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IV.

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Il grido di Viva San Marco della prima rivoluzione di Venezia è stato criticato come inopportuno e municipale; ma esso sorgeva spontaneo dalla tradizione storica, dalle memorie domestiche, dalla fede religiosa del popolo veneziano, rinvigorito dall'aspetto dei monumenti, dalla insigne basilica, dalle colonne e dal leone della piazzetta, che ricordavano la repubblica che vantava quattordici secoli d'indipendenza. Dopo la sua caduta, Venezia non aveva veduto che la demagogia e la invasione straniera, il popolo non conosceva altri governi possibili; insorgendo contro l'Austria, Venezia ignorava la rivoluzione di Milano che si compieva nello stesso giorno, non sapeva che cosa avrebbero fatto gli altri paesi, le era impossibile di rappresentarsi istantaneamente il grande concetto della unità italiana. Al colosso che cadeva essa non poteva sostituire un'incognita, un mito futuro; ma vi sostituiva un nome immortale, il governo de' suoi antenati, la cui bandiera aveva dominato i mari, ed era stata onorata non solo dall'Europa, ma dai popoli più lontani.

Non era una sollevazione premeditata che la spingeva alla rivoluzione con piani studiati e preconcetti, era l'indignazione unanime, spontanea d'un popolo mite e civile angariato da odiose vessazioni, umiliato nei sentimenti più delicati della sua dignità, offeso nelle sue più sante memorie, risvegliato dall'esempio di Roma risorta, incoraggiato dalle rivoluzioni di Parigi e di Vienna; era un entusiasmo passionato, un'ebbrezza accompagnata da tutti i lirismi della poesia, da tutte le imprudenze dell'ignoranza. Tutti quei popolani avevano avuto un padre devoto a San Marco come sior Antonio, un nonno come Taddeo, che accanto al focolare domestico, aveva le cento volte rammentato ai nipoti le pompe de' suoi tempi, le feste religiose e civili del governo caduto. E tutti avevano detestato le sevizie dell'Austria, e ritenevano come un insulto gli arresti dei più degni cittadini, l'invasione dei croati, e la bandiera gialla e nera che sventolava sulle antenne che rammentavano le glorie veneziane, di Cipro, Candia, e Morea.

In quei giorni febbrili del primo risorgimento pareva che il leone di bronzo agitasse le ali sulla colonna di granito della piazzetta, e il sole che dardeggiava i suoi raggi in quegli occhi lucenti li faceva brillare d'un fuoco scintillante, che pareva precedere un tremendo ruggito. Al solo guardarlo, il popolo si sentiva trascinato al grido d'entusiasmo di Viva San Marco!...

Manin, liberato improvvisamente dal carcere, non ebbe il tempo di rivestirsi completamente cogli abiti che gli recarono gli amici, e venne trasportato in trionfo sulle spalle del popolo, calzato con uno stivale in un piede ed una pantofola nell'altro. Tommaseo uscito a capo scoperto dovette accettare il berretto d'un popolano. La liberazione di Manin è ricordata da una medaglia che rappresenta questa scena, colla iscrizione: — Liberato dal popolo il 17 marzo liberatore del popolo il 22 marzo 1848.

Dopo la presa dell'arsenale, e la capitolazione degli austriaci, i nostri due cadorini, lieti della libertà e desiderosi di rivedere le loro montagne, partirono da Venezia.

Usciti dalle vie tumultuose, ove il popolo faceva gazzarra fra gli evviva alla patria indipendenza entrarono in gondola, e solcarono la calma e silenziosa laguna, che sotto un cielo sereno, e davanti a quegli azzurri orizzonti non pareva destinata alle orribili scene di fuoco e di sangue che dovevano consacrare la sua libertà. A Mestre rividero la Nina la quale appena riconosciuti i padroni li salutò con allegri nitriti, ben felice di lasciare la stalla chiusa per ritornare ai freschi pascoli delle Alpi. Trovarono Treviso nell'esultanza, costituito in governo provvisorio coi suoi bravi ministri, delle finanze, delle pubbliche costruzioni, dell'istruzione e del culto, e perfino col dicastero della guerra e diplomazia, al quale non mancavano altro che gli ambasciatori e i soldati. Rividero con gioja l'ampio letto del Piave, che dietro la corrente delle sue limpide acque portava l'aria fresca del Cadore. Si arrestarono per riposarsi alquanto a Conegliano, ove Tiziano contemplava estatico il ridente panorama dei colli sormontati dai ruderi delle torri medioevali, in fianco al tempio greco di casa Gera, stupendo prospetto che si sostituiva davanti i suoi sguardi alle tetre mura del carcere; e finalmente sulla sera attraversarono Ceneda, e giunsero a Serravalle ove passarono la notte. Al mattino seguente si alzarono per tempo, la Nina riposata e nutrita largamente di biada si mostrava ben disposta d'intraprendere col consueto vigore le salite faticose dei monti. Uscivano dalla stretta gola di Serravalle quando il sole nascente indorava i tabernacoli di Sant'Augusta scaglionati sulla montagna, mentre la valle opposta appariva ancora confusa nell'ombra. La brezza mattutina increspava le acque dei laghetti, e agitava le canne palustri, che mandavano quel lieve bisbiglio che trascina la fantasia a pensieri vaganti nell'infinito, e dispone lo spirito ad una dolce malinconia.

Giunti al lago morto scesero di timonella per rendere meno penosa l'ardua salita alla povera bestia che ansava, e la seguirono a piedi, silenziosi. Tanto il padre che il figlio erano invasi da molteplici pensieri, che le emozioni varie, i tumulti e gli entusiasmi dei giorni trascorsi avevano assopiti, ma che rigermogliavano rigogliosi nel silenzio e nella pace di quelle solitudini montane. Alle amarezze del passato remoto, alle soddisfazioni del presente, succedevano le incertezze dell'avvenire. In tempi di rivoluzione la vita è una continua vicenda di burrasche interrotte da brevi bonaccie. Non si è usciti felicemente da un pericolo che già minacciano nuove peripezie. — Quale sarà l'avvenire?... Sior Antonio vedeva torbido, e temeva rappresaglie e vendette austriache. Egli si rammentava le parole del Consigliere imperiale, che l'Austria non cederebbe mai i suoi domini in Italia, e che sarebbe sempre sostenuta dalla Confederazione germanica, che trovava utile di fissare i suoi confini in casa degli altri. E gli si affacciavano alla mente tutte le difficoltà d'una guerra nazionale, contro potenze sostenute da eserciti regolari, e munite d'armi e materiali che mancavano intieramente all'Italia. E il suo primo entusiasmo per la libertà si attutiva davanti ai nuovi pericoli che sovrastavano al paese, egli vedeva la vita di suo figlio esposta ai rischi d'una probabile difesa della patria, le proprietà violate e manomesse dalla guerra, le famiglie angariate, le seghe minacciate di saccheggi, gli operai dispersi, gli affari incagliati da disordini e disastri.

Tiziano invece sognava placidamente le dolcezze dell'amore e della pace domestica, nella indipendenza, e nella libertà. Egli s'immaginava finito per sempre il dominio straniero, e incominciata per la patria una nuova êra, piena di dignità, di felicità, di ricchezze. E Maria stava in cima de' suoi pensieri, come l'angelo sorridente della nuova fortuna, la meta di tutte le sue aspirazioni, il supremo compenso delle sue pene, delle sue fatiche, la consolazione della sua vita.

Ciascuno guarda l'avvenire colla propria lente, ma l'avvenire nessuno lo vede, e la lente non fa che riprodurre quello che si trova nel cervello del riguardante, cioè le speranze e i sogni della gioventù, o il senno dell'esperienza nell'età più matura.

Così divagando colla fantasia fra mille cose diverse e confuse, costeggiando i monti franosi di Fadalto, i nostri viaggiatori senza quasi avvedersene giunsero a Santa Croce ove si arrestarono per rinfrescare la Nina, e far colazione. Dopo un conveniente riposo risalirono nel loro veicolo e proseguirono la strada in fianco al lago che si stende fino ai colli d'Alpago, alle falde del bosco Cansiglio. Attraversato il Piave a Capodiponte si avviarono verso Longarone, ove fecero un'altra sosta, prima di riprendere la strada per Castellavazzo, e sempre in riva della Piave, e in fianco d'alte montagne raggiunsero il paesello di Termine, ed entrarono finalmente in Cadore.

Perarolo è l'emporio generale del legname cadorino, e presenta il carattere speciale di questa regione alpina, che mostra tutta la sua ricchezza forestale nelle taglie ammonticchiate davanti le chiuse che sbarrano il fiume torrente, e con voce locale si chiamano cidoli. Quando si apre il cidolo le taglie scendono pel torrente ed entrando nei canali artificiali vanno ad alimentare le centotrentadue seghe che sorgono sul Piave da Perarolo a Longarone, e che forniscono in media dai tre ai quattro milioni d'assi all'anno, le quali legate a fasci con cavicchie di faggio, e gettate in acqua, in una specie di bacino di carenaggio, vanno a formare circa 3200 zattere, che galleggiando sul fiume e sulle lagune giungono a Venezia dove vengono spedite ai magazzini della penisola, o caricate sui bastimenti partono per la Sicilia, le Isole Jonie, la Grecia, Malta, Alessandria d'Egitto e di colà sul dorso dei cammelli entrano talora fino nel centro dell'Africa.

A Perarolo molti zatteri, segatini, e menadàs vedendo sior Antonio con suo figlio si fecero loro incontro, plaudendo clamorosamente alla liberazione di Tiziano, e in breve tempo la timonella fu circondata da amici, da conoscenti e da curiosi che udite le novelle di Venezia corsero a propagarle nel paese, e a spiegare le bandiere tricolori che erano già pronte nelle case.

Fu non piccola difficoltà liberarsi da quella folla che seguiva i reduci fino sulla strada detta la cavallera, che sale sul monte in zig-zag con arditissime curve.

Finalmente giunti al sommo della salita, vennero salutati da un ultimo applauso, e da un ultimo addio, ed entrarono nel bosco che domina la valle di Caralte appiè di altissimi monti, sul margine d'un profondo burrone, dal quale si ode il cupo mormorìo della Piave che batte le sue onde spumanti nelle pareti di macigno della sua base. Quando ebbero percorso il lungo tratto di via che attraversa i boschi, e s'interna nei prati, e giunsero a quel punto dove la strada esce all'aperto, Tiziano scorgendo Montericco e i ruderi dell'antico castello, sentì che il cuore gli batteva precipitoso, e guardando a quei gruppi d'alberi che gli nascondevano il nido diletto, provava quella beatitudine, che è così bene espressa sui volto ascetico dei santi, che in un'estasi soave travedono il paradiso, nei dipinti dei pittori insigni delle vecchie scuole italiane.

Sul tramonto del sole passavano per Tai, e sull'imbrunire entrarono in Piave, e poterono raggiungere la loro dimora senz'essere veduti da nessuno. Non ebbero nemmeno bisogno di picchiare alla porta. Fido, riconosciuto da lontano il passo della Nina, s'era messo ad abbajare, e saltando all'uscio con indizi evidenti d'impazienza e di gioja domandava che si corresse ad aprire. Bortolo, che dopo l'arresto di Tiziano aveva veduto il cane costantemente malinconico, accovacciato in un angolo della cucina o della stalla, vedendolo colle orecchie tese stare in ascolto e poco dopo saltare in piedi, balzare verso la corte abbajando e agitando la coda, comprese subito ciò che voleva dire la buona bestia, e corse ad aprire. Poco dopo, la timonella coi viaggiatori, entrava nel cortile, e Fido vi saltava dentro, prima che avessero il tempo di discendere, e con dimostrazioni di letizia convulse e rumorose accarezzava i padroni, poi correva tutto intorno alla corte con allegri abbajamenti, come per avvertire quelli di casa, e tutto il vicinato del felice avvenimento, e non finiva più di manifestare in varie forme le ripetute prove della sua immensa contentezza. Intanto la Betta era accorsa col fanale acceso, seguita dalla padrona che s'era gettata nelle braccia del figlio.

I baci, le carezze, le domande e le risposte durarono un bel pezzo mentre che Bortolo conduceva in stalla la Nina, la stropicciava affettuosamente, le lavava gli occhi e la bocca, le apparecchiava un buon letto di paglia, e finalmente tutti entrarono in casa. Era bello trovarsi ancora riuniti intorno a quel santo focolare, da ove erano stati rapiti e divisi dalla violenza di stranieri dominatori che non avevano altro diritto che quello della forza. Era una grande consolazione sedere a quella mensa di famiglia, ove da padre in figlio s'erano succedute parecchie generazioni di galantuomini, che prima di dormire in pace nella tomba, avevano trasmesso nei figli dei loro figli il loro tipo caratteristico, le loro abitudini, la lingua e le storie del paese, gli affetti e le memorie domestiche. E quella sera la cena fu lunga, e i racconti infiniti. Maddalena non poteva saziarsi di contemplare suo figlio, lo trovava patito, sofferente, voleva conoscere i suoi dolori, dividere le ansie della prigione e i pericoli del processo ascoltando il suo racconto, e godeva di udire dalla voce del marito la collera dei Veneziani contro i tedeschi, la loro concordia nel manifestarsi malcontenti e decisi di finirla, l'entusiasmo del popolo, lo sgomento delle truppe, l'audacia fortunata di Manin all'arsenale, la sua fermezza e la sua autorità, quando imponeva a tutti l'ordine, la concordia, la disciplina; e si esaltava ella stessa, quando Tiziano esclamava:

— Ah se il nonno Taddeo avesse udito nuovamente quelle grida di — Viva San Marco! — che avevano risuonato alle sue orecchie al tempo della repubblica!... se avesse assistito all'imbarco dei tedeschi, mentre la bandiera italiana sventolava sulle antenne della piazza!...

La Betta ascoltava in silenzio, rideva e piangeva, Bortolo interrogava, voleva che gli spiegassero minutamente ogni cosa, s'inteneriva o si accendeva di sdegno secondo le impressioni ricevute, e così passarono una gran parte della notte, e non si decisero di andare a letto che quando cascavano tutti dal sonno, e che mancava l'olio alla fiorentina.

Sior Antonio ritornato nella sua camera dopo la lunga assenza, faceva gli elogi della bontà dei padroni, che lo avevano ospitato e consolato con tanta cordialità, descriveva alla Maddalena il lusso del palazzo, le diceva che aveva dormito in un letto da principe, sotto un baldacchino di damasco... poi mettendosi in testa il berretto da notte conchiudeva:

— Dopo tutto questo non vi sono stanze reali, nè letti sontuosi dove si stia meglio della nostra camera, e del nostro letto, e stirandosi le stanche membra sotto la vecchia coperta di lana, si addormentava profondamente.

Il giorno appresso essendosi già sparsa per tutto il Cadore la notizia della partenza delle truppe austriache di Venezia e dalle provincie, e del ritorno dei Larese, la loro dimora fu invasa dai parenti, dagli amici, dai conoscenti, e dai curiosi, avidi di abbracciare i reduci, e di udire le novelle della rivoluzione.

L'Arcidiacono accorse fra i primi a congratularsi con Tiziano per la sua liberazione, ed a ringraziare sior Antonio delle sue lettere. E più tardi si vide comparire anche il Consigliere imperiale con tanto di coccarda italiana sulla bottoniera, col viso atteggiato ad uno sberleffo che voleva essere un sorriso di compiacenza, ma che malgrado lo sforzo non riusciva all'intento. Fra le visite più gradite Tiziano potè abbracciare strettamente il suo caro Isidoro Lorenzi che gli portava i saluti di Maria, e veniva ad invitarlo a passare tutto l'indomani al roccolo di Sant'Alipio.

Tiziano non si fece pregare, e di buon mattino attraversò il bosco dei larici, ed entrò in quel delizioso romitaggio la cui lontananza lo aveva fatto soffrire più di tutto nei carcere di Venezia.

Isidoro era uscito per tempo per predisporre coi suoi amici la convocazione della Comunità Cadorina, e Maria aspettava Tiziano alla finestra. Quando lo vide entrare diede un guizzo, scese precipitosamente la scala, e corse ad incontrarlo. Tiziano la prese per le mani e le depose un bacio sulla fronte; si dissero delle parole confuse dalla commozione pronunciate colle labbra tremanti, e s'avviarono a quel padiglione di verdura che il giovane aveva denominato il nido di Montericco. Il sole brillava nel cielo sereno, l'aria leggiera era pregna d'esalazioni resinose, la Piave sussurrava fra i sassi del suo letto, e si udiva il muggito delle mandre che uscivano dalle cascine per abbeverarsi nel torrente, e un lieve stormire di fronde confondeva tutti quei suoni lontani col canto degli uccelli, col ronzio degl'insetti, e col soave mormorìo delle loro confidenze. Tutte le angoscie passate apparvero a Tiziano come le dolorose impressioni d'un sogno svanito. Quale cambiamento di scena! dalle tetre mura, dalle doppie inferriate, dalla triste solitudine e dall'afa nauseante della prigione, egli era passato rapidamente all'entusiasmo turbinoso d'una rivoluzione popolare, e da quei fragori assordanti, si trovava trasportato come per incanto fra le armonie soavi della natura, davanti l'aspetto ridente delle montagne, delle colline boscose, della vallata pittoresca, nel nido di Montericco accanto a quella bella fanciulla, fra i profumi della terra e delle piante.

L'ebbrezza della libertà, della gioventù, della vita lo tenevano sollevato dalle cose terrene, in un etere splendido, sottile, in un'estasi di delizie sovrumane; e così assorti entrambi in un magico prestigio, rimasero lungamente in silenzio a sentirsi vivere in quella strana esistenza.

Finalmente ruppero il silenzio per raccontarsi le reciproche impressioni dei giorni dolorosi. Essa gli narrò il raccapriccio provato alla notizia dell'arresto, le ansietà di quei giorni pieni di amarezza, le preghiere che aveva fatte al cielo per la sua liberazione, la felicità nell'udire l'annunzio del vicino ritorno. Egli le raccontò i dolorosi pensieri del carcere, le soavi rimembranze del passato che venivano a rendere più desolante la sua prigionia, e a fargli doppiamente sentire la privazione della libertà, la mancanza d'aria e di luce, le ore solitarie passate sul pagliericcio della prigione coi pensiero intento al roccolo di Sant'Alipio, a quel nido di Montericco, veduti da lontano fra le nuvole, come un paradiso antecipato sulla terra, che forse non lo avrebbe mai più consolato nella vita.

E ai lunghi discorsi affettuosi, succedevano nuovi silenzi ancora più eloquenti, e quando la bocca taceva parlavano gli occhi, quell'arcano linguaggio che senza alfabeto scritto, nè segni convenzionali, imprime e scolpisce con indelebili impronte. Così si amavano profondamente, senza aver mai pronunciata una parola d'amore.

Nella prima infanzia crebbero insieme come fratelli, poi divennero colleghi nella scuola della maestra; e nei giuochi giovanili Tiziano prediligeva Maria, era sempre il suo confidente, il protettore, l'amico inseparabile, che essa chiamava in soccorso in ogni pericolo. Quella grazia e quella forza si erano legate insieme fino dai primi anni della vita come l'edera e la quercia che nascono da vicino, la pianticella rampicante si attacca al tenero arboscello e crescono insieme congiunti, e l'albero diventa il gigante della foresta, senza essersi mai diviso dalla sua fedele compagna, che gli si è radicata intorno, e vive della vita di lui. Una tale affezione, subì naturalmente tutto il successivo sviluppo della loro esistenza. L'inclinazione naturale fra i bimbi divenne predilezione, simpatia, amicizia cordiale, e tenerissimo amore, passando lentamente, gradatamente, insensibilmente, alle successive trasformazioni, come l'infanzia passa alla gioventù, alla pubertà, ed alla età virile. Le separazioni subite a vari intervalli spingevano a queste modificazioni, che ad ogni ritorno crescevano d'un grado. La predilezione si trasformò in amicizia dopo la separazione del seminario; l'amicizia divenne amore dopo l'assenza degli studi universitari, ma l'intervallo del carcere fece crescere grandemente questa passione che s'era accesa nella solitudine, e nella sventura. E nelle successive trasformazioni di questo affetto non c'era mai stato un momento nel quale la parola — ti amo — avesse potuto uscire opportunamente dalle loro labbra; e come essi ignoravano l'origine del loro amore così non potevano ammetterne il fine, pareva che le loro anime si fossero amate in una vita antecedente all'umana esistenza, e certo quell'amore avrebbe sopravissuto alla tomba, «Ti amo» non è che un presente che può stare anche senza passato e senza futuro. Tutti gli amanti si promettono un'amore immortale, essi sentivano un amore eterno, infinito. L'amore era per essi come Dio, superiore ad ogni volgare dimostrazione lo sentivano dentro nell'anima, ma non avrebbero potuto esprimerlo con umane parole. Ecco perchè non s'erano mai detto — ti amo — parola che avrebbero trovata fredda, insignificante, ed inutile. Tale era il loro amore, tale lo sentivano espandersi d'intorno negli aliti della natura, nelle oscillazioni, dell'aria, nell'azzurro del cielo, nell'infinito universo; era una fiamma che ardeva perenne, e mandava scintille, un olezzo di fiore che imbalsama l'aria. Nei loro silenzi le anime rapite in un estasi soave volavano in un'etere celeste, come due angeli insieme congiunti nell'adorazione dell'ente supremo raffigurati da fra Angelico in mezzo alle nuvole illuminate da raggi divini. E dopo quei voli vorticosi scendevano a riposarsi sulla terra, e trovandosi seduti vicini nel nido di Montericco, riprendevano tranquillamente a parlare delle cose mortali.

Michele, il loro amico d'infanzia, tornava in campo sovente nei loro dialoghi. Rammentavano la sua vivacità, i suoi motti, la sua fortuna d'essere sfuggito agli artigli dell'aquilotto bicipide, e in pari tempo al grugno dell'Orso, e lo attendevano di ritorno dall'esiglio.

S'intrattenevano con tali discorsi quando i latrati di Turco li avvertirono che Isidoro rientrava al roccolo. Tiziano gli corse incontro, si strinsero al seno affettuosamente, e Turco, riconosciuto subito l'amico del padrone, e il compagno di caccia, gli saltò addosso con ripetute dimostrazioni di letizia.

Maria rientrò in casa per assistere la vecchia serva negli apparecchi del desinare, che un'ora dopo era servito in tavola sulla loggia, ove i tre amici sedettero lietamente davanti il prospetto di quei monti e di quelle valli che formavano per loro le gigantesche pareti della più meravigliosa sala del mondo.

Dopo il pranzo Isidoro tirò fuori la sua pipa, ma rammentandosi la dimostrazione italiana di astenersi dal tabacco, domandò ridendo a Tiziano:

— È permesso di fumare?..... il tabacco di contrabbando?...

— È permesso qualunque tabacco — gridò Tiziano — e viva finalmente la libertà!...

Passarono un bel giorno, e separandosi a notte avanzata, Tiziano ed Isidoro si diedero appuntamento per l'indomani nella sala della Comunità ove erano convocati i rappresentanti di tutto il Cadore.

Quando Tiziano fu solo nella sua camera aperse le finestre. La luna spandeva sui monti la sua candida luce, tutto era pace e silenzio. Pensò a Maria, al dolore che provava ogni qual volta doveva lasciarla, anche per poche ore, sentì come senza di lei fosse un vuoto insopportabile nella vita, e il mondo apparisse una triste solitudine, gli parve dunque necessario di trovare il modo di averla sempre vicina, e non ce n'era che uno solo, quello di farla sua moglie. Di ciò non le aveva mai parlato, ma sentiva benissimo che non ce n'era bisogno, e che fra loro il matrimonio doveva essere sottointeso. E questo desiderio ardente del suo cuore diventava anche un obbligo di galantuomo, perchè vicino a lei si sentiva rapito da tali ebbrezze, da diventar cieco, con grave pericolo di entrambi.

In un trasporto d'amore, egli avrebbe potuto dimenticare tutti i doveri della vita, e trascinare colei che adorava fino all'orlo della colpa.

Maria rimasta orfana della madre essendo ancora bambina, era cresciuta nella libertà della natura fino al tempo che venne istruita da una brava e saggia maestra, che seppe non guastare la semplicità della sua vita innocente, secondata dall'affetto d'un padre affettuoso probo ed onesto, il quale era così alieno dal male che non poteva sospettarlo negli amici, e lasciava la figlia insieme a tutti i suoi colleghi dei primi anni, con la buona fede dell'uomo intemerato. Offendere quella fiducia, tradire quell'uomo, non era possibile coi costumi semplici ed onesti del Cadore, e Tiziano non si sarebbe mai perdonato un errore che avesse macchiato la candida veste di sposa di colei che doveva entrare nella sua famiglia, e portare il suo nome onorato. E così si decise a non tardare più oltre a rendere sacro e rispettabile il suo amore colla promessa di sposo, che assicurava la sua felicità, e giustificava la sua condotta.

Con l'animo lieto, e la coscienza serena per la presa determinazione, dormì tranquillamente tutta la notte, del sonno del giusto.

Alzatosi di buon mattino, andò a trovare sua madre, la prese per mano, la condusse nello scrittoio ove sior Antonio allineava i suoi conti, e confidò ai genitori riuniti il suo amore, e il desiderio di farsi sposo; che venne accolto da entrambi con sincera soddisfazione, perchè amavano e stimavano Isidoro, e sua figlia Maria, ed erano lieti di accoglierla in casa come una figlia. E fu subito stabilito che dopo la riunione nel palazzo del Comitato, sior Antonio andrebbe al roccolo di Sant'Alipio, a domandare formalmente ad Isidoro Lorenzi la mano di sposa di sua figlia, ed a fissare i preliminari del matrimonio.

Il roccolo di Sant'Alipio

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