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II.

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Intanto che Michele prendeva la strada di Auronzo per cercare un rifugio in casa d'un amico, Tiziano partiva per Venezia accompagnato dal commissario che era venuto ad arrestarlo e scortato da due gendarmi a cavallo, che trottavano in fianco della vettura; e quando sior Antonio si recò alla mattina dal commissario distrettuale per aver notizie dell'arrestato, questi era già partito da un pezzo.

Il povero padre sorpreso a tale annunzio protestava vivamente, voleva seguire subito suo figlio, ma il commissario lo consigliò a starsene in casa tranquillo, assicurandolo che se non era colpevole sarebbe rimandato in famiglia fra pochi giorni, e lo esortava a confidare intieramente nella clemenza del paterno regime di Sua Maestà Imperiale Reale ed Apostolica, la quale non voleva altro che la felicità de' suoi sudditi. Il padre desolato non rispondeva per non aggravare la condizione del figlio, ma frenava a stento la sua indignazione e i suoi sospetti, avendo udito a narrare tante volte i processi del vent'uno, le condanne a morte ed all'ergastolo, le lunghe prigionie dello Spielberg ove degli uomini onesti che non volevano altro che l'indipendenza della patria, erano stati trattati peggio dei ladri e degli assassini, e fremeva pensando a suo figlio caduto in quelle mani spietate. Però dovette fingersi fidente e rassegnato e ritornarsene a casa a riferire il risultato della sua visita.

Intanto la notizia dell'arresto s'era diffusa nel paese, tutti ne parlavano con sdegnosa sorpresa, in piazza si formavano dei capannelli di persone ove taluno raccontava il fatto alla sua maniera agli uditori indignati. I quattro gendarmi che erano rimasti a Pieve andavano in giro a due a due, sospettosi e guardinghi, vedendo che la gente li guardava con disprezzo, e quasi in aria di sfida.

Un amico di Tiziano corse a dar relazione del fatto al roccolo di Sant'Alipio, fece piangere Maria e dovette consolarla colle solite speranze, mentre suo padre Isidoro, maledicendo l'odiato aquilotto bicipite salì nella sua camera e si mise in tutta fretta a bruciare varie carte.

Sior Antonio rientrato in casa trovò sua moglie malata, assalita da convulsioni, impaziente di aver notizie del figlio, amareggiata di non riceverne, e vari amici di famiglia che lo assalirono di pressanti domande; chi voleva sapere se la tal carta era stata sequestrata, se la tal lettera era stata distrutta in tempo, e chi voleva conoscere i particolari della perquisizione, e chi la fuga di Michele. Dopo di aver soddisfatto alla meno peggio ai desideri di ciascheduno, sior Antonio si ritirò nello scrittoio, e scrisse una lunga lettera ai suoi padroni raccomandando il figlio e chiedendo consigli.

Più tardi gli venne in mente di fare una visita ad un I. R. consigliere di Tribunale posto in quiescenza col titolo di consigliere imperiale, che viveva in Pieve in grand'auge presso tutte le autorità governative, come uomo influente pei suoi rapporti nelle alte sfere, e di raccomandarsi alla sua protezione, pregandolo di volerlo indirizzare sulla condotta da tenersi per far risaltare l'innocenza dell'arrestato.

Il consigliere imperiale era un personaggio grave e compassato che nel lungo servizio austriaco aveva acquistata quella rigidezza tedesca, che rende gli uomini duri, e tutti d'un pezzo. Egli aveva una fede illimitata nella potenza assoluta della monarchia austriaca, non ignorando però che era detestata dai cadorini, amici della libertà, e insofferenti del giogo tedesco.

Sior Antonio venne fatto entrare dalla governante nello studio, ove gli si affacciò subito allo sguardo un grande ritratto di S. M. I. R. A. Ferdinando I per la grazia di Dio Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, di Boemia, di Lombardia e Venezia, con dieci o dodici righe di titoli che finivano col gran Voivoda del voivodato di Serbia, e i soliti ecc., ecc. Sulle altre pareti della stanza pendevano gli arciduchi e marescialli, come in corteggio del sovrano, sotto al quale siedeva in poltrona il consigliere imperiale, davanti lo scrittoio, come un magistrato in funzione, col volto raso, e cravatta bianca. Egli accolse l'introdotto, col solito sussiego, accompagnato da un sorriso d'indulgente benevolenza, e se lo fece sedere dirimpetto.

Sior Antonio gli raccontò in poche parole la sua disgrazia, con quei commenti, che la sua naturale ingenuità gli faceva trovare opportuni, e lo pregò di volerlo proteggere e consigliare, in questa grave e dolorosa contingenza.

Il consigliere imperiale ascoltò impassibile ogni cosa, senza che un minimo movimento del volto annunziasse le sue impressioni, e quando l'altro ebbe finito egli incominciò col deplorare la insania di coloro che senza armi nè aiuti si mettevano in testa di voler obbligar l'Austria a cedere i suoi dominii italiani, che erano considerati come frontiera indispensabile alla sicurezza della Germania. E fabbricando un edifizio di argomenti perentorii su questa base, veniva alla conclusione finale che l'Italia deve rassegnarsi in eterno ad essere governata dai tedeschi, e che era una vera pazzia lo scaldarsi la testa con idee sovversive che non potevano condurre che alla galera ed alla forca. È facile immaginare come riuscissero confortanti all'animo afflitto del povero padre, quegli argomenti così lampanti delle idee del magistrato, che dimostravano con tanta evidenza la protezione che si poteva sperare da lui, tuttavia l'affetto paterno è così grande che mentre l'istinto naturale lo spingeva a prenderlo per il collo e a gettarlo dalla finestra, il desiderio di giovare a suo figlio lo tenne inchiodato sulla seggiola e lo forzò a mostrarsi pacifico e rassegnato, giustificando come meglio poteva quella strana monomania di certi giovani esaltati, che si permettevano di pensare che l'Italia potesse avere il diritto di comandare in casa propria, e di non volere stranieri!.... Idee stravaganti ed assurde, certamente, ma che bisognava condonare alla gioventù senza esperienza, esaltata dagli atti inconsulti del nuovo pontefice Pio IX, il quale aveva commesse le imprudenze di benedire l'Italia, di richiamare in patria gli esuli e di liberare i condannati al carcere che il suo predecessore aveva trovati colpevoli di amare la loro madre.... la patria.... l'Italia!

Il consigliere imperiale alzava le spalle in segno di pietà ed osservava che la vera patria dei veneti e dei lombardi non era evidentemente che l'impero d'Austria, riconosciuto da tutte le potenze che riconoscevano parimenti il Napoletano, le Romagne, la Toscana, il Piemonte, ma nessuno conosceva l'Italia; un nome antico, che aveva un valore storico, ma che in politica non contava che come uno zero!...

Tali osservazioni punsero acutamente la probità naturale del buon cadorino, nato e cresciuto col senso retto del giusto e del vero indipendente dalle assurdità dei trattati, e non potè a meno di soggiungere:

— Mi pare che sia il paese e non il governo che fa la patria.... il Cadore è in Italia, e noi siamo italiani, malgrado il governo austriaco, i piemontesi, i toscani, i romagnoli, e i napoletani, sono tutti italiani al pari di noi!... nessuno può distruggere quello che ha fatto la natura!...

— Queste sono le idee sovversive, coltivate dalla vostra famiglia, e per le quali vostro figlio è in prigione. Ecco il frutto delle aspirazioni illegali, che espongono gl'incauti ai giusti rigori del governo, obbligato di tutelare i propri diritti e l'ordine pubblico. Il governo austriaco non vorrà mai cedere davanti le idee rivoltose di pochi agitatori....

— Veramente il fermento generale dimostrerebbe che gli agitatori non sono pochi, rispose sior Antonio, il paese è assai malcontento.... il governo non deve spingere l'irritazione agli eccessi con atti di rigore.... si ricordi signor consigliere che in Cadore c'è della gente risoluta, che non ha paura di nessuno, e non è prudente turbare la pace delle famiglie con violenze inesplicabili....

Il consigliere imperiale sapeva benissimo che i Cadorini erano tutti liberali e nemici del governo, s'avvide d'essere un po' trascorso coi discorsi, temette di compromettersi col paese, e come impiegato in quiescenza non voleva incorrere in pericoli e in disgrazie da nessuna parte. «Non si sa mai!» egli pensava fra sè, anche una passeggiera rivolta potrebbe costar cara ai troppo zelanti difensori dell'Austria la quale sarebbe sicura di reprimere ogni insurrezione, ma non potrebbe salvare le prime vittime del furore popolare. Era dunque miglior partito non scoprirsi intieramente, e cambiar tuono per vivere in pace, e senza pensieri, e modificando a poco a poco le sue espressioni, egli procurò di persuadere sior Antonio che parlava per vero interesse del paese, perchè giudicava che le imprudenze erano sempre dannose. Ciascheduno poteva pensare a suo modo senza esporsi a pagare per tutti. Del resto egli era animato dalle migliori intenzioni, sempre disposto a giovare al suo paese, e ai suoi cari compatriotti, e finì la sua seconda cicalata, in contraddizione colla prima, offrendo i suoi buoni uffici presso qualche persona autorevole per vedere se fosse possibile di mitigare la sorte del prigioniero, e per giovargli davanti le autorità superiori.

Dopo d'aver discusso sul modo di agire, venne deciso di aspettare una risposta alla lettera scritta a Venezia, per appigliarsi ad un partito:

— E intanto siate prudenti!... raccomandava il consigliere dal quale sior Antonio prendeva congedo, siate prudenti, che il paese stia tranquillo!... che ognuno attenda ai fatti suoi!... questo lo dico nel vostro interesse.... ve lo raccomando per l'interesse di vostro figlio!

Costretto di aspettare i consigli dei padroni, sior Antonio riprese tristamente le sue occupazioni, ma quando si recò alla sega per visitare i lavori e dare degli ordini, trovò i segatini, i menadàs e i zatteri fortemente indignati per il caso avvenuto, come se il governo avesse colpito un loro figliuolo, e volevano ad ogni costo recarsi a Pieve per reclamare il prigioniero. I zatteri alzavano le loro scuri in atto minaccioso, i menadàs agitavano le stanghe armate dall'anghier a due punte, i segatini mostravano il coltello, e tutti gridavano: vendetta.

Ci volle molta prudenza ed abilità per persuaderli che avrebbero aggravata la condizione di Tiziano con una dimostrazione tumultuosa che non poteva avere altro risultato che di fare nuove vittime, che conveniva aspettare un momento più opportuno per ottenere giustizia, e che per ora era necessario di astenersi da ogni atto imprudente ed intempestivo.

Frattanto Bortolo era ritornato colla Nina portando le prime notizie del fuggitivo, che era giunto felicemente in Auronzo. Per via non avevano incontrate persone sospette. Stavano sempre attenti guardando da ogni parte se vedessero spuntare l'elmetto dei gendarmi o se qualcuno li seguiva, o veniva ad incontrarli.

Prima di giungere in Auronzo si separarono, Michele volle entrare nel paese a piedi pei sentieri e i viottoli nascosti dietro le case mentre il suo compagno di viaggio riprendeva la strada di Pieve. Bortolo non sapeva altro, e tutto contento della sua impresa felicemente riuscita, fregava la Nina con due manate di paglia, e vedendola sfinita inzaccherata fino al ventre, e bagnata di sudore, procurava di consolarla con delle buone parole:

— Povera Nina, le diceva, ti darò una buona porzione di avena e crusca, e sarai contenta, e potrai riposarti al caldo.... e quella brutta gente non avrà il gusto di chiapparlo il nostro amico.... noi lo abbiamo salvato. Avessimo potuto salvare anche il nostro padrone!... mah! povero Tiziano.... Povero Tiziano!...

Fido accovacciato in un angolo della stalla stava ascoltando i discorsi del giovane, e avendo udito il nome del suo padrone assente, alzava gli occhi malinconici, e mandava un guaito doloroso.

Michele aveva un amico in Auronzo, nella cui casa poteva starsene al sicuro, apparecchiando la sua fuga in modo da farla riuscire, mentre la polizia lo cercava da ogni parte, e ne mandava i contrassegni al confine.

Da colà egli faceva avvertire segretamente Giacomo Croda del suo arrivo, e d'accordo con lui e con l'amico venne stabilito di cacciarsi nelle montagne del Tirolo e di attraversarle per recarsi nella Svizzera. Nel cuore dell'inverno l'impresa era assai faticosa, ma non impossibile per due intrepidi cacciatori di camosci, e specialmente colla guida di Giacomo il quale dall'osteria delle Alpi sul lago di Misurina conduceva i viaggiatori pedestri, tedeschi ed inglesi, sulle più eccelse cime dei monti, nei mesi estivi, e faceva anche il contrabbandiere in tutto il tempo dell'anno con inarrivabile destrezza.

Quando il tempo si mise al sereno passarono l'Ansiei, e ben muniti di provvisioni s'inoltrarono per un sentiero appena praticabile dalle capre. Varcarono montagne che parevano inaccessibili, costeggiando i precipizii alle falde di eccelse rupi che alzavano a perpendicolo le creste nude, frastagliate ed aguzze, come gigantesche muraglie diroccate, veri baluardi naturali dei confini d'Italia.

Attraversarono vallate boscose e profonde solitudini, ove non si udiva altro suono che il fragore dei torrenti, il sibilo del vento, e gli acuti stridi degli uccelli di rapina. Non traccia d'uomo in quei selvaggi deserti, ma una natura sublime che elevava lo spirito al di sopra della terra, e delle umane miserie. Rupi sopra rupi, accatastate, rotte dalle frane, frastagliate di boschi, cime nevose d'ardua salita, ove appena raggiunta la sommità si vedevano nuovi massi spaventosi che si dovevano superare quasi a perpendicolo, aggrappandosi colle mani ai magri virgulti che sporgevano dai crepacci. Ma quando avevano guadagnata la più eccelsa vetta della più alta montagna, e il loro sguardo dominava le cime sottoposte e l'immensa pianura che si stendeva fino ad una linea azzurra che indicava l'Adriatico, allora si credevano i padroni dell'universo, e non avevano più nulla a temere dalle tirannidi dei governi e dalle insidie degli uomini. Michele saliva sopra una roccia, faceva dei segni cabalistici in aria, e quando Giacomo Croda gli chiedeva delle spiegazioni, egli rispondeva:

— Maledico i tiranni, scaglio anatemi a tutti coloro che pretendono dominare in casa degli altri contro il diritto di natura. Verrà un giorno nel quale saranno sepolti dalla giustizia popolare, come quelle pietre che credevano di stare al sole per lungo corso di secoli, e che ora sono sepolte dalle valanghe e stanno ai nostri piedi.

Alla notte i due viandanti si riposavano nelle baite, capanne abbandonate dai pastori che all'inverno si ritirano nei villaggi o scendono alla pianura. Accendevano il fuoco con rami di abeti e di ginepri, cenavano tranquillamente intorno alla fiamma. Michele trovava eccellente ogni pasto, dichiarando che il pane nero delle carceri non avrebbe mai avuto l'onore di entrare nel suo stomaco. Poi accendevano le pipe, e ciarlavano fino alla comparsa del sonno. Allora si coricavano al suolo avvolti nelle loro coperte o sepolti sotto le foglie secche, se avevano la fortuna di trovarne in quei tugurî, e russavano fino al mattino.

Talvolta però il freddo era così acuto che tagliava il viso, toglieva il respiro, gelava le estremità, diventava pericoloso. Ma il pensiero della libertà rianimava il coraggio di Michele, il quale piuttosto di vivere nell'aria cupa e mefitica d'una prigione, preferiva di morire intirizzito sulle Alpi.

Talvolta potevano anche scendere in qualche villaggio, ed entrare in qualche capanna conosciuta da Giacomo, ove i contrabbandieri si davano la posta, e trovavano un rifugio sicuro. E colà poterono refocillarsi, dormire sopra un letto, e rinnovare le provvisioni. Vicino ai confini raddoppiarono le precauzioni e la vigilanza; e sovente nascosti dietro una roccia videro passare da lontano le guardie doganali che perlustravano i luoghi sospetti; ma uscirono sempre felicemente da ogni pericolo, e dopo molti giorni di marcie faticose attraverso le Alpi tirolesi, entrarono finalmente nel Cantone Ticino. Appena varcato il confine, Michele salutò con entusiasmo la Svizzera, e messosi in ginocchio volle baciare la terra della libertà.

Dopo d'essersi riposati qualche giorno si divisero. Michele consegnò a Giacomo alcune lettere per lo zio, per Sior Antonio e per l'amico d'Auronzo, e partì pel Piemonte. L'altro, fatte le sue provviste di tabacco e sigari, si unì a dei colleghi che avevano gli stessi motivi di lui per evitare le strade maestre, e ritornò in Cadore, dove consegnò le lettere ricevute.

Sior Antonio fu contento di sapere che Michele era giunto felicemente in paese libero, ma sentì doppiamente il dolore della prigionia di suo figlio, ed era grandemente meravigliato di non aver ancora ricevuto nessuna risposta da Venezia.

Finalmente dopo lunga aspettativa giunse un messo mandato a posta dai padroni il quale giustificò il motivo del loro silenzio. Avevano ricevuto la sua lettera, ma era sfuggita per miracolo alla sorveglianza della sospettosa polizia, e non era prudente di mandare per la posta delle comunicazioni segrete, perchè tutte le corrispondenze sospette venivano aperte, e potevano compromettere molte persone.

Sior Antonio corrugava la fronte e incrociava i sopracigli, poi coll'indice della destra toccandosi una dopo l'altra le dita della mano sinistra, aperta come un ventaglio, diceva:

— Violato il domicilio domestico; violato il segreto delle lettere; punito l'amore di patria come un delitto; arrestati i galantuomini; obbligati a fuggire dal paese quelli che non vogliono andare in prigione. — E qui cambiando mano, e coll'indice della sinistra, toccando successivamente le dita della destra, continuava: — la coscrizione manda gli italiani in Ungheria, gli ungheresi in Boemia, i boemi in Austria, gli austriaci in Croazia, i croati in Italia! ogni popolo è mandato dall'imperatore a ribadire le catene dei suoi vicini, e tutti si lasciano condurre come tante bestie a compiere i voleri di un uomo a proprio danno. Il denaro dei contribuenti parte per Vienna ad impinguare le case tedesche; tutti i capi d'ufficio sono mandati dall'Austria; è proibito a chi soffre di lamentarsi, sotto pena della galera; vietate le armi per difendersi.... ed avendo esaurite le dieci dita nell'enumerazione delle piaghe principali della patria, sior Antonio alzava ambe le mani in aria, e battendo i piedi in terra, gridava: — Calpestati e vilipesi in casa nostra!.... disprezzati dagli stranieri! questa è la nostra condizione.... e gli italiani hanno la viltà di tollerarla!...

Il messo correva a chiudere la finestra, e gli faceva cenno di tacere, di non commettere nuove imprudenze, ma quando sior Antonio aveva incrociati i sopracigli, non era facile calmarlo.

Alfine dovette starsi zitto, e lasciare che anche l'altro parlasse.

Costui gli disse che pur troppo i padroni non potevano nulla per suo figlio, che essi pure erano sospetti al governo, che andasse egli stesso a Venezia, e procurasse di farsi raccomandare da qualche autorità locale, che non c'era tempo da perdere, che lo aspettavano senza ritardo, e che giunto in casa loro sarebbe consigliato e diretto nell'interesse di Tiziano. Si decise subito per questo partito, e mentre che Maddalena gli apparecchiava la valigia, egli corse di nuovo dal Consigliere imperiale, il quale non potè esimersi di raccomandarlo ad un segretario di Tribunale, con una di quelle lettere insignificanti ed ambigue, che vogliono dire, a chi sa leggere fra le linee: «vi raccomando il portatore della presente, perchè non posso fare altrimenti. Tiratevi d'impiccio come potete, che ve ne sarò gratissimo, come d'un favore personale. E comandatemi liberamente, che io sarò sempre disposto di fare altrettanto per voi.»

Sior Antonio, che non sapeva leggere fra le linee, e che credeva che un segretario del tribunale dovesse conoscere tutti i segreti necessari per mettere in libertà un carcerato, fu soddisfattissimo della missiva commendatizia, alla quale attribuiva la potenza d'infrangere i ceppi e i chiavistelli di tutte le prigioni di stato della monarchia. Ringraziò il Consigliere colle lagrime agli occhi, e gli promise la sua eterna riconoscenza.

Di là passò al roccolo di Sant'Alipio, e chiese a Isidoro Lorenzi se potesse giovarlo egli pure, raccomandandolo a qualche amico di Venezia.

— Ma senza dubbio, caro sior Antonio, figuratevi se non farò tutto il possibile per aiutarvi a liberare dagli artigli dell'aquilotto il povero nostro amico Tiziano. Sedetevi qui con Maria, e torno subito con una lettera, che vi potrà essere utilissima.

Maria colmò di attenzioni sior Antonio, si mostrò profondamente addolorata della sventura toccata al compagno della sua infanzia, incaricò il povero padre di mille affettuose espressioni pel prigioniero, che essa sperava di vedere fra breve nella loro casetta, che, dopo la sua partenza e quella di Michele, le pareva muta e deserta. Egli doveva dire a Tiziano che si parlava tutto il giorno di lui, che il suo pensiero lo accompagnava di giorno e di notte, che il suo ritorno sarebbe una bella festa per tutti gli abitanti del roccolo.

Isidoro ritornò colla lettera che portava il seguente indirizzo:

«All'egregio Signor avvocato Daniele Manin, a San Luca, Ponte San Paternian, Venezia. S. P. M.»

— Voi avrete udito a parlare dell'avvocato Manin.... — gli disse Isidoro, consegnandogli la lettera.

— È la prima volta che sento questo nome, — gli rispose sior Antonio.

— È un bravo avvocato, e un buon patriota, che potrà esservi utilissimo. Mi sorprende che non abbiate udito a parlare di lui a proposito della eterna questione della Strada Ferrata Ferdinandea, nella quale si è mostrato valente difensore degli interessi e del decoro del paese.

— Quando lo dite voi, basta. Sarà l'avvocato di mio figlio, e spero che saprà difenderlo a dovere, in caso di bisogno.

Dopo cordiali ringraziamenti, salutando amichevolmente, uscì dal roccolo, ma prima di rientrare in casa deliberò di fare una visita al signor Arcidiacono, d'implorare anche la sua assistenza, e di udire i suoi consigli.

L'Arcidiacono lo ricevette nel suo studio colla consueta benignità, se lo fece sedere dirimpetto, gli fece portare un fiaschetto di vino di Conegliano, lo interrogò con interesse sulla salute della Maddalena, procurò di consolarlo della sua disgrazia, incoraggiandolo a sperare nell'esito d'un processo, che non poteva rinnovare le passate condanne, in un epoca nella quale il capo supremo della chiesa aveva dato un magnanimo esempio di clemenza coll'amnistia, insegnando ai regnanti a secondare la voce del popolo, che è voce di Dio, facendo sperare all'Italia dei giorni migliori.

Sior Antonio apriva l'animo a tali speranze, si sentiva più tranquillo, alzava gli occhi al cielo, e il bicchiere verso l'Arcidiacono, per indicargli che beveva alla sua salute, e incoraggiato dalla benevola accoglienza, si fece coraggio di chiedere anche a lui una qualche raccomandazione per Venezia.

— Anzi, ben volentieri, caro sior Antonio, ben volentieri, ripeteva l'Arcidiacono, fregandosi le mani per riscaldarle, e accompagnando le sue parole con un propizio sorriso. E presa la penna si mise a scrivere una lettera, mentre l'altro guardava i santi in litografia che ornavano le pareti della camera, in compagnia di Pio IX e del Vescovo di Belluno e Feltre, poi gettava un'occhiata sui libri ben legati e messi in fila sulle scansie della libreria di noce a lustrofino, e in quelle osservazioni dei quadri e dei libri il buon cadorino pareva compendiare i pregi dell'Arcidiacono, santità ed eloquenza, e infatti era un buon uomo, buon patriota, che faceva del bene ai poveri ed agli infelici, predicava con ardore contro tutti i peccati, descriveva a meraviglia il paradiso e l'inferno, e avrebbe mandato al diavolo i tedeschi, se lo avesse potuto.

Il buon prete scriveva in silenzio, e si udiva la penna che scricchiolava sulla carta, senza sosta, e con movimento accelerato.

Quando ebbe finito piegò la lettera, gli fece la soprascritta, e gliela porse dicendo:

— Eccovi servito. — All'illustre signor Nicolò Tommaseo — Venezia, — e non occorre altro indirizzo, perchè tutti lo conoscono. Ne avrete già udito a parlare?

— Veramente no!... fuori del Cadore non conosco anima viva, ma è probabile che lo conoscano i padroni....

— Senza alcun dubbio.... è uno dei più insigni letterati d'Italia, uno scrittore purista, ed erudito, un uomo pio, amico del popolo, e dei sacerdoti, giusto come l'oro, vi riceverà con carità cristiana, e potrà giovarvi moltissimo colle raccomandazioni e coi consigli...

— Non ho parole per ringraziarla...

— Vi desidero buona fortuna, e vi sarò gratissimo se mi farete conoscere l'esito delle vostre sollecitudini per il figlio...

— Anzi a questo proposito devo pregarla d'un altro favore. Io non posso scrivere a mia moglie, la quale non sa leggere che lo stampato. Io scriverò a lei, e favorirà di far avere le mie notizie a Maddalena, e se avrà bisogno di consolazioni la raccomando alla sua bontà.

— Benissimo, caro sior Antonio, potete essere sicuro di tutta la mia premura... ma vi raccomando siate prudente.... nell'interesse comune.... non bisogna fidarsi della posta.... non dimenticatevi mai questo consiglio.... però con quel buon senso che non vi manca, saprete trovare il modo di farmi indovinare le cose che non potete scrivere. Non mostrandovi mai avverso al governo, non vi riuscirà difficile di farmi intendere come stanno le cose.

— Ho capito tutto.... non stia a dubitare che da parte mia non ci saranno pericoli.... e saprò trattare le cose da uomo prudente.

Volle baciare la mano all'Arcidiacono, lo pregò di ricordarsi di lui nelle sue preghiere, e non rifiniva di ringraziarlo di tanti favori. L'Arcidiacono lo accompagnò fino alle scale, e incaricandolo di tanti saluti per sua moglie, lo congedò cortesemente, gridandogli dietro, mentre scendeva le scale:

— Buon viaggio.... buon viaggio.... che il Signore vi benedica!....

Il giorno seguente sior Antonio partiva di buon mattino da Pieve di Cadore, nella sua timonella, tirato dalla Nina, che Bortolo aveva messa in gambe con una buona profenda di biada, e dopo due giorni di viaggio arrivava a Mestre, ove consegnato allo stallo della campana, la bestia ed il veicolo, prendeva una gondola e partiva per Venezia.

Il roccolo di Sant'Alipio

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