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Dopo quell'ora di espansiva confidenza, le simpatie fra la signora Sant'Angelo e Loreta Lambertenghi si manifestarono sempre più vive.

In casa stavano insieme di continuo, e ormai la signora Chiara non usciva più se non accompagnata dalla giovane parente.

Alle sue amiche di Tarcento e di Tricesimo, colle quali di tratto in tratto si scambiavano qualche visita, non faceva che esaltare le virtù e la bontà di Loreta. E nel tessere le sue lodi era con particolare compiacenza ch'ella benediceva il momento in cui s'era presa con sè la Lambertenghi.

–Nessun capriccio. Contenta di tutto. Una massaia di quelle che s'è perso lo stampo. E poi se non l'avessi, che guaio sarebbe! I settanta son belli e sonati: la vista non è più quella di una volta, e queste benedette gambe si son fatte così deboli!..

–Ma che dice, signora Chiara? Lei è un fiore di salute! – le rispondevano.

–Un fiore! un fiore!..

La signora Chiara tentennava il capo e sorrideva. Ma il pensiero della sua età, che era già così avanzata, e della sua salute, divenuta negli ultimi tempi molto malferma, la preoccupava ora, in certi momenti di riflessione, assai gravemente. Non certo per sè: la morte non le faceva paura. Ma era per suo figlio, ch'ella adorava: per suo figlio alla cui tranquilla esistenza s'era dedicata sempre con tanta abnegazione. Che ne sarebbe di lui, – abituato a vivere in mezzo a' suoi studî, libero da ogni molesto pensiero, – senza di lei, senza la mamma sua, in quella casa deserta?

Queste immagini, che dapprima passavan di rado nella mente della signora Chiara e che una parola lepida di suo figlio bastava a fugare, ora le rinascevano più vive. Le rinascevano specialmente in quelle ore della sera, quando, sentendosi stanchi gli occhi, smetteva il lavoro ed ascoltava le letture di qualche buon libro, che Loreta le veniva facendo.

La voce dolce, carezzevole, armoniosa di quella giovane, che si accalorava nella lettura, che a certe pagine appassionate trovava accenti di una soavità commovente, le parlava nel core. Sul volto di lei, illuminato in pieno dalla luce della lampada, così puro nelle sue linee, così bello nella sua serenità, le pareva di scorgere quasi un riflesso del suo animo buono e rassegnato.

Fu il suo amore materno che le fece per la prima volta balenare il pensiero della missione provvidenziale che Loreta avrebbe potuto compiere nell'ora triste in cui ella fosse venuta a mancare. Ma nè al figlio Mattia, nè alla giovane, ebbe mai il modo di dire in proposito un'esplicita parola. Per quanto tentasse di farlo, le occasioni le sfuggivano. Talchè il massimo che le riusciva era di lasciar cadere in mezzo a' discorsi, e come per semplice caso, qualche frase allusiva a codesti progetti.

Così, molte volte, in via di scherzo, aveva fatto rimprovero a Mattia di non mostrare sempre le eguali deferenti premure verso la giovane:

–Non dico che tu la tratti male, no! Ma non le sai dire mai il più piccolo complimento! E chi è giovane ci tiene tanto a sentirsi dire qualche bella parola!

Il professore rideva e scrollava le spalle:

–Ma, cara la mia mamma, anche tu hai certe idee pel capo! Sono io proprio l'uomo da mettermi a dire delle galanterie! E se anche lo tentassi, ci farei proprio la gran bella figura!

–Oh! per questo poi… Se tu lo volessi, non è mica la loquela che ti manca. Ma, sfido io! Certe volte, se la ragazza si mette a parlare di qualche argomento serio, tu ti pianti là, in un angolo, cogli occhi fissi, ingrullito, da parere che tu non sappia porre in croce quattro parole. Santa pazienza! In questo non somigli ai Sant'Angelo, tu! Tuo padre… Avessi visto tuo padre…

–Via, via, signora brontolona, non si arrabbi così. Per farle piacere, questo selvaticone saprà operare anche un miracolo e buttar alle ortiche la sua pelle di bestia feroce…

Ridevano quindi insieme, ma il miracolo Mattia non lo faceva. Anzi, dal momento che sua madre gli aveva tenuto que' discorsi, si sarebbe detto che un nuovo imbarazzo lo dominasse quando si trovava insieme a Loreta. Talora, nella foga del discorrere, se i suoi occhi si incontravano in quelli profondamente dolci della giovane, era un visibile turbamento che lo sopraffaceva. Evitava di rimanere solo in sua compagnia. Un senso penoso di inquietudine lo assaliva ogni volta che la signora Chiara toccava in presenza di Loreta qualche argomento che avesse avuto la più lieve attinenza agli scherzi sul suo contegno.

Il professore Mattia di tutto ciò provava in certi giorni un vero dispetto. Si domandava come mai un uomo del suo stampo, un uomo forte, uno scienziato tagliato all'antica, poteva lasciarsi vincere da così stolte inquietudini. Egli che aveva sempre sorriso cinicamente a sentir narrare certe debolezze degli uomini: egli che non era mai riuscito a spingere più in là delle dieci pagine la lettura di un romanzo! Sciocchezze, sciocchezze! Puerilità belle e buone, che bisognava saper vincere. Altrimenti c'era da vergognarsene davvero!

E da allora in poi mise quasi uno studio ad ostentare verso Loreta una allegra disinvoltura. Se il più lieve adito gli era offerto, non lasciava di metter fuori, con grande stizza della signora Chiara, i suoi predicozzi di filosofo per il quale la vita non ha più sorrisi. Si compiaceva a dirsi vecchio, a mostrarsi privo d'ogni illusione, a darsi delle pose di studioso infaticabile, assorbito interamente dalla passione de' libri.

Ma molte volte non ci riusciva. Una parola, un gesto, una frase, lo tradivano. E per un momento sembrava che gli sfuggisse la coscienza della parte di commedia che imponevasi di sostenere.

Così fu specialmente in un giorno memorabile, al principio di aprile, nell'occasione di una gita, che la signora Chiara aveva progettato da molto tempo di fare in unione alla Lambertenghi, e che sempre si era dovuto rimandare o per la stagione poco propizia, o per la salute malsicura della signora.

Si trattava di una visita ad un antico palazzo, posto sulla riva destra del torrente Cormor, non lunge dal colle di Fontanabona, e del quale avevano avuto adito di parlare molto sovente nel corso della precedente invernata. Questo palazzo era una curiosità del paese, e il professore Sant'Angelo ne aveva fatto anche soggetto di un'interessante dissertazione storica, pubblicata alcuni anni innanzi dalla Rivista archeologica italiana.

A giudicare da una lapide mezzo corrosa, immurata sotto l'arcata dell'ampio portone, l'edificio doveva essere stato eretto sul principio del secolo decimosettimo da un nobile udinese, sulle rovine di un'antica chiesetta fondata verso il 1330 dal patriarca Bertrando di San Genesio, sfuggito in quel luogo, quasi miracolosamente, da un'imboscata tesagli dagli armati di Rizzardo da Camino. Era una fabbrica solida e tetra, con due torri rotonde piantate agli angoli della facciata, nella quale aprivansi, fra i ricami dell'edera, otto grandi veroni sormontati alternatamente da stemmi gentilizi e da mascheroni chimerici. All'edificio principale addossavasi una specie di padiglione basso, di costruzione moderna, senza gusto di stile, abitato ora dalla famiglia del gastaldo. Innanzi all'ingresso principale del palazzo un'ampia braida, tenuta male, estendevasi in forma di un rettangolo, mostrando, sotto la invasione delle erbe alte, le tracce degli antichi vialetti disegnati capricciosamente, mentre di mezzo ad alcuni cespugli di bosso sorgevano quattro o cinque statue mutilate di deità campestri. Intorno, giù per i fianchi digradanti della collina, macchie di querciuoli, grappi diffusi di piante basse, cresciute liberamente: poi, giù a' piedi, di là dal letto petroso del Cormor, asciutto talvolta per lunghi mesi, la distesa vastissima delle piantagioni di sorgo, di trifoglio, d'avena, chiuse fra le file regolari dei gelsi e frastagliate dalle linee candide de' sentieri.

Il palazzo era da molti anni disabitato. Assai di rado quando qualche forastiere veniva a visitarlo, il gastaldo andava ad aprire le griglie verdi dei veroni. Del rimanente il vecchio fabbricato conservava il suo aspetto di solitudine. Lo spazioso cortile dormiva in una grande calma claustrale. E soltanto verso la fine di ottobre, quando i contadini venivano a portare al gastaldo le loro derrate, animavasi per alcuni giorni, fino a che durava tra chiassose discussioni la consegna del grano, delle frutta e del vino.

L'amministrazione era affidata dall'attuale proprietaria-una ricca signora veronese, maritata in Londra con un alto funzionario della corte-ad un avvocato di Udine, che solo due o tre volte all'anno faceva una visitina al gastaldo per la regolazione dei conti. In paese la padrona del castello era del tutto sconosciuta, e solo sapevasi che quel possedimento era venuto in sue mani per ragioni di eredità, quale unica parente superstite della famiglia dei Morò-Casabianca, cui il palazzo e le terre circostanti avevano appartenuto fino dal principio del secolo passato.

L'ultimo dei Morò-Casabianca, che aveva abitato il castello, era stato il conte Sebastiano, e durava in tutto il circondario la memoria di questo gentiluomo, il cui nome era congiunto ad un doloroso dramma domestico, intorno al quale la fantasia dei contadini aveva immaginato le più bizzarre leggende.

–La storia dei Morò-Casabianca bisogna sentirla non già dal mio figliuolo, – diceva la signora Chiara a Loreta Lambertenghi, – perchè quello lì non vuol saperne di certe poesie. Bisogna chiederne alla vecchia Mariute, la nonna del nostro Agnul, che è nata nel palazzo e ci vive da ottanta anni…

–Eh! grazie tanto! La vecchia Mariute ve ne racconta di quelle! – soggiungeva il professore. – È una povera matta che sogna ad occhi aperti.

La signora Sant'Angelo sorrideva anche lei. Ma tentava tuttavia di difendere questa vecchierella, ch'era tra le sue protette. Ogni anno per Natale, poi al principio dell'estate, aveva l'abitudine di mandarle qualche oggetto di vestiario e qualche quattrino. E la vecchia contadina, ch'era un po' parente alla famiglia del gastaldo e viveva in una casetta colonica presso il palazzo, gliene serbava la maggiore riconoscenza.

La gita al palazzo Morò-Casabianca la fecero in un bel pomeriggio di aprile partendo di casa verso le due ore. Nel carrozzino guidato da Agnul avevano preso posto la signora Chiara e Loreta. Il professore Mattia precedeva in un altro legnetto col conte Leonardo Mangilli, che aveva voluto essere della partita anche lui.

Il Mangilli era quel giorno di allegro umore, e durante la gita non aveva lasciato un momento di scherzare:

–Oggi, professore mio caro, non vi sembrerà vero di montare in cattedra e di tenere la vostra brava lezione di archeologia ad un pubblico tanto gentile. Ah! professore fortunato!

Ma il Sant'Angelo era tutt'altro che in vena di scherzi. E a quelle allusioni tagliò corto bruscamente, mostrando con tutta chiarezza che non gli piacevano affatto.

La visita al palazzo interessò vivamente Loreta. Il gastaldo, visto appena il professore, era venuto con molta premura a porsi agli ordini degli ospiti e gli aveva guidati nel giro dell'edificio. Avevano percorso ad una ad una tutte le vaste sale dai soffitti affrescati, arredate di antichi mobili massicci recanti lo stemma del casato; eran saliti per le ripide scale a chiocciola negli stanzoni delle due torri, nudi, spogli, freddi per l'aria frizzante che entrava dalle finestre ogivali, munite di grosse inferriate. Poi, più a lungo, eransi fermati in un salotto, nell'ala meridionale della fabbrica, ricco di particolare interesse per le molte curiosità storiche che racchiudeva.

Era una stanza spaziosissima rischiarata da tre grandi veroni, prospicienti sulla vallata del Cormor; ma tetra, coll'enorme camino dalla cappa adorna di barocche sculture, e co' suoi mobili di noce, dalle sagome severe, coperti di antico broccato veneziano. Sulle pareti spiccavano, chiusi in nere cornici, quattro grandi dipinti storici, attribuiti, per il loro carattere di correttezza belliniana, a qualche pittore del 500, uscito dalla scuola di Pellegrino da San Daniele. In essi il fondatore aveva voluto fossero raffigurati i momenti principali della vita del prode Bertrando di San Genesio: la disfatta di Rizzardo da Camino sotto le mura di Sacile, la consacrazione della chiesa maggiore di Venzone tolto a' Goriziani, l'erezione del castello di Moscardo a tutela delle valli carniche, e il soccorso dato a' poveri dal pio patriarca nella carestia che afflisse il Friuli nel 1348. – In un angolo, sopra una colonna di legno scolpito, un busto in marmo, opera non priva di merito artistico: l'effigie del conte Sebastiano, l'ultimo dei Morò-Casabianca.

Lì il gastaldo gli aveva invitati a riposarsi dopo avere avanzato per le signore due delle vecchie sedie a bracciuoli presso i grandi veroni. Il conte Leonardo celiava intanto col professore intorno al pregio di questi logori "nidi di talpe" ai quali nella sua posa d'uomo utilitario negava qualsifosse attrattiva. Poi il discorso era caduto, naturalmente, sulle vicende dei Morò-Casabianca.

–La leggenda del castello!.. – esclamò il Mangilli accentando colla voce grossa questa frase melodrammatica.

–Me ne dispiace per voi, conte mio, ma non è leggenda niente affatto. Pura storia e tragica anche troppo…

E la riepilogò brevemente.

La storia era del resto semplicissima. L'ultimo abitatore di quel palazzo, il conte Sebastiano Morò-Casabianca, gentiluomo campagnuolo vissuto con fedeltà rigorosa secondo le tradizioni de' suoi maggiori, dividendo il proprio tempo tra utili studî di economia rurale e tra le cure inerenti a' suoi beni, si era, quando già aveva varcati i quarant'anni, ammogliato ad una bella e ricca giovane del Trevigiano, una contessa Elti di Fontebasso: nobiltà antica e famiglia che godeva di larghe aderenze così per il censo come per le cospicue parentele. La contessa era ricordata da tutti nel paese: una figura superba dall'occhio altiero, che vedevano passare spesso a cavallo per i lunghi stradoni polverosi, bellissima nell'abito di amazzone, che faceva risaltare la correttezza stupenda delle sue forme. Si narrava dell'amore intenso, appassionato, ardente, che il conte Sebastiano aveva per la moglie: viveva per lei, circondandola di tutte le premure di un culto idolatra. Ma la donna mancò a' suoi doveri. Anima abbietta ascosa in una forma divina, sentì presto il peso de' propri legami e li franse ignobilmente, con uno di quei tradimenti codardi, che tolgono alla colpa ogni scusa. Il dramma s'era preparato lentamente, pazientemente, fino alla sua scena capitale. Una notte, eludendo la tranquilla fede del marito, la contessa Eleonora se ne fuggì dal paese, in compagnia di un volgarissimo amante, verso terre lontane. Il dolore atterrò il conte Sebastiano. Ferito mortalmente nella dolcezza de' suoi affetti come nella onestà purissima delle tradizioni domestiche, egli si chiuse in una melanconia cupa, facendo ogni sforzo per sottrarre alla triste curiosità della gente i particolari strazianti della sua sventura. Della contessa Eleonora non si seppe per lungo tempo novella; poi ad un tratto corse confusa la voce che dopo una vita di libertinaggi disordinati ella fosse morta improvvisamente in una stazione balneare dell'estero, a Scheveningen o a Biarritz. Sebastiano non si confidò ad alcuno, ebbe a disprezzo ogni mendicata commiserazione. Una mattina, il domestico entrando nella stanza di lavoro del conte, – la storica stanza dai vecchi quadri, che gli era particolarmente diletta, – lo trovò riverso nel seggiolone, colla fronte insanguinata, freddo, con una rivoltella scarica a' piedi…

–È una storia assai lugubre! – disse Loreta Lambertenghi quando il professore ebbe finito.

–Un fatto diverso, come se ne leggono cento ogni giorno! – aggiunse con un risolino ironico il conte Leonardo.

–Un fatto commovente ad ogni modo; questo me lo concederete.

–Commovente, secondo i gusti. Io direi piuttosto istruttivo.

–Figuriamoci: una morale a vostro modo…

–Sicuramente, una morale, di cui io ho principiato ad approfittare per mio conto. Ed è questa: che con quarant'anni sulla gobba si commette la più grande corbelleria a lasciarsi pigliar dall'amore. Poi, beato chi è solo; quanta pace di più!

–E quante gioie di meno! – esclamò subito la signora Chiara, alla quale le sortite pessimiste del Mangilli avevan sempre irritato i nervi. – Il conte Leonardo dice così per dire: è il primo lui a non pensarlo… "E quante gioie di meno" lo ripeto!.. È vero: ci saran delle donne cattive, leggiere, senza cuore. Ma ve ne hanno anche di quelle che sono la pace, la provvidenza, la letizia di una casa…

–Mosche bianche, signora mia. E sì trovano tanto di raro!..

–Non tanto, non tanto! Basta saper cercare, basta saper aprire gli occhi e leggere un pochino nei cuori…

Dicendo così, la signora Chiara, fissa sempre nel pensiero che ormai non la abbandonava più, piantò i suoi sguardi nella faccia del professore; poi cercò gli occhi di Loreta.

Il professore sforzavasi indarno di mostrarsi indifferente; Loreta guardava fuori lo splendido spettacolo del tramonto che accendeva d'un bagliore croceo la linea dell'orizzonte.

–Il povero conte Sebastiano se fosse qui ad udirvi non vi darebbe ragione, signora mia!..

–Il conte Sebastiano è stato uno sfortunato. Che vuol dire per questo? Che tutti debbono essere sfortunati come lui? No, no e poi no! – insisteva animandosi la signora. – Queste sono idee pericolose, di gente senza fede. Sapete quale è stato il torto del conte Sebastiano? Quello di aver voluto finire in tal modo. Quella donna non valeva davvero il sacrificio della sua vita. Sono esaltazioni da romanzo, codeste!..

–Sarà vero, cara mamma, quel che tu dici. Ma con tutto questo mi par pure che per il conte ci sia una scusa. Era accecato. Era crollato intorno a lui tutto quanto. Io mi metto ne' suoi panni e lo capisco. O amare così o non amare affatto!

Nel profferire queste parole il professore Mattia era seriissimo e la sua voce rivelava la profonda convinzione.

La signora Chiara si levò allora, con un po' di dispetto, contrariata, dal suo seggiolone:

–Già, già: siete tutti d'accordo! Una bella declamazione anche la tua!..

Il professore si mise a ridere:

–È assai buffa, non è vero, una declamazione di questo genere sulle mie labbra? Ma mi ci avete tirato voialtri proprio per i capelli!..

Proseguendo indi lo scherzo uscirono dal palazzo che già il sole era scomparso. L'aria era fresca. Nella luce rosea del crepuscolo una leggiera nebbiolina alzavasi dalle valli, lungo il piede delle Carniche, avvolgendo come in un velo i bianchi villaggi lontani.

Nello scendere lo stradone che conduceva alla strada maestra, i visitatori passarono dinanzi al gruppo delle case coloniche, costrutte al di là dell'ampia braida. Le porte erano quasi tutte aperte e le piccole cucine affumicate, in cui le donne apprestavan la cena, apparivano rosse al guizzare delle grandi fiammate accese sui bassi focolari. Sulla soglia di una di quelle casette, una vecchia stavasene seduta sur un banco di pietra, coi gomiti sulle ginocchia e la testa raccolta fra le palme.

La signora Chiara la riconobbe, si fermò un istante e la salutò coll'affettuosa espressione dialettale, che è d'uso comune in tutta la campagna friulana:

Mandi, Mariute. Come va?

La vecchia si scosse, si levò in piedi e ravvisando la signora Sant'Angelo:

Mandi, signori. Va poco bene. L'inverno è stato assai cattivo…

La Sant'Angelo stette ad udire benevolmente le lamentazioni della vecchia dicendole qualche parola di conforto.

Era un tipo spettrale: alta, magrissima, con una faccia ossea e due grosse ciocche di capelli arruffati, ricadenti dalla fronte, sotto le pieghe di un fazzoletto giallo, gettato sul capo.

–Nonna Mariute, – disse il conte Leonardo avvicinandosi anche lui col suo abituale tono di canzone, – e come va colle vostre storielle? È tornato il conte Sebastiano?

La vecchia lo fissò coi suoi occhi grigi, illuminati da uno strano bagliore:

–Il signor conte mi burla, lo so bene. Ma non importa: quello che è vero è vero. Sì, il signor conte Sebastiano è tornato ancora. Torna sempre nelle notti di temporale, là su quel balcone: l'ho visto passare io venti volte, pallido, colla lunga barba, col volto pensieroso, là…

E accennava col dito verso la mole bruna del palazzo, segnando il balcone della stanza, in cui l'ultimo dei Morò-Casabianca era morto.

Loreta non potè a meno di gittare uno sguardo da quella parte, come suggestionata dalle fantastiche parole della vecchia.

Nel tornare a casa parlarono poco. Tanto la signora Chiara, quanto Loreta, parevano dominate da una particolare preoccupazione.

Quella notte la Lambertenghi dormì di un sonno irrequieto, nel quale più volte le apparve, così come la vecchia contadina l'aveva descritta, la immagine torva e melanconica del gentiluomo suicida.

Il peccato di Loreta

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