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I.

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La neve cadeva a larghe falde a Pieve di Cadore, e il vento che soffiava dall'Antelao la portava sui ballatoi e sulle scale esterne delle vecchie case di legno, sui poggiuoli e sulle cornici dei balconi delle case nuove. Il nevischio penetrava in tutti gli angoli, si accumulava sugli abbaini dei tetti, si distendeva sugli spigoli sporgenti dai muri. Nella penombra della sera si vedevano i fuochi accesi nelle cucine; e il fumo che usciva dalle porte dei casolari, e dai camini delle case, spargeva d'intorno un odore di resina misto di fritto e di arrosto, che invitava gli abitanti a rientrare in fretta al loro domicilio.

E infatti tutti i viandanti imbaccucati nei loro tabarri o stretti nei panni affrettavano il passo, e si dileguavano per le vie, mentre si chiudevano tutte le imposte, e le strade si facevano deserte.

Era il giorno di Natale del 1847, e in casa Lareze ardeva sul focolare una fiamma viva che faceva bollire varie pentole, bronzini, e marmitte, e riscaldava tutta la famiglia seduta sulle panche intorno al camino. Sior Antonio ascoltava i sibili esterni del vento, e udendo il vicino gorgogliare delle pentole si fregava le mani, e fiutando quelle esalazioni appetitose, e guardando una damigiana dall'ampio ventre che era stata depositata sopra un tavolo, pareva ringraziasse il cielo di non avergli fatta una parte troppo brutta nel mondo. Sua moglie Maddalena sorvegliava ogni cosa, alzava i coperchi per vedere se le vivande bollivano, assaggiava il brodo, accomodava la legna sul fuoco, e le brace intorno ai vari recipienti, assistita da Bortolo il giovane domestico, un generico di casa che faceva un po' di tutto, mentre la Betta madre di lui, e vecchia serva della famiglia, apparecchiava la tavola.

Tiziano l'unico figlio dei padroni si scottava le gambe davanti la fiamma e attendeva silenzioso l'ora del desinare, mentre Fido il cane da caccia russava a suoi piedi. Gli apparecchi promettevano una lieta serata, tuttavia un'aria malinconica dominava quella famiglia, tutti se ne stavano in silenzio, e ciascheduno aveva un pensiero che non osava manifestare. L'anno antecedente, nello stesso giorno di Natale c'era davanti a quel fuoco anche un buon vecchio, il quale essendo partito per l'altro mondo lasciava un vuoto doloroso. Il povero nonno Taddeo nel corso dell'estate era morto di vecchiaia, e appunto perchè aveva vissuto lungamente nessuno credeva di perderlo. Piccolo possidente, e agente principale d'una ricca famiglia che faceva il commercio del legname a Venezia, Taddeo nella sua gioventù era stato alla dominante a far visita ai padroni, aveva veduto l'antica e gloriosa repubblica di San Marco, ed era rimasto colpito dal lusso dei palazzi, dalla maestà delle chiese, dalla profusione dei marmi orientali, dall'oro dei mosaici, dallo splendore delle pompe, dalla magnificenza delle feste. E raccontava sovente i suoi tempi, compiacendosi di ritornare colla memoria nell'età giovanile, rammentando specialmente con piacere la piazza di San Marco colla fiera dell'Ascensione, ove si trovavano esposti in bell'ordine tutti i prodotti del mondo, che egli non finiva mai di descrivere, colla stessa prolissità che raccontava l'arrivo del papa Pio VI.

Quest'ultimo avvenimento che accoppiava la maestà della religione alle pompe del governo, aveva esaltato la sua immaginazione a tal segno, che nella più tarda età conservava ancora vivaci le impressioni ricevute.

Egli descriveva una loggia tutta oro e damaschi in campo San Giovanni e Paolo, nella quale apparve il sommo pontefice Pio VI, accompagnato dal patriarca Federigo Maria Giovanelli e dal Doge Paolo Renier, seguiti dai cardinali, dai Vescovi, e dal Senato. Il popolo affollato stava silenzioso ed in ginocchio sulla piazza, e si accalcava alle finestre e sui tetti delle case. Alzate le mani al cielo il papa benediva i veneziani fra vortici d'incenso mandati dai turribuli, mentre l'organo della chiesa faceva echeggiare i suoi concenti, tutte le campane della città suonavano a gloria, e i cannoni tuonavano da lontano dalle navi e dal porto.

Quelle feste solenni, grandiose, i monumenti della città singolare, tutto quello che aveva udito narrare delle glorie di Venezia, delle sue sterminate ricchezze, della sua potenza esterna ed interna, della severità delle leggi, gli facevano considerare la repubblica di San Marco come il tipo più perfetto di governo che si potesse desiderare, e trovava pienamente giustificata la devozione figliale che ne mostravano i cadorini. E invece quando gli parlavano del governo Austriaco alzava gli occhi al cielo e crollava le spalle in segno di disprezzo.

Infatti dopo le guerre napoleoniche egli aveva veduto i tedeschi entrare in Cadore laceri e pidocchiosi, e deplorava vivamente che le vicissitudini delle armi avessero condannato il paese a subire quel giogo umiliante ed assurdo. Ed ogni inverno nel suo cantuccio prediletto del focolare egli raccontava per la centesima volta quelle vecchie storie aggiungendovi delle riflessioni politiche e morali, che suo figlio Antonio approvava, mentre Tiziano e Bortolo dormivano profondamente, perchè la morale dopo il pranzo e intorno al camino è sempre riuscita un potente narcotico per la gioventù d'ogni paese.

Però le massime dei nonni, anche poco ascoltate, s'infiltrano nel sangue, e si trasmettono alle future generazioni, come un legittimo retaggio di famiglia, e il vecchio Taddeo conchiudeva tutte le sue narrazioni ripetendo le glorie di San Marco, e sostenendo che il governo Austriaco era una vergogna grandissima e un danno perenne per l'Italia. E con tali sentimenti visse ottantacinque anni e sette mesi, e morì fedele al suo Dio ed alla sua patria, circondato dalla stima e dalla venerazione di quanti lo conobbero.

Sior Antonio, degno figlio di lui, era un vero tipo cadorino del vecchio stampo. Giubba di fustagno giallo a coda mozza, calzoni corti della stessa qualità, scarpe grosse da montanaro, cappello a cilindro a pelo lungo, un po' più largo alla sommità che alla base, senza cravatta, col volto raso completamente, e un sorrisetto sul labbro fra il bonario ed il furbo. Erede del modesto censo e delle massime paterne, agente generale degli stessi padroni, probo ed onesto a tutta prova, ma un po' taccagno coi vicini coi quali era in continue brighe per dissensi interminabili di confini. In quei monti, dove la piccola proprietà è frazionata all'infinito, la terra coltivata si limita in spazii angusti, ogni palmo di terreno è prezioso, e suscita questioni interminabili.

Col lavoro e col risparmio, Sior Antonio, secondato da sua moglie Maddalena, sobria ed economa padrona di casa, ha potuto dare una completa educazione all'unico figlio Tiziano, scopo onorato di tutti i loro sforzi, di tutte le privazioni, di tutte le fatiche d'una laboriosa esistenza.

Tiziano era dunque cresciuto con altri destini. Frequentò le scuole locali, scorrazzando sui monti il resto della giornata, coi suoi compagni, o con Bortolo il quale era nato in casa dal matrimonio d'un vecchio e fedel servitore colla Betta, la quale rimasta vedova, allevava il figlio colle massime dei genitori, perchè potesse servire fedelmente i padroni di suo padre.

I due ragazzi passarono insieme l'infanzia, crebbero come fratelli, e quando Tiziano venne mandato a studiare il latino nel seminario Gregoriano di Belluno, Bortolo fu iniziato ai vari servizi di stalla e cucina, con l'aggiunta di cento altri mestieri.

Gli studi classici, i libri letti alla macchia, la società di compagni svegli ed intelligenti affinarono in Tiziano i sentimenti di devozione all'Italia, coi quali era stato allevato in famiglia.

Michele Malacchini suo compatriotta, condiscepolo fino dalle scuole elementari, e suo collega in seminario, divenne il più intimo dei suoi amici, e l'indivisibile compagno della sua vita. Questo giovane rimasto orfano nell'infanzia venne raccolto in casa da Sior Iseppo, un vecchio zio bisbetico divenuto suo tutore, che considerava il nipote come una tassa forzosa impostagli dalla natura. Il nipote considerava lo zio come un tiranno, e soleva chiamarlo l'orso domestico, perchè quando usciva dal covo della sua stanza, perseguitava il giovanetto con continui grugniti, che volevano riuscire sermoni, ma che non raggiungevano l'intento.

Nelle vacanze autunnali, Tiziano e Michele correvano i boschi e le valli collo schioppo ad armacollo, accompagnati dai loro cani, ed inseguivano le lepri, i francolini, i cedroni, i coturni, e più tardi i daini ed i camosci sulle più erte rupi delle montagne.

Terminati gli studi del Seminario i due amici passarono insieme all'Università di Padova, prendendo alloggio nella stessa casa in due camere contigue. Tiziano studiava matematica per diventare ingegnere, Michele diceva di studiar legge, ma andava a scuola di rado, col pretesto che l'aria mefitica delle aule chiuse gli opprimeva il respiro, e che egli aveva bisogno d'aria, di luce, di movimento, e non potendo andare alla caccia dei selvatici per le strade di Padova, si divertiva ad inseguire le sartine e le crestaie, e slanciava dichiarazioni amorose a tutte le donne, dimenticandole il giorno dopo.

La vita universitaria aveva però completata la loro educazione politica, e i giovani sempre più insofferenti del giogo austriaco, procuravano di apparecchiarsi ad una riscossa che potesse liberare il paese dal dominio straniero. E si raccoglievano in segreto fra loro, comunicandosi le idee, leggendo avidamente gli scritti di Mazzini, Balbo, Gioberti, D'Azeglio. Recitavano degli squarci delle tragedie di Niccolini, imparavano a memoria i versi di Giusti e Berchet, declamavano focosamente i più caldi capitoli dei romanzi di Guerrazzi, e apparecchiavano congiure e piani di rivoluzione, tenendo corrispondenze coi capi delle sêtte all'estero, e cogli affiliati delle società segrete italiane.

All'autunno ritornando a Pieve di Cadore, animati da sentimenti patriottici, si raccoglievano nel roccolo di Sant'Alipio, ove comunicavano le speranze d'Italia a Isidoro Lorenzi che era il capo dei liberali cadorini, e il più fervente promotore della liberazione d'Italia sulle Alpi; il quale quantunque avesse oltrepassata la quarantina, conservava tutto il vigore della gioventù, e in quell'angolo romito delle montagne, che sfuggiva ad ogni sorveglianza, apparecchiava alacremente gli animi dei suoi compatriotti alla ferma volontà di emanciparsi dagli stranieri.

Il roccolo di Sant'Alipio è una piccola proprietà destinata specialmente a prendere nelle reti gli uccelli che passano in quella stretta gola del Piave. È collocata nel fianco del Montericco, sotto i ruderi dell'antico castello di Pieve di Cadore, a pochi passi dal paese, ma in un sito recondito, quasi a picco sul torrente, nascosta a tutti gli sguardi in mezzo d'un bosco di larici, con un prospetto meraviglioso dei monti e delle selve che chiudono la vallata.

È composta di una casetta di legno, e di un terreno coltivato con pittoresco disordine che forma una specie di oasi capricciosa di fiori e di frutta, d'erbe vagabonde e cereali che crescono confusamente in mezzo alle piante orticole ed agli alberi. Una pergola di carpini fiancheggia il precipizio e va a terminare in un gabinetto di verdura nascosto in fondo al roccolo, incantevole ridotto, circondato da panchine, e quasi sospeso sulle roccie a grandissima altezza, che Tiziano aveva denominato il nido di Montericco, e che veduto da lontano sembra effettivamente un nido d'aquila nascosto in una anfrattuosità inacessibile della montagna.

Isidoro Lorenzi, il fortunato possessore di questo romitaggio, viveva colà con l'unica sua figlia Maria, con una vecchia serva, e con Turco, il suo cane da caccia. Vedovo da qualche anno aveva concentrato ogni suo affetto nella figlia, una bella e robusta ragazza con grandi occhi neri e capelli corvini, di soave fisonomia, che gli rammentava la cara compagna della sua vita, troppo presto perduta. Passionato cacciatore ed uccellatore, e grande ammiratore della natura, egli passava i giorni in quella solitudine, occupato a tendere le reti sul roccolo, a governare gli uccelli da richiamo, a coltivare ogni sorta di piante in un caos inestricabile che formava la sua delizia, e che sembrava un gigantesco canestro di piante coltivate collocato in mezzo di un bosco. E quando era stanco di correre e lavorare intorno alle sue colture, andava a sdraiarsi sull'erba, colla pipa in bocca, e Turco ai suoi piedi, e contemplava lungamente lo stupendo spettacolo che gli stava davanti, la pittoresca vallata del Piave fiancheggiata da monti boscosi, sparsa di paeselli biancheggianti alle falde di verdi colline, che finisce lontano lontano in una tinta azzurognola sfumata che si confonde col cielo. E non usciva dal suo ritiro che per vedere qualche amico, per parlare degli affari italiani, per comunicare delle notizie importanti a delle persone che aspettavano i suoi cenni, e obbedivano ai suoi ordini, o per battere i boschi e salire sui dirupi alle grandi caccie del camoscio, nelle più alte montagne. E tirava sempre sulle aquile, uccellaccio che aveva in odio a motivo di quella che portava due teste, e che sperava un giorno di accalappiare, per mandarla impagliata a qualche museo che doveva collocarla fra le bestie più nocive.

Tiziano e Michele frequentavano il roccolo, entrandovi però sempre con molte precauzioni, per non essere veduti e non eccitare sospetti alla polizia, la quale doveva ignorare che in quella macchia di fiori e frutta si nascondevano i suoi nemici più acerrimi.

Quando Isidoro era in casa, si mettevano in compagnia a fumare la pipa ed a ciarlare di politica al piede d'un albero; quando era uscito per recarsi alla caccia sulle montagne, andavano a far conversazione con Maria che era stata la compagna dei loro giuochi infantili, e che amavano fino dall'infanzia. Essa andava a lavorare d'ago nel gabinetto di verdura in capo alla pergola, nel nido di Montericco, e i giovani le facevano compagnia, e allora dimenticavano affatto la politica, giuocavano come fanciulli, e Michele raccontava a Maria delle storie impossibili, burlandosi poi della sua ingenua credulità, e facendola arrossire di vergogna della sua buona fede. Per vendicarsi, essa lo condannava a dipanare delle matasse intricate, ma egli allontanandosi a poco a poco colla matassa fra le mani, il filo diventava lungo, e quando si arrestava ad un intoppo la fanciulla era costretta di alzarsi, e avvicinarsi al fuggitivo facendo il gomitolo per giungere a distrigare il garbuglio; e ridevano di tutto. Talvolta Michele le narrava le burle degli studenti alle pattuglie notturne dei croati; le corde tese attraverso la via per farli incespicare, i mattoni appesi ai ferri sotto ai portici oscuri, che dato un allarme per far correre i soldati, sbattevano sui loro volti. Tiziano contemplava la natura, osservava gli abeti che si alzavano ritti sul monte opposto e fra i crepacci delle roccie scoscese, seguiva cogli occhi il volo delle farfalle, le danze degli insetti in un raggio di sole, un'ape che succhiava il nettare di un fiore sul margine di un precipizio. E se Michele andava a saccheggiare le frutta sugli alberi, Tiziano restava solo con Maria, le sedeva dirimpetto, la fissava lungamente, e taceva. Maria lavorava in silenzio, e allora si udiva il canto degli uccelletti di richiamo, lo stormire delle fronde, e il frastuono del sottoposto torrente che si frangeva nei sassi.

E se talvolta rompevano quel silenzio era per ricordare la loro infanzia; e rammentavano con piacere quel tempo nel quale andavano a giuocare sul colle della Schipa insieme agli altri fanciulli. Michele era stato sempre turbolento, ma Tiziano proteggeva Maria dalle insidie dei furfantelli, e la difendeva arditamente dagl'insolenti, l'accompagnava se aveva paura, la sosteneva se dovevano arrampicarsi sull'erta, e dividevano insieme le merendine che le buone mamme avevano deposte nei loro cestelli.

Nella stagione propizia Tiziano e Michele seguivano Isidoro sui monti, egli li addestrava alla caccia del camoscio, e li guidava con pratica sicurezza sulle cime più eccelse, giudicate inacessibili dagl'inesperti. Collo schioppo ad armacollo, le munizioni nei fiaschetti e la carniera del mestiere, muniti di punte alle scarpe, di bastoni ferrati e di corde, partivano da Pieve, seguiti da Fido e da Turco, che correvano su e giù per le rive, e accompagnati da Bartolo che apportava i viveri ed altre provvisioni, e andavano nelle montagne d'Auronzo, e attraversando il bosco di Sommadida rimontavano sino alle sorgenti dell'Ansiei arrestandosi all'osteria delle Alpi sul lago di Misurina ove mangiavano le trote eccellenti da Giacomo Croda, famoso cacciatore di camosci, che si univa alla loro compagnia, e tutti insieme salivano quei dirupi scoscesi, e non tornavano mai a casa senza una buona preda.

Tiziano accanto al fuoco rammentava le vicende dell'ultima caccia, e per indicare il momento che aspettava il camoscio si metteva in agguato come avesse lo schioppo al viso, e simulava il colpo che aveva colpito l'animale mentre saltava un precipizio.

Fido aveva capito benissimo che il padrone raccontava un'avventura di caccia, e lo stava ascoltando attentamente, colle orecchie tese, e dimenando la coda, mentre la mamma Maddalena serviva la minestra, e tutti si mettevano a tavola.

Il desinare fu lieto. Tiziano seguitò per qualche tempo a raccontare le sue caccie, fino a che sior Antonio incominciò a parlare delle seghe, e dei menadàs[1], delle taglie e delle tavole, dei rulli dei zappoli e delle chiavi[2]. Maddalena manifestava alla Betta le sue opinioni sulle galline, e sulla produzione degli ovi. Bortolo faceva l'elogio della Nina, la cavalla di casa, assicurando i padroni che essa conosceva le ore senza bisogno d'orologio, e assai meglio dei ragazzi che vanno alla scuola, perchè ogni mattina, alle nove in punto, batteva le zampe e nitriva per domandare l'avena, mentre gli scolari dimenticando l'ora di scuola stavano ancora a scivolare sul ghiaccio.

Finito il pranzo, e vuotata in gran parte la damigiana, sior Antonio riprese il suo posto sulle panche intorno al camino, e accese la sua pipa. Tiziano fece lo stesso. Bortolo aiutava sua madre a sparecchiare la tavola, Maddalena rimetteva ogni cosa al suo posto, il gatto divorava gli avanzi, e Fido tornava a russare regolarmente ai piedi del padrone, mentre la legna resinosa d'abete ardeva sul focolare crepitando, e mandava col fumo le sue esalazioni profumate.

Vennero presto le dieci, il fuoco incominciava a languire, la conversazione era cessata, gli occhi semichiusi degli astanti indicavano vicino il momento di andare a letto, quando un colpo forte alla porta li scosse all'improvviso, li fece alzare la testa e mettersi in ascolto. Fido balzò in piedi mandando acuti latrati. Intanto bussarono alla porta un secondo colpo più forte del primo.

— Chi è? chiese sior Antonio, ordinando al cane di tacere.

— Aprite in nome della legge — risposero dal di fuori.

Il cane ricominciò ad abbajare, e tutti si guardavano in volto con sorpresa.

— Aprite subito o gettiamo la porta, gridarono quei della strada.

Tiziano voleva metter mano allo schioppo, ma sior Antonio con un segno imperativo gli ordinò di deporre l'arma, e andò ad aprire.

Entrò un commissario di polizia, seguito da due gendarmi, e si disse incaricato dall'autorità superiore di praticare una perquisizione.

— Veramente, osservò sior Antonio, mi pare che questo non sia nè il giorno nè l'ora di entrare in una casa di galantuomini, e di turbare la pace d'una famiglia onesta.... ma se tali sono gli ordini di chi è più forte di noi, è inutile di fare opposizione.

Allora incominciò quella minuziosa ed insolente manomissione che il governo austriaco soleva praticare nelle case degli italiani sospettati del grave delitto di amare la patria. Vennero esaminati tutti i mobili, guardandovi dentro per di sopra e per di sotto, disfatti i letti, smossi i pagliericci, tastati i materassi, i capezzali, i guanciali, le coltrici, capovolti i canapé, indagati i sacconi, vuotati a fondo i canterani, aperti i cassettoni e le scrivanie, scompigliate le vesti e i pannilini, frugate le carte, i registri, le lettere, profanate tutte le più sacre memorie domestiche.

Sior Antonio li seguiva stringendo i pugni, e mordendosi la lingua per non parlare.

Tiziano prese in un angolo sua madre e potè dirle senza essere inteso:

— Manda subito ad avvertire Michele....

Maddalena desiderando che Bortolo eseguisse sull'istante la commissione, gli andava facendo dei segnali che egli non intendeva, pareva diventato scemo, e poi un gendarme lo teneva d'occhio e non avrebbe lasciato uscire nessuno.

Trovarono degli scritti inconcludenti, delle lettere d'amici, delle note, delle memorie, che posero sotto sigillo, e quando ebbero finito di mettere la casa sottosopra senza costrutto, e si credeva che se ne andassero, il commissario dichiarò che il signor Tiziano doveva seguirlo.

— Io rispondo di mio figlio — disse sior Antonio — domani mattina andremo insieme dal signor Commissario distrettuale che mi conosce da un pezzo e....

— I miei ordini sono precisi — soggiunse il commissario di polizia — io devo arrestare il signor Tiziano Larese, e condurlo in ufficio....

— Lo conducete in prigione!... — esclamò Maddalena disperata — mio figlio è un galantuomo, e non ha fatto mai torto a nessuno.

Sior Antonio incominciava ad incrociare le ciglia, ed era cattivo segno. Tiziano prevedendo una fiera burrasca volle evitarla, e disse con calma:

— Non vi affannate, non vi date pensiero, nessuna ragione può valere contro la forza. Il diritto, la giustizia non possono opporsi con parole alla violenza, io seguirò il signor Commissario protestando che cedo perchè sono il più debole, che il governo commette un'ingiustizia.... e voi sapete quello che dovete fare.... — e così dicendo fissò in volto sua madre e le fece un segno d'intelligenza.

Poi prese il cappello e il tabarro, e seguì i gendarmi e il loro capo, ed usciti dalla porta ne trovò altri due che aspettavano davanti l'uscio, ed altri due che giravano intorno la casa, e tutti uniti si avviarono all'ufficio, camminando in silenzio sulla neve.

Erano poco lontani quando la povera Maddalena tutta in lagrime, comunicò a suo marito il desiderio del figlio:

— Basta che non sia troppo tardi!... egli esclamò, ma in ogni caso bisogna tentare.... e chiamato Bortolo lo ammonì come dovesse con immense precauzioni avvicinarsi alla casa di sior Iseppo, procurando di non essere veduto da nessuno, chiamare Michele, avvertirlo dell'arresto di Tiziano, e metterlo in guardia sulla sua sorte.

Bortolo partì, prese una scorciatoja, osservò attentamente se qualcuno si avvicinasse, e potè essere introdotto in casa senza essere veduto.

Il giovane, sorpreso, non perdette tempo; seguì il messo senza fraporre alcun indugio, e si allontanarono chetamente dalla casa per un viottolo nascosto fra stretti muri, e non erano ancora molto lontani, quando la luce d'un fanale che si avanzava, riflesso ad intervalli dalle baionette, li avvertì che una pattuglia si avviava verso la casa dalla quale erano usciti in tempo. Si nascosero nel vano d'una porta, e poterono osservare, senz'essere veduti, il commissario e i sei gendarmi che picchiavano all'uscio.

— Oh i birboni! esclamò Bortolo, li riconosco, sono quelli stessi di poco fa!...

Le pedate sulla neve avrebbero potuto tradire il loro nascondiglio, dovettero dunque allontanarsi e raggiungere la strada principale, ove la neve era già pesta, e dietro l'angolo d'una casa stettero ad attendere il ritorno della spedizione. Ma la visita fu assai più lunga della prima. Sospettando che Michele fosse nascosto rovistarono la casa dalla cantina fino al tetto.

Intanto Michele s'informava da Bortolo di tutti i particolari dell'arresto, e così venne a sapere che doveva la sua salvezza all'amico, e in parte anche al caso fortunato che in quel momento non si trovassero in Pieve che sei gendarmi, ciò che rendeva impossibile di fare due arresti nello stesso tempo. Anzi non ce n'erano che quattro, gli altri due erano giunti da Ceneda la sera stessa, insieme al commissario mandato apposta da Venezia per arrestare i due giovani.

Quando la triste falange uscì dalla casa colle mani vuote, assai malcontenta della impresa fallita, si fermò alquanto sulla via a consigliarsi, poi uno dei gendarmi allontanandosi dai compagni andò ad appiattarsi dietro un angolo del muro mentre gli altri ritornavano mogi mogi al loro quartiere. Era evidente che colui che stava nascosto aspettava il ritorno di Michele, nella supposizione che non fosse ancora rientrato in casa, per arrestarlo sulla porta prima che fosse avvertito dai parenti di mettersi in sicuro.

Era necessario di prendere una decisione, e di procurarsi i mezzi di salvezza, ma ciò non riusciva tanto facile in un piccolo paese, e in una notte d'inverno e colla neve.

Dopo varie considerazioni Michele non seppe trovare migliore espediente che di ritirarsi con Bortolo in casa dell'amico, come in luogo oramai sicuro, per prendere gli opportuni concerti con sior Antonio, su ciò che fosse da farsi; e camminando con infinite precauzioni per non essere scoperti si raggirarono per vie remote, penetrarono in un orto confinante colla casa Larese, ove entrando per le adiacenze, senza far rumore, comparvero improvvisamente in mezzo alla famiglia, immersa nella desolazione per la recente sventura.

Furono tutti sorpresi di veder Michele, e trovarono imprudente la sua venuta, ma egli non tardò ad assicurarli che non si correva nessun pericolo, e che i gendarmi non sarebbero venuti due volte in una notte. Allora incominciarono le spiegazioni fra lui e sior Antonio; il quale gli chiese con vivo interesse:

— Che cosa avete fatto per essere arrestati?

— Niente.... niente di male. Qualche scherzo ai croati....

— Via, parlate schietto.... nell'interesse di Tiziano.... per apparecchiare la sua difesa bisogna sapere di che cosa può essere incolpato....

— Frivolezze.... declamazioni.... brindisi.... che so io!...

— Ma che brindisi avete fatti?

— Dopo la laurea abbiamo invitato a pranzo gli amici.... siamo stati allegri come potete immaginare.... abbiamo bevuto alla salute d'Italia.... abbiamo gridato Viva Pio IX!... Viva Gioberti!... Viva Guerrazzi!... Viva Mazzini!...

— Ah disgraziati che cosa avete mai fatto!... ne avete per vent'anni di Spielberg!... quel povero Silvio Pellico ne ha fatto assai meno di voi!...

— I tempi sono cambiati. Pio IX ha aperta l'era della libertà... noi tutti vogliamo l'indipendenza... vostro padre, il povero nonno Taddeo, ci diceva sempre che il dominio straniero è una vergogna per l'Italia.... e voi avete sempre pensato egualmente....

— È vero.... ma bisogna agire con prudenza.... ci vogliono fatti e non ciarle, mio caro, per liberare l'Italia.... voi siete stati imprudenti.... avete congiurato....

— Potete essere sicuro che non abbiamo carte compromettenti, che non si troveranno argomenti per fondare un processo.... la nostra congiura sta dentro di noi, nell'unanimità dei nostri voti, nella fermezza del nostro volere.... nella coscienza del nostro diritto.... nel nostro onore!... Noi non siamo più una setta, nè una legione.... ma siamo un popolo di fratelli.... vogliamo essere padroni in casa nostra.... non vogliamo più stranieri in Italia.... non abbiamo più paura nè delle prigioni, nè dei patiboli, nè delle baionette.... moriremo tutti.... o saremo liberi!...

Sior Antonio dimenava la testa, stringeva le labbra, mormorava delle parole incomprensibili, una lotta interna lo agitava, egli si era sempre mostrato ottimo patriotta, ma davanti all'arresto di suo figlio le sue idee si confondevano, il dolore soperchiava ogni altro sentimento; suo figlio in mano dell'Austria, gli faceva rammentare i processi di stato, le vittime sagrificate, e fremeva di sdegno, di diffidenza, di paura. Maddalena non intendeva ragioni, essa pensava a suo figlio, e si disperava di vederlo caduto in mano dei barbari, la Betta piangeva, Bortolo aveva il viso sconvolto dalle varie e successive emozioni di quella notte, e dava ragione a tutti contraddicendosi senza avvedersene: quando Michele annunziava la volontà degli italiani, egli alzava i pugni minacciosi, quando sior Antonio accusava i giovani di imprudenza egli assentiva coi segni del capo; piangeva e minacciava, ora sembrava spaventato dalla sorte del suo padroncino, ora mostrava di non temere tutte le forze dell'Austria, e pareva che le dichiarasse una guerra d'esterminio.

Dopo una lunga discussione, senza poter concordarsi sopra un piano da seguire, sior Antonio pensando che la sorte di Michele non era ancora decisa, gli chiese:

— E voi che cosa pensate di fare?

— Bisogna che me ne vada.... egli rispose, meglio uccello di bosco che uccello di gabbia.... ma sono qui senza vesti, senza denaro, e nell'impossibilità di rientrare.... perchè un sacripante mi aspetta per prendermi al collo.... mi aspetterà un bel pezzo quel minchione!... se volesse prendere in cambio mio zio!... sono gli orsi che si devono mettere in gabbia!...

Sior Antonio non lo ascoltava che distrattamente, stette alquanto pensieroso, poi ordinò a Bortolo di dar l'avena alla Nina, e di tenerla pronta a partire, e condusse Michele nello scrittoio, ove tenne con lui una conferenza assennata e senza testimoni, per fissare il modo di sottrarre dagli artigli tedeschi colui che poteva ancora sperare di mettersi in salvo; e sulle misure da prendersi per giovare a Tiziano che colto per sorpresa non aveva potuto provvedere alla sua libertà.

Michele ricevette da sior Antonio del denaro, del quale gli rilasciò ricevuta, e Maddalena lo fornì di biancheria e d'altri oggetti indispensabili, che vennero collocati in un piccolo sacco da viaggio, e dopo di aver ringraziati con parole cordiali quei buoni amici, augurò loro che non avessero a soffrire lungamente per la detenzione di Tiziano, pel quale li assicurava che non ci potevano essere motivi fondati per procedere; e prima dell'alba, uscito da quella casa con ogni precauzione, entrava in un sentiero nascosto fra i boschi, e andava a riuscire sulla strada maestra, a qualche distanza dal paese, ove Bortolo doveva subito raggiungerlo colla timonella tirata dalla Nina.

Sior Antonio rientrato in cucina procurò di calmare sua moglie che continuava a piangere dirottamente, e le disse:

— Bisogna aver coraggio, e non abbandonarsi ad una sterile disperazione. Le lagrime non possono servirci a nulla. Adesso invece dobbiamo occuparci seriamente del nostro Tiziano. Appena giorno io andrò dal commissario per vedere che cosa pensa di fare, poi ho l'intenzione di far una visita al consigliere, per aver qualche consiglio utile, da un uomo esperto in queste faccende. E tu non lasciarti vedere troppo accorata dalla gente; e questo per due motivi: prima di tutto si farebbe torto a Tiziano, lasciandolo credere colpevole, poi sembrerebbe che la nostra famiglia conosciuta pei suoi antichi sentimenti di patriottismo, fosse disperata alla prima prova, e scoraggiata alla prima sventura. Animo dunque, chiudiamo l'amarezza nell'anima, e mostriamoci forti nella sventura.

E preso il cappello se ne andò prima di tutto da Sior Iseppo per avvertirlo dei provvedimenti presi riguardo a suo nipote, e sulle misure fissate d'accordo con lui per facilitargli la fuga.

Trovò il vecchio ancora indignato contro i tedeschi che si erano permessi di rompergli il sonno, come se non avessero potuto arrestare suo nipote senza disturbarlo.

Sior Antonio gli rese conto di quanto aveva fatto per Michele, facendogli sperare di poter fra breve ricevere sue notizie da un luogo sicuro. Sior Iseppo alzando la destra, fece un rapido movimento che pareva volesse significare: — che il diavolo se lo porti in malora! — e continuò a lamentarsi che gli avevano sconvolta la casa per cercarlo e che in fine dei conti un po' di prigione non gli avrebbe fatto male per insegnargli l'economia, la disciplina e la quiete. — Uhm! uhum! mormorava sior Iseppo, teste calde!... gioventù senza giudizio!... — Tuttavia volle regolare i conti e restituire a sior Antonio il denaro sborsato, ma lamentandosi continuamente dei disturbi, delle spese, dei sacrifizi ai quali si trovava esposto per le scapataggini di quel matto di suo nipote.

Il roccolo di Sant'Alipio

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