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Scendendo incontrai il signor Nicola che mi strinse la mano come ad un vecchio amico di casa. Dopo colazione mi condusse a visitare i miei possessi dispersi in tutti gli angoli del paese. Mi parvero siti selvaggi, e li avrei ceduti per un sorriso della mia lontana divinità, che avrebbe riso sicuramente se avesse veduto i miei feudi in dose omeopatica.

La casa si componeva di due piani ed era circondata da un appezzamento di terra mal coltivata, ove crescevano liberamente i cardi e le ortiche.

Il vecchio maestro mi venne incontro, come collega e vassallo ad un tempo, lamentando le miserie dei maestri e quelle dei coltivatori. Il signor Nicola per consolarmi mi parlava di riforme, di piantagioni, di concimi, e di raddoppiati prodotti mediante le cure necessarie. Introdotto nella mia futura dimora, mi parve scombussolata, rovinosa, sporca, mi metteva tristezza. Il signor Nicola la trovava comoda, facile a ripararsi con poca spesa; buone stanze ariose. Era cosa naturale: quasi tutti i vetri erano rotti, e l'aria campeggiava liberamente. La cucina appariva tutta adorna di casseruole… dipinte sul muro col carbone. Il salotto mostrava delle teste di guerrieri colla pipa in bocca, opere tutte alla maniera dei tempi preistorici della pietra, che rivelavano un artista primitivo. I pavimenti solcati, le pareti bucherate e sparse di chiodi, i soffitti facevano ventre da per tutto; i ragni s'erano impadroniti degli angoli, e le scope erano state bandite con sentenza inesorabile.

E mentre il signor Nicola parlava col mio onorevole antecessore, io girava per quelle stanze, pensando fra me stesso: – quale splendido appartamento sarebbe questo per la contessa Savina Brisnago, e quale giardino! e mi metteva le mani nei capelli.

In poche parole fummo d'accordo sulle condizioni dello sgombro, che era assai facile; se ne usciva il vecchio maestro e le spazzature, la casa poteva consegnarsi subito agli operai affinchè la rendessero abitabile pel nuovo maestro e il suo cane. Ma per tale sgombero mi chiesero quattro giorni, che gli vennero concessi. Allora credette opportuno di farmi conoscere il sistema scolastico e le sue abitudini domestiche. Gli scolari per turno gli tenevano in ordine la casa (come abbiamo veduto!), lavoravano l'orto e andavano ad attinger l'acqua alla fontana. Pel vitto s'era accomodato colla vicina famiglia dell'organista, uomo gioviale ed onesto. Forse l'organista avrebbe accondisceso a continuare le sue prestazioni, qualora ci fossimo intesi sulla relativa contribuzione.

– Va benissimo, parleremo di tutto questo con quiete, alle mie donne, – disse il signor Nicola.

Ma quando il maestro si mise a parlare dell'insegnamento, del metodo, della severità dei precetti, dei testi impiegati, il mio compagno incominciò a tirarmi per le falde del vestito, e vedendo che s'annoiava, feci i miei saluti a quell'uomo dabbene e ringraziandolo delle sue informazioni ci congedavamo, per andare alla messa parrocchiale.

Le campane suonavano a festa, e l'eco si ripeteva confusamente intorno la valle, riempiendo l'aria di onde sonore. I montanari scendevano dalle alture, accompagnati dalle loro donne, vestite a varii colori. Era una bella giornata d'autunno, e la popolazione raccolta sul sagrato della chiesa dava un aspetto allegro al villaggio. Tutti mi guardavano con curiosità, e salutavano rispettosamente il signor Nicola.

Agli ultimi tocchi comparve la signora Giovanna con l'Agata, ed al loro passaggio tutti si levavano il cappello, e si vedeva chiaramente dalla franca cordialità dei saluti che tutti volevano bene a quella famiglia.

Dopo messa andammo a far visita in Canonica, e venni presentato a don Vincenzo Liserio parroco del villaggio, al quale consegnai la lettera di mio zio. M'accolse cortesemente, come maestro e nipote d'un canonico, ma con una certa solennità, da uomo che misura le parole per non compromettere l'avvenire, guardandomi sott'occhio per istudiare la fisonomia.

Mi fece tutte quelle offerte generiche che sono dell'occasione, ma non incoraggiano a recare disturbi, perchè si capisce subito ciò che valgono.

Ritornati in casa Bruni, entrammo nel salotto, e dopo breve conversazione in famiglia, la Menica chiamò la signora Giovanna; e Martino si presentò sulla porta.

– Che cosa vuoi? – gli chiese Nicola.

– C'è qui Giacomo che aspetta i vostri ordini… fino da questa mattina.

– Giacomo, chi?

– Giacomo, fratello di Perina, moglie di Pietro cognato di Battista… quello che ha un figlio soldato… e un altro che ha emigrato in Germania il giorno che si andava a…

– Non lo conosco.

– Non si ricorda, che ieri sera mi ha ordinato di farlo venire con degli uccelli?

– Ah! è l'uccellatore?

– Sicuro.

Il signor Nicola alzò i pugni stretti, ed aveva un volto da far paura. L'Agata, che entrava in quel momento, dando un colpo d'occhio a suo padre, gli fece mutare l'espressione della collera in uno sberleffo. Uscì precipitoso dando uno spintone violento alla porta. Martino era svignato. Il signor Nicola aveva un carattere impetuoso, e sul primo momento avrebbe schiacciato un uomo come una mosca; ma per buona fortuna il suo furore non durava che due minuti. Martino, che conosceva bene il padrone, quando vedeva negli occhi di lui i primi lampi che annunziavano l'uragano, spariva sul momento, e restava assente per cinque minuti. Il padrone si gettava contro i muri, le porte, le sedie e quanto gli stava davanti, e slanciava dei calci, che quegli oggetti inanimati non sentivano… e il domestico non li sentiva nemmeno… – E poi dicevano che era un imbecille! Allora l'Agata mi spiegò che il signor Nicola, nella sera antecedente, avendo ordinati degli uccelli per il pranzo, l'uccellatore li aveva portati per tempo; ma Martino lo tenne varie ore nella stalla ad attendere gli ordini del padrone che era uscito con me. Intanto le signore aspettavano con impazienza l'arrivo del futuro arrosto, il quale aspettava per essere apparecchiato chi non doveva arrivare che per mangiarlo.

Si dovette ritardare il pranzo d'un'ora, richiamare il fuggitivo che almeno venisse a spennare il corpo del suo delitto, e mentre il signor Nicola e sua moglie erano occupati in altre faccende, l'Agata venne a farmi compagnia nel salotto. Mi domandò con interesse molte cose di Milano, ed io le descrissi le feste, i corsi, gli spettacoli della città, l'eleganza delle signore, il lusso delle carrozze…

Essa mostrò di conoscere non solo i principali monumenti, ma bensì la vita intellettuale ed artistica, e mi sorprendeva assai che una fanciulla che si occupava de' suoi polli, parlasse di cose elevate con non volgare giudizio. Mi disse che i suoi genitori l'avevano condotta a Milano, quando era uscita dal collegio di Como, ove era stata in educazione. Io arrossivo pensando d'essere stato a Como senza vederlo. Poi per farmi passare il tempo aspettando l'ora del pranzo mi condusse a visitare l'orto e il giardino. Nell'orto la mia ignoranza fece la sua prima comparsa. Io non distingueva le piante delle patate dai pomidoro, le carote dal prezzemolo, confondeva il rosmarino colla lavanda, le zucche coi poponi. Essa rideva di cuore, e mi diceva:

– Eppure a Milano si trovano ogni sorta d'erbaggi; ne vidi di bellissimi sul mercato.

– È vero, ma io non li conosco che quando li vedo cotti…

Allora mi svelò l'estetica degli erbaggi facendomi osservare minutamente l'eleganza e la varietà dei loro portamenti, l'increspatura, i frastagli, le tinte differenti delle foglie, la bizzarria delle forme, la singolarità dei profumi; mi faceva odorare il timo, la salvia, il ramerino, il finocchio, il cerfoglio, il targone, la rucola, la maggiorana, la menta, e mi diceva: – Vedete la grande varietà di aromi indigeni coi quali possiamo condire le vivande senza il soccorso delle droghe che andiamo a prendere alle Indie. Vi prego di considerare la grazia d'un fiore di borragine, ma guardate se può darsi un turchino più limpido, un bianco più puro, un nero più spiccato: e il frutto del peperone, e la leggerezza dello sparagio quando si adorna delle sue sementi rosse come coralli. Guardate le foglie glabre e frastagliate dei carcioffi come sono ornamentali!.. e il frutto? non ha esso servito mille volte alle arti ed alle industrie? Le zucche e i meloni non sono forse piante e frutti magnifici, e i fiori di tutti i legumi non sono forse i più vezzosi?.. Guardate i ceci, i fagiuoli, i piselli! Credetemi, signore, chi non vede la bellezza della natura in un orto, non la vede intieramente nemmeno sul lago di Como… Nella natura come nelle arti non basta apprezzare l'insieme, ma bisogna saper conoscere anche i pregi d'ogni singola parte. Chi non ama che il frastuono d'una sinfonia, e non gusta un motivo melodico, non può dire d'intendere la musica; chi non ammira che la sublimità delle montagne e non ha mai contemplato il fiorellino che cresce sui loro crepacci, non conosce la natura. Le scene grandiose le vedono tutti, la musica rumorosa colpisce tutte le orecchie, ma le anime delicate soltanto sanno scoprire il bello nelle cose minute, e godere le delizie della natura e dell'arte davanti gli oggetti impercettibili agli sguardi volgari.

Rimasi maravigliato de' suoi discorsi!.. Passammo in giardino, e quivi mi rinnovò la lezione, mostrandomi tutto quello che io ignorava delle bellezze delle piante. Quivi, credendo opportuno di svelare finalmente qualche cognizione, le dissi:

– Sono sicuro che conoscete il linguaggio dei fiori.

– Lo conosco, – mi rispose, – ma lo trovo puerile.

– E perchè?

– Perchè i fiori parlano un linguaggio che si intende da chi ama la natura e vive nella sua intimità, senza bisogno di chiedere le loro espressioni ad emblemi convenzionali. Un fiore qualunque, il più modesto fiore del prato, parla al nostro cuore se ci rammenta un istante memorabile della nostra esistenza, un paese, un amico, una parola, se la sua vista risveglia la memoria assopita d'una persona lontana, o d'un giorno felice.

Tali discorsi portavano naturalmente il mio pensiero al mazzetto gettato alla contessa Savina, e pensavo: chi sa, se vedendo una rosa, delle violette e degli eliotropi, essa rivolgerà la mente al povero esule che non vede al mondo che lei!.. e camminavo mesto e silenzioso per quel giardino, seguito dall'Agata; avevamo l'aspetto di due ombre che vanno vagando pei Campi Elisi. Quella conversazione e que' fiori che ci stavano d'intorno m'aveano rapito in un'estasi poetica, quando Martino venne ad annunziarci che il pranzo era servito. A questo mondo tutto finisce in prosa!

Durante il desinare venne in campo il discorso del mio prossimo sgombero e del sistema di vita che mi sarebbe convenuto. Il signor Nicola accennò al consiglio che mi venne dato dal vecchio maestro, di accomodarmi coll'organista pel vitto, e rivolto all'Agata le disse:

– Che te ne pare?

– Il vecchio maestro, – essa rispose, – si trovava in condizioni diverse; la defunta sua moglie era sorella di Tobia l'organista, i legami di famiglia facilitavano le loro relazioni; ma non so se ciò che conveniva a due vecchi cognati di Valtellina possa offrire gli stessi vantaggi ad un giovane milanese avvezzo ad altro sistema. Poi il signor Daniele non conosce Tobia, non l'ha ancora veduto… è un buon diavolo, ma originale… ed ha la lingua un po' troppo lunga. I due cognati andavano d'accordo in molti punti, per esempio nel giudicare l'ordine e la nettezza come cose di lusso; ne sia prova l'abitudine del maestro di farsi servire dagli scolari, che gli mettevano la casa a soqquadro e ne facevano un letamaio.

– Allora, – soggiungeva il signor Nicola, – bisogna pensare ad altro. Ci permettete, non è vero, Daniele, di trattarvi in amicizia e di occuparci dei vostri affari?..

– È il massimo favore che possiate farmi…

– Orbene, che ne pensi, Agata?

– Mi pare, – ella soggiunse, – che si potrebbe trovare una buona donna di servizio pel maestro, che gli tenesse in ordine la casa, e che sapesse fargli da pranzo e il bucato. In fine dei conti la spesa sarà eguale, se non minore, la salute se ne troverà meglio, e in caso che fosse indisposto non sarà solo.

Mi pareva strano che una persona che si occupava di polli e dell'orto potesse avere tanto buon senso. Io approvai intieramente il suo piano e tutti i consigli che vi aggiunsero i genitori, tanto solleciti del mio bene.

– E chi potrà trovare facilmente una donna che mi convenga? – io chiesi.

– La troverò io, – soggiunse l'Agata, e mi mostrò tanta bontà premurosa, e mi spiegò con tanta grazia che cosa dovessi fare, e come contenermi per i miei piccoli interessi di casa, che davvero, se non fosse stata troppo bionda, l'avrei forse trovata anche bella.

Essendo giorno festivo, non fu possibile mandare a Tirano a prendere i miei bagagli, ma quell'ottima famiglia non mi lasciò mancar nulla che mi fosse necessario, mettendo a mia disposizione la più bella biancheria del signor Nicola. Una sola cosa mi faceva difetto: un libro per la sera. Essendo avvezzo da lunghi anni a leggere a letto, e privo da tanti giorni d'un tal piacere, ne sentivo vivamente il bisogno; onde mi feci animo, e dissi all'Agata:

– Siete tanto buona, che vorrei domandarvi un nuovo favore da aggiungere agli altri.

– Tutto quello che abbiamo è a vostra disposizione.

– Come siete gentile!.. vorrei pregarvi di favorirmi un libro da leggere.

– Ben volentieri… Volete storia, romanzi, viaggi, drammi, poesie?..

– Ve ne lascio la scelta… ben sicuro che mi darete il libro che mi conviene di più.

– Benissimo… farò il possibile per scegliervi una lettura utile e piacevole.

– E di vostro gusto.

– E di mio gusto.

Alla sera dopo cena mi consegnò il libro; io la ringraziai caldamente, e salii tutto contento nella mia stanza. Appena entrato mi avvicinai al lume per guardare il frontispizio del volume, e ne rimasi sorpreso e pensieroso. Era sincerità od ironia?.. era un atto d'ingenuo interesse od una lezione arguta?.. Profondo mistero!.. Il fatto sta che quel libro era l'Ortolano dirozzato di Filippo Re.

Il bacio della contessa Savina

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