Читать книгу Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio - Страница 4
IV
ОглавлениеDopo lungo girovagare, avvicinandosi la notte e sentendomi stanco, sfinito, rientrai nell'albergo. Nella gioventù le passioni più violente tolgono l'appetito ed il sonno fino ad un certo punto, oltre al quale la natura si rivolta e reclama i suoi diritti. Chiesi da pranzo, e subito da bere, chè mi sentivo la gola inaridita. Mi servirono un vinetto bianco che mi parve il néttare degli Dei, c'era qualche cosa in quel vino che calmava l'anima agitata, esilarava lo spirito, sorrideva alle illusioni, rinfrancava le speranze. Mangiai con sufficiente appetito per un innamorato cotto, e mi sentii rinfrancato lo stomaco, ma oppresso dalla stanchezza. Rientrato nella stanza mi coricai. La veglia della notte antecedente, il viaggio mattinale, la fatica del lungo passeggio, il cibo sostanzioso e il vino eccellente m'immersero in un sonno così intenso, che non mi risvegliai che all'aurora. Era una deliziosa mattina d'autunno, io mi sentiva rinvigorito dal riposo, consolato da una speranza di gloria, e predisposto dall'amore a sentire le bellezze della natura. A vent'anni non si possono trovare migliori condizioni per godere quello stupendo spettacolo del lago di Como. Salito sul ponte del battello a vapore io non sapeva ove arrestare gli sguardi, e quando uscii dal porto la mia sorpresa sorpassò ogni aspettativa, e concentrò tutta la mia attenzione.
Un cielo perfettamente sereno, un'aria leggera e trasparente permettevano all'occhio di distinguere con precisione i monti più lontani colle vette acuminate tinte in violetto dai raggi del sole, le colline boscose che scendono fino al lago e si specchiano nelle acque, colle loro ville sontuose e coi paesetti pittoreschi che torreggiano sulle rive. Alcune barchette pavesate vagavano sulle acque calme, che apparivano verdi o turchine secondo la luce del cielo o le ombre delle rive.
Io osservava estatico quel delizioso paesaggio che varia lo spettacolo a misura che si avanza, e sentivo che l'aspetto di una bella natura è benefico agli afflitti, e infonde la rassegnazione e la calma. La mestizia dei pensieri mi rendeva più attraente l'incanto di quelle delizie che sembrano un sorriso di promesse e di gioia. La fantasia mi riportava sovente a colei che stava in cima dei miei pensieri, e l'immaginazione giovanile si piaceva dipingermi la vita al suo fianco in una di quelle villette circondate da ombre misteriose di fitte piante, e abbellite di fiori che eccitavano la mia ammirazione. E talvolta sognavo che ella fosse divenuta la mia compagna, ch'io l'avessi lasciata per qualche giorno e ritornassi alla nostra villa; e mi sembrava vederla appoggiata ad una terrazza aspettando il mio arrivo, e mi sentivo il bisogno di annunziarle la mia presenza, sventolando il fazzoletto.
Ma ciò che per me era un sogno, per altri era realtà. In ogni paesello, ad ogni approdo, si vedevano dei volti sorridenti accogliere gli ospiti, gli amici, i congiunti, o salutare i passaggeri. Io solo non avevo una mano che si stendesse per mandarmi un saluto, io povero orfano andavo a guadagnarmi il pane in un deserto villaggio delle montagne, e fuggivo lontano da colei che avrebbe potuto fare la felicità della mia vita. Fantasticando in tal modo sugli umani destini, il mio sguardo si arrestava sopra le povere casupole dei pescatori, e pareva che una mano misteriosa mi additasse quelle catapecchie per mostrarmi che dovunque si vada la miseria sta al fianco della ricchezza, e talvolta si avvicendano sulla ruota della fortuna; la miseria è sovente il prodotto dell'ignoranza, come le ricchezze sono il frutto del lavoro e dell'ingegno, e appunto molti di quei caseggiati sul lago rappresentano il guadagno di grandi artisti che col loro genio seppero raggiungere la celebrità e la fortuna.
Allora mi parve nuovamente che il Lucchino Visconti dovesse aprirmi la strada a lucrosi guadagni, che mi avrebbero permesso un giorno di acquistare uno di quei deliziosi villini e di condurvi la contessa Savina.
A poco a poco il lago si faceva più solitario e più grave. Alle villette signorili succedevano i paeselli laboriosi e le nude roccie. È sempre così nella vita: ai sorrisi della gioventù succedono i pensieri dell'età matura, alla poesia che apre lo spettacolo dell'esistenza seguono le gravi cure degli affari; la vita procede meno bella, ma più seria e più utile; voltandoci indietro vediamo il cammino percorso, e guardando avanti possiamo calcolare la breve distanza che ancora ci divide dal porto… infatti poco dopo il battello giunto davanti Colico si arrestava, terminando così le mie divagazioni poetiche e il viaggio.
Ogni poeta diventa positivo davanti i fatti volgari della vita, ed io ho dovuto abbandonare i miei sogni per correr dietro al mio bagaglio; ma quando mi accorsi che bisognava scendere a terra, il ponte del battello era già sgombro, e i viaggiatori s'erano precipitati sulla riva. Non potevo staccare il mio sguardo da quel panorama del lago, e mentre il mio occhio saliva dalle colline ai boschi, dai boschi alle nude roccie, ed alle cime imbiancate dalla neve, i miei compagni di viaggio entravano nel paese. L'ultimo facchino mi offrì i suoi servigi che accettai, sbarcando colle mie valigie quando gli altri passeggieri erano già molto lontani.
Fra le raccomandazioni di mio zio c'era anche quella di non fermarmi a Colico per evitare il pericolo delle febbri palustri. Chiesi dunque immediatamente un mezzo di trasporto.
– La diligenza parte in coincidenza col battello a vapore, – mi rispose il facchino.
– Benissimo. Conducetemi alla diligenza.
– Ci siamo in due passi.
Mi fece camminare un quarto d'ora, e vi giungemmo che l'imperiale era già carico; e i viaggiatori più accorti di me erano corsi ad assicurarsi i posti migliori. Il coupé era completo, e non restava che un solo posto all'interno. Mi affaccio allo sportello e vedo cinque persone stipate, che aspettavano l'ultimo compagno di sventura, come il ceppo aspetta il cuneo che deve spezzarlo. Un'enorme matrona raccoglieva le pieghe monumentali delle sue vesti per apparecchiarmi una tomba al suo fianco. Retrocessi inorridito; la morte non mi spaventa, ma l'idea di trovarmi sepolto vivo mi fa orrore!..
Lasciai partire la diligenza senza di me, e ne ebbi le benedizioni dei viaggiatori, a me più grate della loro compagnia in condizioni inaccettabili. Non mi restavano altri mezzi di trasporto che le mie gambe, le quali a vent'anni sono ancora il migliore di tutti, specialmente nelle regioni montuose ove l'aspetto della natura compensa largamente la fatica. Consegnai all'ufficio della diligenza il mio bagaglio da spedirsi l'indomani a Tirano, ove lo avrei fatto ricuperare a mio comodo. Feci colazione da un trattore, e partii.
Mi ricorderò fin che vivo quel viaggio pedestre veramente meraviglioso per un milanese che non era mai uscito dal nido. L'aspetto del lago di Como aveva attirato la mia attenzione, come il soave preludio che apre una sinfonia.
Io entrava per la prima volta nelle regioni sublimi delle montagne, a passi lenti, e con rispettoso raccoglimento, come un devoto che penetra nel tempio di Dio. Le valli ondulate chiuse fra eccelse rupi, i boschi d'abeti che s'arrampicano sulle roccie fra i precipizii, le acque rumoreggianti che saltavano di balzo in balzo fino al profondo torrente arrestarono lungamente i miei sguardi incantati.
Solitario in quel sublime deserto, io restava colpito da voci e da suoni ignoti, che mi eccitavano sorpresa e venerazione. Il vento aveva dei sibili umani fra le chiome di quei boschi, le acque imitavano il fragore del tuono, e gli uccelletti associavano i gorgheggi e le variazioni dei loro canti a quei cupi fragori. Tutto eccitava la mia curiosità, dall'orrido precipizio che si sprofondava negli abissi, al grazioso fiorellino delle Alpi che smaltava le rive. E sentivo in me stesso che la mestizia d'un amore infelice predispone l'anima soavemente all'ammirazione della natura.
In un sito incantevole presso Morbegno mi sedetti sulle sponde del torrente Bitto, e rimasi lungo tempo in contemplazione. All'aspetto di quei monti sormontati da altri monti lontani, più alti e scoscesi, in quella solitudine completa io sentiva la piccolezza dell'uomo, e la coscienza del mio isolamento attristava il mio cuore. Ignoto ai mortali, lontano dalla società e dalle sue agitazioni, un solo filo mi teneva legato alla terra, un filo invisibile che mi univa ad una lontana finestra di Milano ove una fanciulla attendeva il mio ritorno, guardava furtivamente il balcone della mia cameretta deserta, pensava tristamente al mio abbandono, si avvedeva della mia partenza, e nascondeva una lagrima. Quel filo invisibile era però tanto potente da tener legati due pensieri lontani, da far battere all'unisono due cuori separati violentemente da condizioni fatali; alle due estremità di quel filo cadevano due lagrime per uno stesso dolore, prodotto dalla lacerazione di due anime che la natura voleva congiunte, e che la società condannava al distacco. Io non potevo sapere ciò che pensava in quel punto la contessa Savina; eppure avrei messo pegno la vita, che essa pensava a me, come io pensava a lei; la grande distanza non poneva ostacolo alla nostra arcana corrispondenza, io la sentiva con una certezza che non ammetteva dubbio. I presentimenti d'amore non sono che rivelazioni profetiche. E mentre la mia stella mi attirava co' suoi raggi nell'unico angolo dell'universo ove io poteva essere felice, io invece vagava solitario per monti e per valli, in opposta direzione, abbandonando il sicuro, per andare in traccia dell'ignoto!.. Pur troppo, questo è sovente l'umano destino. La mia compagna, quella che la natura mi aveva destinato, mi attendeva invano; io era smarrito in un deserto, solo, poveretto… solo al mondo!..
Questi erano precisamente i miei pensieri quando un lieve calpestio sulle foglie secche cadute dagli alberi mi fece voltare la testa. Un cane nero mi guardava con occhi pietosi dimenando la coda. L'osservai dapprima con diffidenza, poi con simpatia. Egli s'avvide del cambiamento, e mi si avvicinò lentamente, quasi interrogandomi sulle mie intenzioni. Lo accarezzai, ed egli appoggiando le sue gambe anteriori sui miei ginocchi, allungò il muso e si mise a lambirmi il viso, poi seduto sulle gambe posteriori continuava a guardarmi. Allora pensando che forse il suo padrone lo cercava, m'alzai e ripresi la strada, ed egli mi seguì da vicino. Guardai lontano a diritta ed a sinistra, sui dirupi del monte e sul pendìo della vallata, e non vidi nessuno. Allora, additandogli il cammino verso Colico, gli dissi:
– Va', cerca il padrone, va' via.
Il cane, vedendo che lo minacciavo per farlo partire, si gettò a terra sul dorso, colle gambe in aria, guardandomi con uno sguardo pietoso.
Dunque, dissi fra me, se non vuole andare verso Colico, è segno che il suo padrone ha preso la direzione di Sondrio; dovendo io fare la stessa strada, lo troveremo; e ripresi il viaggio. Il cane mi seguiva tranquillamente. Ad una svolta della via m'incontrai in uno stradino che acciottolava la strada e gli chiesi:
– Conoscete questo cane?
Egli lo guardò con indifferenza e mi rispose:
– Non l'ho mai veduto.
Allora mi decisi di abbandonarlo sulla via per non distrarlo dalla ricerca del suo padrone, e presi un sentiero che salendo in fianco alla strada s'inerpicava sulla montagna; ma egli mi seguì tranquillamente; mi arrestai a contemplarlo, e pensai: esso è solo al mondo, povero cane, e il suo istinto lo spinge a trovarsi un compagno. Era più brutto che bello, ma aveva due occhi umani pieni di bontà, e guardandomi con tenerezza pareva mi dicesse:
– Siamo soli tutti e due, non mi abbandonate, possiamo vivere in compagnia.
Mi ricordai d'aver udito varie volte a raccontare che due uomini essendosi incontrati per caso, ed entrati in intimità senza conoscersi, ne derivarono poi gravi disordini, ruberie e disgrazie; ma non avendo mai udito che simili conseguenze fossero derivate dall'intimità dell'uomo col cane, mi decisi di conservare il mio compagno, almeno fino a che avesse ritrovato il padrone. E supponendo possibile che fosse digiuno da varie ore, m'arrestai davanti l'osteria di un villaggio che aveva una baracca rizzata sulla via, coperta di paglia, con sotto al rustico tetto un tavolo e sedili di rozze assi inchiodate sopra quattro pali. Domandai pane, vino e dell'acqua.
Povera bestia, con quale ingordigia addentava i primi bocconi! Mangiammo insieme pacificamente, poi gli diedi dell'acqua nel piatto, e bevette con avidità. La più viva riconoscenza brillava nel suo occhio, nei suoi movimenti, nel suo dimenar di coda.
Rifocillati per bene riprendemmo la via, e passammo l'intiera giornata, camminando per la strada maestra, con alquante diversioni per boschi e frane ove mi attirava o il bisogno di riposo, o il desiderio di osservare una cascata, o un punto di vista pittoresco. All'ora del tramonto giungemmo a Sondrio, ove avevo deciso di passare la notte. Entrai in un albergo ove una folla di gente ingombrava il pianterreno e il cortile, e in quella confusione non vidi più il cane. Pensai che avesse trovato il suo padrone, e ne provai vero rammarico; – tanto è facile a risvegliarsi l'affetto nelle anime solitarie, che sentono il bisogno di un compagno nella vita.
Il cameriere mi serviva da cena nell'angolo d'una stanza, quando vidi il cane nella sala vicina, inquieto ed ansante, che andava fiutando la terra percorrendo il cammino che io aveva percorso. Esso cercava di me, mi raggiunse poco dopo, e non potendo frenare la sua letizia mi saltò addosso leccandomi le mani, e mugolando con acuti guaiti che esprimevano il dolore d'avermi smarrito, e la gioia immensa d'avermi finalmente ritrovato. Confesso la mia debolezza: la sua perdita mi aveva fortemente attristato, il suo ritorno mi consolava come una felice ventura. Io sentiva di non essere più solo al mondo, poichè avevo guadagnato l'amicizia d'un cane.
Dopo d'aver cenato in compagnia, dormimmo nello stesso letto, essendosi egli coricato ai miei piedi, come se fosse una vecchia abitudine.
Risvegliandomi al mattino, osservai ch'egli non dormiva più, ma mi guardava immobile, per non disturbare il mio sonno. Quando vide che mi mossi venne a darmi un saluto affettuoso. Io mi vestii e suonai il campanello per chiedere il conto. Ma quando udì il cameriere che batteva alla porta, il cane si mise ad abbaiare come un disperato, volendosi anche dimostrare capace di difendermi.
Dopo una piccola refezione siamo usciti da Sondrio entrando in quella strada pittoresca fiancheggiata dall'Adda, che conduce a Tirano. Questa seconda giornata fu più felice della prima, a motivo della compagnia del mio cane. Egli andava e veniva allegramente per la via. Talvolta saliva sopra un sasso, ed osservava con attenzione gli oggetti sottoposti, poi ritornava indietro facendomi ogni sorta di dimostrazioni affettuose, e si vedeva chiaramente ch'egli era contento al pari di me d'aver trovato un amico.
Una volta adottato il mio compagno, sentii la necessità di mettergli un nome, e cercai lungamente. Sulle prime non mi sarei immaginato la difficoltà che s'incontra a trovare il nome d'un cane, quando si voglia evitare in pari tempo la volgarità e la pretesa. Per un cristiano il lunario ci aiuta, e poi il nome dell'uomo non indica mai nulla, nè si trova inconveniente che si chiami Candido un furbo, Amadio un ateo, Leone un timido, Adone uno sciancato, Fedele un ladro e Felice un ministro. L'uomo si classifica dalla sua condotta, dalla moralità, dall'intelligenza, da tutti gli atti della vita, il suo nome è un caso; ma per il cane non è così. Provate a chiamar Lesbino un molosso, o Turco il cagnolino d'una signora. In esitanza mi sedetti sulle rive dell'Adda, e chiesi al mio cane:
– Come devo chiamarti, caro amico?.. Egli mi guardava tranquillamente. – Fido?.. è troppo comune. Falco?.. non significa niente. – Azor?.. non mi piace. Egli stesso si mostrava insensibile a questi nomi. Vorrei un nome che ci ricordasse il nostro felice incontro sulle rive del torrente Bitto. Se ti chiamassi Bitto?.. Bitto… Bitto, gli dissi con voce carezzevole, vuoi che ti chiami il mio Bitto?..
Egli scodinzolava in segno di assentimento, io gli feci una carezza affettuosa, egli venne a lambirmi la mano, e così gli diedi, ed egli accettò cordialmente il nome di Bitto.
Quel giorno pranzammo lietamente a Tirano, e usciti dal paese, prendemmo un'oretta di riposo sull'erba all'ombra d'antiche piante sui confini d'un bosco.
Il villaggio di X** al quale io era diretto trovandosi fra Tirano e Bormio, mi mancavano poche miglia per arrivarvi, ed avevo deciso di giungervi sull'imbrunire per evitare la noia dei curiosi che mi avrebbero molestato coi loro sguardi indiscreti.
Ripresa la via, e sentendo avvicinarsi il luogo destinato al mio esilio, io provava quell'inquietudine che nasce dall'ignoto, e mi doleva d'essere al termine di un viaggio pittoresco. Colla sola compagnia del mio cane e dei miei pensieri non mi sarei stancato di percorrere il mondo. Ma ogni viaggio che incomincia deve in qualche maniera finire. Pur troppo è così, ed ogni viaggio ci rammenta la vita umana. Una volta incominciato il pellegrinaggio, ogni ora che passa ci avvicina alla meta…
Con tali pensieri malinconici vidi per la prima volta da lontano il campanile acuminato, le casupole e le capanne di X**. Entrai nel villaggio quando il sole scendeva dietro i monti tingendo in rosa le nuvolette spezzate.
Le mandre rientravano dai pascoli salutando la sera con lunghi muggiti. I passeri si raccoglievano sugli alberi cinguettando, e raccontandosi i loro pettegolezzi del giorno.
I camini fumavano, le famiglie si raccoglievano per la cena. Tirai fuori dal mio portafogli la lettera di raccomandazione di mio zio all'egregio signor Nicola Bruni, e domandai della sua dimora al primo venuto.
– È quel palazzino bianco, isolato, sulla collina a diritta con molte adiacenze e varie cataste di legna intorno.
– Vi ringrazio.
Presi la strada indicata sulla salita, e giunto all'uscio picchiai. Un ragazzotto mi aperse la porta.
– È in casa il signor Nicola Bruni?
– Che cosa dice?
– Se il signor Nicola Bruni è in casa?
– Signor no… non è in casa… se fosse in casa non sarebbe in cortile… ma è in cortile…
Una voce tonante interruppe il dialogo.
– Imbecille… perchè tieni la gente sulla porta?
– Ecco il signor Nicola che mi chiama, – disse il ragazzo, – è dunque entrato in cucina… se vuole parlargli, eccolo qui.
In quel momento vidi un uomo ben tarchiato che veniva verso di noi, con un cappello a larghe falde, una giubba di fustagno e calzoni simili che entravano negli stivali. Mi venne incontro con faccia aperta dicendomi:
– Di chi domanda?
– Del signor Nicola Bruni.
– Sono io… Venga avanti.
– Io sono Daniele Carletti, nipote di Monsignor Giusep…
Non mi lasciò finire, ma gettandomi le braccia al collo mi baciò sulle due gote, colla più cordiale espansione.
– Bravo per Dio!.. Caro signor Daniele… benissimo; venga avanti, e si accomodi… ma non sarà solo forse?
– No, signore, sono in compagnia del mio cane.
– Ma vengano avanti tutti due… ma dov'è il bagaglio?.. La vettura, il cavallo? – Martino, su via, presto, corri ad aprire il cancello del cortile, fa entrare la vettura che ha condotto il signore… animo, corri…
Non era possibile interromperlo, e Martino era già corso ad aprire, quando ho potuto dirgli ch'ero venuto a piedi, spiegandogli il motivo.
– Oh per Bacco!.. quale fatalità! Se mi avesse scritto, avrei mandato a prenderlo coi nostri cavalli. Io pure, veda, non posso soffrire le diligenze.
Lo assicurai che mi ero divertito moltissimo, e che quel viaggio era stato per me un sommo piacere.
– Benissimo… Benissimo… bravo da senno. – Andò poi a' piedi della scala e gridò a piena gola: – Giovanna… Agata… Marta… venite subito abbasso, ma presto.
Eravamo entrati in un salotto terreno. Bitto s'era accovacciato in un angolo, e ansava colla lingua pendente. Il signor Nicola mi fece sedere sul canapè, e incominciò a chiedermi notizie della salute dello zio, e degli effetti provati dopo la cura dei bagni. Quando entrò la signora Giovanna seguita dall'Agata, egli si alzò per le presentazioni, e mi disse:
– Mia moglie… mia figlia… – poi rivolto a loro, – il signor Daniele Carletti, nipote di monsignor Canonico, e futuro maestro del nostro villaggio.
Io feci le mie riverenze, e le signore i soliti complimenti; e sedemmo tutti in circolo a parlare di mille cose.
Il signor Nicola aperse la finestra che guardava sul cortile, e chiamò:
– Martino?
– Eccolo… – rispose il domestico avvicinandosi.
– Che cosa fai?
– Ho aperto il cancello.
– E non hai veduto che non ci sono vetture?
– Ho veduto.
– Ebbene, ora che fai?
– Aspetto la vettura…
– Come?.. Vuoi che le vetture che conducono i viaggiatori arrivino dopo di loro?.. Chiudi il cancello… chiama la Menica… accendi il fuoco… corri… imbecille!..
– Sì, signore!..
Il signor Nicola chiuse la finestra e mi disse:
– Caro signor Daniele, non dovete giudicare il paese dal campione che vedeste. Abbiamo una popolazione intelligente e laboriosa, il mio domestico è un asino, ma non ne ho trovati di migliori. I nostri montanari sono pronti e svegliati, ma preferiscono la vita avventurosa dell'emigrazione alle cure servili ed alle meschine risorse del villaggio. Tutti gli uomini validi se ne vanno a cercar fortuna, la coscrizione porta via la gioventù, e non ci restano che gl'imbecilli per farci servire. Non si trovano più buoni domestici!..
La signora Giovanna alzava gli occhi al cielo, confermando coi moti del capo e delle spalle le asserzioni di suo marito; la signora Agata rideva.
Agata era una ragazza bionda cogli occhi chiari, ma per me una bionda non era una donna, od era una donna incompleta ed incolore. Avevo sempre presente come unico modello di bellezza femminea la contessa Savina, co' suoi capelli neri, cogli occhi e i sopraccigli corvini. L'Agata non poteva piacermi, e per giunta era vestita come una bambola di Norimberga, senza grazia nè moda, e non poteva reggere al confronto delle signorine eleganti di Milano, alle quali erano avvezzi i miei occhi.
Essendosi fatta notte, la vecchia Menica venne a deporre sul tavolo un'antica lucerna d'ottone che mandava una luce rossastra, ed avendo fatto cenno alla padrona, questa la seguì accompagnata da sua figlia. Bitto uscì egli pure dalla stanza, attirato forse dall'odore della cucina, ed io rimasi solo col signor Nicola, che mi mise al corrente di quanto poteva interessarmi.
Il signor Nicola Bruni, antico amico di mio zio, che desso pure era oriundo di Valtellina, era diventato da tanti anni l'amministratore onorario del piccolo patrimonio del Canonico, consistente nella casetta appigionata al maestro, con poca terra annessa, e l'aggiunta d'un altro ettaro di terreno diviso in sei appezzamenti sparsi per la montagna. Pagate le imposte e gli ordinari ristauri della casa, la terra rendeva circa l'uno e mezzo per cento del suo valore. Per altro quell'ettaro di terra così frazionato si sarebbe venduto senza la casa, un quattordici o quindicimila lire sonanti, tanto si apprezza in quelle montagne il diritto di proprietà. La terra era data a mezzeria, e produceva castagne, patate, legna, fieno, fagioli, e un po' di vino. Potevo calcolare in media sopra una rendita di circa dugento lire l'anno. Lo stipendio al maestro essendo fissato a lire settecento, e non mancando gl'incerti, consistenti nei regali dei parenti degli scolari, e qualche gratificazione comunale, poteva contare sopra una rendita fissa di novecento lire annue, e l'abitazione gratuita.
– Da vivere onestamente… – conchiuse il signor Nicola.
Io pensava in quel punto ai milioni di casa Brisnago, ed alla mia intenzione di ritornare una volta o l'altra a Milano a rinnovare il tentativo del bacio. Intanto col mio ingegno doveva studiare il modo di pareggiare la differenza fra le mie rendite e quelle della contessa Savina!.. ma ero innamorato stracotto e la parola impossibile non si trova nel dizionario degli innamorati. E poi avevo sul telaio il mio Lucchino Visconti, e nessuno poteva indovinare ove mi avrebbe condotto una tragedia.
– La casa, – continuò il signor Nicola dopo una breve pausa, – la casa ha bisogno di qualche ristauro, ma l'annata è stata buona, ed io ho fatto dei risparmi che il vostro buon zio mi ha autorizzato di spendere per mettere in assetto conveniente la vostra dimora.
– Non basta, – io soggiunsi, – tengo anche un gruzzoletto d'oro che il povero vecchio mi ha consegnato al momento della partenza, per il viaggio, i primi bisogni e gli arredi di casa.
– Allora siete un signore addirittura, – disse il signor Nicola, – e con un po' di economia e di giudizio, in queste montagne si vive da papi. Tutto sta nel non avere delle idee superiori alle forze, contentarsi del proprio stato, non aspirare a quelle grandezze che non si possono raggiungere…
Voltai la testa, tirai fuori il fazzoletto, e mi soffiai il naso tanto da nascondere la mia confusione; perchè mi pareva proprio che il signor Nicola mi leggesse i pensieri sul viso. Per buona fortuna entrò la Menica, che si mise a distendere sulla tavola una bianca tovaglia di bucato, poi distribuì i tovagliuoli, i piatti, le posate, e apparecchiò in ordine ogni cosa. Il signor Nicola tirò fuori da un armadio parecchie bottiglie, dicendomi:
– Ecco il vino di Sassella, onore della nostra Valtellina; ed assaggerete anche degli altri vini dei nostri monti che non sono privi di merito.
Poco dopo entrarono le signore portando ciascheduna qualche cosa. Osservai che Bitto, il quale non aveva idee preventive riguardo alle donne, seguiva la signora Agata con qualche dimostrazione di simpatia, ed essendomi venuto vicino continuava ad osservare i movimenti di lei, poi mi guardava in un certo modo che pareva volesse dire:
– Sta attento, se hai fame, questa è una buona ragazza; e si leccava i baffi.
Finalmente la Menica venne a portare in mezzo alla tavola una famosa zuppa di polli, fumante, che spandeva un odore appetitoso.
Ci sedemmo tutti in circolo intorno la tavola: alla zuppa seguì un arrosto eccellente di beccaccie, del prosciutto, del formaggio, della frutta, e con quest'agape domestica venne lautamente celebrato il mio arrivo. Il signor Nicola mi versava continuamente da bere, l'Agata accarezzava Bitto e gli dava dei buoni bocconi, egli divorava ogni cosa, e continuava a guardarmi con gioconda espressione, quasi volesse dirmi:
– Bravo Daniele, hai trovato una casa ove si fanno le cose per bene.
Dopo cena il discorso si fece animato. Io raccontai gli episodi del mio viaggio, omettendo od aggiungendo quello che mi pareva opportuno, od interessante per gli ospiti. La mia ammirazione per le montagne produsse un effetto eccellente.
– Vedrete… vedrete tutto a suo tempo, – mi ripeteva gongolando il signor Nicola, – in genere di montagne abbiamo delle meraviglie; dalle più ridenti alle più orride, dal pingue pascolo agli arridi burroni, alle nude roccie, erte, diritte, scoscese, coperte d'eterne nevi! Vedrete le nostre mandre, le nostre vigne, i nostri boschi di castagni e d'abeti: e pareva ch'egli fosse felice d'aver trovato un ammiratore del suo paese.
Narrai anche il mio incontro con Bitto, e la gioia reciproca dei due poveri vagabondi che si fecero buona compagnia, consolandosi a vicenda della solitudine, ma dovetti tagliar corto al racconto, perchè mi parve di scorgere sul volto della ragazza dei segni non equivoci d'emozione, ed io non intendeva d'intorbidire la festa facendo versare delle lagrime. Mi sorprese però che una donna incolore potesse mostrarsi sensibile per così poco.
Non tardai parimente ad avvedermi che l'Agata era la delizia di tutti: sua madre la contemplava con tenerezza, suo padre le sceglieva i bocconcini più ghiotti, e glieli offriva con compiacenza, la Menica girando intorno la tavola l'ammiccava con un sorriso, Martino la serviva con diligenza e premura, Bitto non si distaccava più dal suo fianco, ed era cane di buon naso. Io solo non sapevo trovarle veruna attrattiva. I miei occhi non vedevano che una bruna fanciulla, resa eterea dalla distanza; il mio cuore aveva sete d'un bacio non restituito, del quale sentivo d'essere in credito. Quella sera la veglia fu prolungata da mille discorsi animati da copiose libazioni che mi diedero un alto concetto enologico della Valtellina. Io che a Milano m'immaginava queste montagne come le gelide regioni del polo nord e del mar glaciale, fui ben sorpreso la prima sera del mio arrivo di trovare la temperatura del Senegal, andando a letto tanto caldo che soffiavo come un mantice, e non potevo sopportare le coltri.
Il mattino seguente, che era una domenica, mi alzai per tempo, apersi la finestra, e respirai a pieni polmoni la brezza mattutina, contemplando lo stupendo panorama delle Alpi che mi stava davanti, e volando colla fantasia attraverso la strada percorsa da Tirano a Sondrio, per Morbegno, Colico, Como e Milano. Vedevo come in sogno lo zio canonico che andava a dir messa, il gatto di casa che miagolava fregandosi alle sottane di Veronica, mentre essa apparecchiava la colazione, entravo nella mia cameretta deserta, aprivo il balcone, e stavo aspettando che la contessa Savina comparisse alla finestra dirimpetto, per pagare il suo debito, restituendomi il bacio.
A farmi cadere dalle nuvole non ci voleva altro che il confuso pigolìo che saliva dal sottoposto cortile. Abbassai gli occhi e vidi l'Agata accoccolata che sminuzzava della polenta chiamando i polli. Alla sua voce il gallo, le galline, le chioccie e i pulcini accorrevano da tutte le parti saltellando, svolazzando e cantando, le saltavano d'intorno festosi, rubandosi i bocconi dalle mani. Essa parlava con loro, incoraggiando i timidi, sgridando gli sfrontati, correggendo gl'indiscreti; ed io la guardava dall'alto con sorpresa, senza farmi vedere. Poco dopo comparve la Menica colle sottane rilevate fino al ginocchio, le gambe nude, gli zoccoli di legno, e le maniche della camicia rimboccate fino al gomito, portando un mastello di lavature, dentro le quali gettò una manata di crusca, e poi aperse il porcile. Allora ne uscì un mostruoso maiale, che saltellando goffamente mandava grugniti nervosi, e immergendo il grugno in quella poltiglia lo tirava fuori tutto imbrattato e gocciolante, ne spandeva da ogni parte, e pareva che se ne ridesse, quell'imbecille…
Ahimè! come ero lontano da Milano, dal corso, da quelle strade pulite, da quella vita elegante!.. Sentivo una profonda tristezza, e in pari tempo un certo orgoglio della mia patria, e della nobile missione che andavo ad intraprendere, apportando la civiltà a quelle rozze popolazioni di montanari. Immaginarsi una ragazza che s'alzava mattiniera per dedicarsi a quelle occupazioni scurrili!.. I polli mi facevano ridere, il maiale mi faceva ribrezzo. Io non ne aveva mai veduto, o solamente qualche testa pulita, rasa, incoronata di mortella, nelle vetrine dei nostri salumai, e non mi sarei immaginato l'immondo animale che mi stava davanti, servito da due donne, come un signore.
Agata consigliava la Menica, entrava ed usciva; finalmente si mise a chiamare Martino. Alla sua voce, Bitto, che dormiva saporitamente ai piedi del letto, alzò la testa, e ascoltò attentamente.
– Martino… Martino… – essa ripeteva.
Bitto diede un guizzo, saltò a terra, si mise a gemere presso la porta, raspando colle zampe, guardandomi, ed abbaiando. Gli apersi, ed egli in due salti fu abbasso. Bisognava vedere le smorfie che quel vile adulatore faceva alla ragazza! L'attaccamento, l'affezione, la riconoscenza verso chi dà da mangiare sono le virtù delle bestie, e specialmente dei cani. L'uomo invece conserva la sua indipendenza, dimentica il beneficio, e mostra la dignità dell'ingratitudine.