro famiglia.

Ora, che l'invernata scorreva rigida e che si era obbligati a starsene per intere settimane chiusi in casa, la giovane riesciva di vero conforto alla signora. Il professore Mattia, da quel rusticone che era, se ne stava adesso più che mai seppellito nel suo studio, intento a dar l'ultima mano ad una memoria Sulle antichità aquileiesi, che gli era stata richiesta dal Mommsen per una rivista tedesca. E le due donne solette nel tinello, al lume raccolto della lampada, passavano le loro serate lavorando: per lo più capi di biancheria e di vestiario, che la Sant'Angelo, secondo una sua antica abitudine, destinava ai fanciulli poveri della parrocchia. La buona signora, cogli occhiali sul naso, ferruzzava le grosse calze di cotone bigio; Loreta attendeva a qualche lavoro di cucito.

Poi, a tratti, quando le raffiche del vento venivano, giù dalle gole nevicate della Carnia, a rompersi con impeto contro la casa facendone tremare i vetri delle finestre, la signora Chiara deponeva il lavoro:

–Che brutta notte, oggi! L'inverno in queste campagne è assai triste. Per coloro poi che non ci sono avvezzi… Voi, mia cara Loreta, dovete trovarvi assai male.

–Male? Ma che dite, signora! Qui per me è il paradiso. Se Dio non mi avesse protetta mandandomi il soccorso provvidenziale che voi mi avete offerto, che cosa sarebbe di me? Si apprezza il bene solo quando si è imparato che cosa sia la sventura!

–Sì, sì, figliuola mia; ciò che dite mostra il vostro bell'animo. Ma via, siete tanto giovane ancora: la vostra mente deve volare ben lontano da queste nostre solitudini così fredde!

–Lontano! Ma dove mai? No, signora Chiara. Al di là della soglia di questa casa benedetta, dove ho trovato tanto tesoro di amorevolezza e di pietà, non c'è più nulla per me. Al di là non ho lasciato nulla: nulla al'infuori di memorie dolorose. E guai per me se non fossi riuscita a cancellarle dall'anima mia!

In quelle conversazioni Loreta aveva anche accennato più volte a suo padre, e talora aveva pure insistito nel discorso a malgrado che la signora Chiara, con gentile sentimento, nulla avesse fatto mai per indurla a confidenze ed anzi si fosse tenuta in proposito nel riserbo più delicato.

I giovani anni di Loreta erano stati infelicissimi. Sua madre, Camilla Sant'Angelo, era morta presto, trentenne appena, coll'illusione beata che alla bambina sarebbero riserbate le più dolci tenerezze dell'affetto. Prospero Lambertenghi glielo aveva promesso dandole l'ultimo bacio e fu con questo pensiero tranquillante che la poveretta si spense. Ma Prospero obbliò assai presto. Carattere volubile, dominato dalla sete de' pronti guadagni, insofferente di una vita umile e regolata, dopo breve tempo sentì il peso dell'esistenza a cui le contingenze della sua famiglia lo costringevano. Nei primi tempi il pensiero di dedicarsi tutto alla felicità di quella povera creatura, che, col suo vestitino da lutto lo attendeva sul limitare del loro quartiere, compensandolo col suo sorriso d'ogni fatica, gli era apparso bellissimo e pieno di poesia. Poi più tardi, quando nuovi arditi progetti di intraprese larghissime gli balenarono alla mente; ne' giorni nervosi, quando la cerchia ristretta delle pareti domestiche apparì, al suo spirito ansioso di voli infrenati, simile ad una prigione, quella bimba gli sembrò un ostacolo posto fra lui ed il raggiungimento de' suoi ideali. Non voleva essere lo schiavo di stupidi platonismi. Finalmente col bene proprio avrebbe fatto pur quello della bambina. Al suo cuore, che talora gli opponeva un palpito affettuoso, impose il silenzio. E si lanciò nel mare magno degli affari, delle imprese arrischiate, in que' giuochi ardimentosi, in cui il segreto del trionfo sta quasi interamente nel freddo disprezzo di ogni contrarietà della sorte.

Quale poteva essere la vita della giovanetta ognuno può immaginare. Affidata a mani mercenarie, la sua educazione fu fiacca, incerta, senza una guida severa, priva totalmente di quelle influenze benefiche che la vigilanza dell'affetto apporta ed assicura. L'istinto del bene, innato nell'anima sua, corse i maggiori pericoli di essere vinto ed attutito. Gente strana, esempî tristi e brutali, passarono intorno a lei, pericolosamente. Nella casa, nulla che valesse a inspirarle un sentimento di nobiltà od a metterle nel core un palpito di entusiasmo. Ricordava in confusione una folla di persone equivoche, che suo padre riceveva continuamente; ricordava certe notti rumorose, nelle quali giungevano fino alla sua stanza di fanciulla, voci concitate e clamori di canti. Del padre non ricordava nè baci, nè carezze. Era un uomo freddo, di poca espansione, di modi aspri. Una mattina la sua governante le annunciò ch'egli era partito: partito per un viaggio lontano, reclamato da urgenti interessi, che compromettevano ogni loro avere. Non l'aveva salutata neppure: il tempo gliene era mancato; ma stesse di buon animo: egli non l'avrebbe dimenticata un solo momento.

Questa partenza non turbò gran fatto l'animo di Loreta. Era abituata alle stranezze di suo padre. Provò invece un turbamento infinito, un'oppressione potente, quando un giorno, per puro caso, udì dalle labbra di un servo la ragione che dalla gente si attribuiva alla precipitosa partenza di lui. Era un'accusa infamante, che le chiamò il rossore al viso e l'amarezza nel cuore. Lottò per non crederci, per rompere il fatale incubo di quel sospetto, per raccogliere le prove che contro suo padre si fosse ordita dall'altrui malignità non altro che una bassa calunnia.

Ma non potè. Gli indizî tutti congiuravano a distruggere ogni pietoso sentimento che nel suo cuore restava… Suo padre non solo l'aveva abbandonata, ma a poco a poco obbliò perfino di mandarle i necessarî soccorsi. A diciott'anni Loreta si trovò sola, senza consigli, senza conforti, sul limitare della vita, esposta a tutti i pericoli ed a tutte le seduzioni.

Che fare in quel frangente? Ancora una volta il suo ingenito senso di onestà e di coraggio le fu scorta. Suo padre se non altro le aveva fatto dare un'educazione sufficiente. E questa doveva bastarle a guadagnarsi un pane onorato. Bisognava rassegnarsi a servire rinunciando a tutte le idee di indipendenza e di benessere, che un tempo le avevano arriso. E seppe rassegnarvisi animosamente.

–È stata una prova difficile! – soggiungeva Loreta. – E credetti di poter in essa trovare la felicità!.. Per un tempo, sì, mi parve anche di esservi riuscita. Ma una delusione ben più grande mi aspettava. Quel che ho sofferto… Guai per me se volessi risuscitare i ricordi!..

Il discorso così fu tronco più volte. Le confidenze che Loreta aveva fatto alla signora Chiara s'erano sempre arrestate a quel punto.

La prima volta in cui l'ottima signora potè apprendere dal labbro della giovane un più particolare accenno ai fatti che avevano da ultimo amareggiata la sua vita, fu improvvisamente in una brutta giornata, nella quale i Sant'Angelo ebbero a soffrire per causa sua una grande emozione.

Da più giorni la Lambertenghi mostravasi singolarmente abbattuta e preoccupata. Alla mattina, come di solito, scendeva per tempissimo dalla sua stanza, mettendosi tosto alle usate faccende. Ma a nessuno di casa sfuggivano le tracce dell'insonnia o del pianto, ch'ella aveva costantemente negli occhi pensosi. Forzavasi di mostrarsi vivace, metteva nella esecuzione delle faccende domestiche una foga speciale; alla signora che le moveva qualche domanda se si sentisse male ed alla Vige che si arrabbattava per toglierle di mano qualche lavoro, assicurava che non aveva nulla. Però a sera, verso le nove, dopo aver tenuto per un poco compagnia alla signora Chiara, ella chiedeva con manifesto dispiacere di potersi ritirare. Diceva di sentir bisogno di riposo, di avere la testa confusa e indolenzita. E se ne andava scusandosi, rammaricandosi di dover lasciare la signora, ringraziando per le premure con cui tutti si interessavano a lei.

–Non è nulla, ma nulla affatto. Un po' di sonno… Ecco la miglior medicina.

La Vige che stava ad udirla con grande attenzione, fissandole in viso gli occhi buoni, profondamente, tentennava allora il capo, e appena ell'era uscita, volgendosi alla signora Chiara:

–Medicina, sì! – mormorava sottovoce. – La sua medicina sono le lagrime. Il sonno, il riposo… A chi lo racconta? Povera signorina, mi fa tanto male!..

–E a me! – soggiungeva la signora Chiara. – Ma bisogna mostrare di non accorgersi di nulla. Il tempo… Vedrai, le passerà!

Pochi giorni appresso, una mattina verso le sette, che la Vige era appena scesa in cucina per accendere il fuoco e preparare la colazione, vide uscire dalla sua stanza anche la signorina. Vestiva il suo solito abito nero, ma aveva lo scialle e un velo in testa, come pronta ad uscire. La domestica spalancò tanto d'occhi. Loreta non scendeva mai così presto; poi… uscire col tempaccio che faceva! Infatti, durante la notte un violento uragano si era scatenato, ed ora sulle campagne allagate spirava un fortissimo vento.

–Signorina, esce?

La Lambertenghi, assai pallida, si fermò un po' contrariata:

–Sì, vado in chiesa.

–Ma con questo tempo! C'è un bel tratto. Vuole che chiami Agnul che attacchi il carrozzino?

–No, grazie, non monta. Non vi date pensiero.

Ed usci.

La povera Vige non potè frenare un gesto d'impazienza. Aveva un bel dire la sua padrona che bisognava fingere di non accorgersi di nulla! Ma vedere certe bizzarrie e cucirsi le labbra era davvero un po' troppo! La buona donnetta non poteva darsi requie e andando e venendo per la sua cucina non riusciva a mettere nelle sue faccenduole la solita meticolosa diligenza. La sua mente correva altrove, seguendo per la strada fangosa la giovane che recavasi alla chiesa, mentre da lunge, sulle raffiche impetuose del vento, giungeva da Tricesimo il lento scampanìo della prima messa.

Passò un'ora, ne passarono due. Il professore e la signora avevano già fatta la loro colazione e Loreta non era peranco rientrata. La funzione doveva essere finita da un pezzo e senza un particolare motivo ella non poteva tardare così. Un po' allarmati s'eran posti a fare ogni possibile congettura, poi, non riuscendo a darsi una spiegazione, stavan già per mandare il ragazzo ad incontrare la giovane, quando una carrozza si fermò dinanzi alla casa.

Vige ed Agnul corsero subito fuori e con meraviglia videro scendere dal legno il conte Leonardo Mangilli, che col suo fare burbero e colla ciera più scura del consueto venne loro incontro sollecitamente, accennando colla mano al carrozzino.

–Che c'è? che c'è? – domandarono.

–Nulla di grave. La signorina… – non ne so il nome io… – la signorina che sta con voialtri… L'hanno trovata in chiesa, dopo la messa, svenuta… Passavo di là. L'hanno posta nella carrozza.

La Vige si fece allo sportello e vide sui cuscini, riversa, con le labbra smorte e gli occhi socchiusi, la signorina Loreta.

–Oh! poveretta, poveretta! L'avevo detto io, l'avevo detto che stava male!

Uscì intanto dalla casa anche il Sant'Angelo, che si avvicinò al gruppo, trepidante egli pure e pallidissimo.

Trassero di carrozza la giovane, che in quel mentre parve avesse ripreso conoscenza e, sostenendola fra le loro braccia, la trasportarono in casa.

Quindi, senza per tempo in mezzo, l'ottima Vige e la signora Chiara la svestirono e la misero a letto.

Il medico chiamato d'urgenza non potè constatare se non una forte febbre, cagionata con molta probabilità da un grave turbamento nervoso. Lasciarla tranquilla; nient'altro. Pericoli non v'erano di sorta.

Quel giorno Loreta stette assai male. Ebbe a più riprese delle violente convulsioni; poi, quando riusciva ad assopirsi, il suo sonno era affannoso, e strane, scucite parole le sfuggivano dalle labbra. Ma fu cosa passeggiera. Dopo tre giorni tutto era finito, e meno un po' di sfinitezza, ogni altra sofferenza pareva svanita.

Fu allora che Loreta ebbe uno slancio improvviso di tenerezza e di espansione per la signora Chiara, che era lì, al suo fianco, con un sorriso di affetto sul labbro, tenendole maternamente una mano.

–Ah! signora… signora, come mai posso chiedervi perdono di tutte le pene che vi reco! Non lo avrei voluto, io! Ma le forze mi son venute a mancare!.. Era un giorno di così tristi ricordi per me! La data più funesta della mia vita: un anno, da che laggiù, in mezzo a gente sconosciuta, io avevo deciso di morire… M'era parso che nella preghiera avrei potuto trovare l'obblìo di quell'ora, il perdono anche… Ma lì, in quella chiesa fredda, in quel silenzio profondo, mi sono sentita più oppressa che mai. M'è sembrato che tutta l'amarezza delle mie memorie si riversasse in un momento solo dentro il mio cuore. E non vidi più nulla, non sentii più nulla…

Indi interrompendosi e chinando sulla spalla della signora Chiara il suo bel volto bagnato di lagrime:

–Eppure, signora, io sono degna di perdono. Dio deve avermi perdonato.

La signora Chiara levò pietosamente gli occhi al cielo, accarezzando il capo della povera giovane:

–Potrei essere vostra madre! – le susurrò con dolcezza all'orecchio. – E dicono che l'affetto delle madri è quello che sa confortare i più grandi dolori.

Gli occhi di Loreta s'illuminarono di una luce di letizia:

–Come siete buona, signora! E come sento di amarvi!..

Il peccato di Loreta

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