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VI
ОглавлениеAll'indomani Martino andò a Tirano a prendere il mio bagaglio, dimenticandosi nell'ufficio della diligenza l'ombrello, che ho potuto ricuperare qualche giorno dopo col mezzo d'un amico del signor Nicola. Sono incalcolabili le noie e gl'imbarazzi causatici dagli imbecilli fra le vicende della vita. Siccome non possono essere occupati che in cose da nulla, e le fanno male, così ci obbligano a rifarle, annoiandoci in frivole cure per le quali li avevamo pagati. Ma in tutte le condizioni sociali siamo pur troppo condannati ad attraversare il pelago dell'umana imbecillità, e questa navigazione desolante ci ruba delle ore preziose, e quindi ci accorcia la vita. Maledetti gli imbecilli!..
Io ero capitato al villaggio appunto per distruggere l'ignoranza e l'imbecillità, e mi ripromettevo grandi vantaggi da questa nobile e santa missione, ed aspettavo l'apertura della scuola per gettarmi a corpo perduto nelle cure della pubblica istruzione.
Intanto la prosa dell'Ortolano dirozzato mi produceva ogni sera il suo effetto infallibile, addormentandomi d'un sonno denso, tenace, profondo, e talvolta facendomi vedere in sogno una testa bionda di donna col sogghigno dell'ironia, fra un cavolo navone e un cavolo rapa.
Non mi ero degnato mostrarmi offeso della scelta del libro, e tacqui fino a che un giorno l'Agata mi domandò se io facessi progressi nell'orticoltura.
Allora gli dissi un po' risentito che non mi sentivo davvero chiamato a quel genere di studi.
– Avete torto, – mi rispose.
– Che volete!.. se preferisco Monti, Foscolo, Alfieri a Filippo Re, la traduzione d'Omero, i Sepolcri e le tragedie ai poponi ed alle zucche, non è mia colpa… i gusti son gusti.
– Non si tratta di preferenze, – essa insisteva – ma di assoluta necessità. Ogni persona di buon gusto, dopo pranzo, preferisce un mazzo di fiori ad un pezzo di pane; ma se i fiori sono vaghi, profumati e deliziosi, non sono necessari come il pane. Per coltivare dei fiori bisogna vivere, e per vivere bisogna mangiare, dunque il necessario deve passare prima del dilettevole, i campi prima dei giardini, l'orto prima della poesia. La poesia è cosa sublime, è un ornamento della vita, ma per vivere bisogna lavorare sul positivo e sul sodo. La vita è cosa seria, ha doveri e necessità dalle quali non si sfugge senza grave danno. Sapete di quell'astronomo che camminando assorto nella contemplazione degli astri è caduto in un pozzo. Sta bene guardare in alto, ma non bisogna cadere nei pozzi, e ce ne sono tanti sulla terra.
Ci sono poi certi poeti che cercano le ispirazioni in aria, e rapiti dai loro voli pindarici non vedono il bello che li circonda, non sanno ammirare i pregi della natura che passa davanti i loro occhi, disdegnano come volgarità la semplice poesia della vita. Io invece trovo la poesia anche nel cortile e nell'orto, ove osservo tanti doni della natura che crescono a beneficio dell'uomo, e mi rammentano i piaceri della mensa, che, raccogliendo la famiglia e ristorando le forze, procura anche i piaceri morali che provengono dallo scambio dei pensieri e degli affetti.
Tali discorsi mi conducevano a serie riflessioni; io le chiedeva scusa del mio sussiego, mi desolava delle mie idee storte, vane e confuse, e mi battevo la fronte. Allora essa rideva, e lodando i miei gusti letterari, incoraggiava i miei studi; e mi consigliava a ripartire il mio tempo fra la prosa e la poesia, fra le cose positive e le amenità.
– Se dovete vivere in campagna, – essa aggiungeva, – avete bisogno d'un orto; se sapete coltivarlo ne caverete degli utili, e poi imparerete anche a coltivare i fiori.
Le promettevo di occuparmene seriamente… ma quando aprivo il mio Ortolano dirozzato, e leggevo quelle elucubrazioni sulla cultura dei cavoli, il libro mi cadeva dalle mani, e contro mia volontà mi addormentavo.
Il vecchio maestro era partito, il mio casino era in ristauro. Il signor Nicola lo aveva consegnato ai muratori, falegnami, fabbri-ferrai, ed ogni giorno andavamo insieme a visitarne i lavori. Io non vedeva che martelli che battevano, seghe ed accette che dividevano e sgrossavano legnami, pialle che spianavano tavole, lime, raspe, tanaglie che rodevano e sconficcavano, cazzuole che muravano, pennelli che imbiancavano, tutto ad onore della mia persona. Ma il signor Nicola vedeva meglio di me che una screpolatura richiedeva un arpese, che un muro faceva corpo, che le assi del solaio non erano ben commesse, e raccomandava ai muratori l'economia della calce, ai manovali di sgomberare i pavimenti dai rovinacci, di spazzare i trucioli che volavano giù dalle scale. Esaminava l'intonaco, e le varie opere del legnaiuolo, e faceva le sue osservazioni. Il giorno dopo si tornava a vedere se i suoi ordini erano stati eseguiti, e se tutto procedeva secondo le convenzioni stipulate cogli operai.
Poi facevamo lunghe escursioni visitando i boschi, i pascoli e le cascine; il signor Nicola mi parlava di migliorie da introdursi, e dei redditi aumentabili, ed io lo ascoltava guardando le belle vedute che si stendevano davanti i nostri sguardi. Bitto ci seguiva dappertutto, e andava avanti ad esplorare il terreno.
Una sera passeggiando con tutta la famiglia Bruni alle falde d'una collina, io osservava attentamente il mio cane che correva dietro agli uccelli svolazzanti sulle siepi, abbaiando furiosamente perchè non si lasciavano prendere.
– L'ingenuità di Bitto vi sorprende… – mi disse Agata, – ma molti uomini fanno come lui: vorrebbero volare senza ali e si lamentano di non poter raggiungere coloro che s'innalzano perchè hanno forze superiori.
La guardai in faccia sospettoso, perchè mi parve alludesse al mio caso, ma vidi che la sua fisonomia non indicava alcuna malizia, e pensando d'altronde ch'essa non poteva conoscere le mie aspirazioni mi tacqui, e meditai lungamente sulla rassomiglianza dei miei gusti con quelli del mio cane.
Quando il mio casinetto mi parve in ordine, pregai le signore Bruni di volerlo onorare d'una visita, anche per favorirmi i loro consigli sulle ultime disposizioni. Accettarono con piacere la mia proposta, e v'andammo insieme; ma mentre mi aspettava dei complimenti sul mio buon gusto, dovetti invece subire le giuste critiche dell'Agata. Infatti fui forzato di riconoscere che mi ero dimenticato le cose più indispensabili agli usi domestici.
– Ecco i poeti!.. – mi disse sorridendo la ragazza, – più fortunati di Bitto hanno le ali per volare al disopra delle cose terrene, ma però, meno positivi degli uccelli, si dimenticano gli agi del nido, che hanno pur tanta parte nella poesia della vita.
L'Agata era troppo buona per aver l'intenzione di pungermi sul vivo, tuttavia ogni qual volta mi metteva al confronto cogli altri animali, io figurava sempre al di sotto della bestia… Non potevo sopportare in pace ogni attacco, nè dissimulare la mia stizza, ed essa, invece di mostrarsi dolente del mio dispetto, pareva si godesse. Alla fine, convinto dalle sue dimostrazioni che gli uomini hanno meno attitudine delle donne per mettere in ordine una casa, la pregai di volermi assistere come una buona sorella, incaricandosi di completare le mie disposizioni e di compiere l'opera che sembrava troppo superiore alla mia capacità. Avendo accettato cordialmente l'incarico col consenso dei genitori, le consegnai il denaro che restava disponibile facendole ampia procura di spenderlo secondo i suoi gusti e il suo giudizio. Due giorni dopo essa partì per Sondrio, accompagnata dal padre, per fare le spese necessarie, ed al suo ritorno venne spedito un carro a prendere gli oggetti acquistati che giunsero in buon ordine, certo a motivo che Martino non faceva parte della spedizione.
Allora l'Agata accordò la Rosa al mio servizio, e volle stipulata una convenzione fra noi, cioè ch'io non entrassi più nella mia futura dimora fino a che l'opera non fosse compiuta. Così, mentre l'Agata e la Rosa, accompagnate dal signor Nicola, dalla signora Giovanna e da Martino, andavano a lavorare a mio vantaggio, e si affaticavano a mettere a posto ogni cosa, io non aveva altro incarico che di passeggiare dalla parte opposta del paese col sigaro in bocca, come un vero sibarita.
In pochi giorni tutto fu messo in assetto, e finalmente ottenni il permesso di visitare la casa. La trovai trasformata, e ne rimasi sbalordito. Essa respirava una modesta agiatezza, piena d'attrattive. Si vedeva dappertutto la mano della donna, si sentiva la sua influenza e il suo intento. Ogni stanza aveva le sue tende, i mobili opportuni, puliti, e collocati a dovere. Al pianterreno un allegro salottino, con un bel tappeto davanti al canapè, un tavolo rotondo nel mezzo; uno studiolo colla stufa, e gli scaffali pei libri, un tinello colla sua credenza a invetriate ove si vedevano le stoviglie, le tazze, i cristalli che brillavano per nitidezza; ed una cucina ben fornita di pentole e pentolini, casseruole e girarrosto. Sugli scaffali si vedevano tutti gli oggetti destinati agli usi domestici, ch'io aveva dimenticati, dal macinino del caffè allo scaldaletto, dalle caffettiere alle lucerne, dai piatti alle scodelle. Davanti al focolare due alti seggioloni a bracciuoli invitavano a sedersi al fuoco. La catena e gli alari lucenti stavano al loro posto. Dopo la cucina si entrava in una piccola dispensa collocata a settentrione, fresca e ventilata per conservare le carni, poi c'era un magazzino ad uso di legnaia e cantina, provveduto dell'occorrente.
Al primo piano due belle stanze da letto, una per me, un'altra a disposizione dello zio quando volesse arrestarsi andando ai bagni di Bormio. Una stanzuccia per la Rosa, un'altra ad uso di guardaroba, un'altra ancora disponibile e vuota.
Tutte le stanze avevano l'occorrente, ma quello che mi colpì di più furono i quadretti appesi ai muri, e i vasi di fiori sui tavoli, e vari altri piccoli oggetti da collocare i sigari e i fiammiferi. Nel gabinetto da studio figuravano le più belle vedute di Milano, che mi arrestai a contemplare con uno stringimento di cuore. Il tinello aveva due bei panorami del lago di Como, e le pareti del salotto portavano i ritratti di alcuni fra i più grandi benefattori del genere umano.
Sulla porta della cucina stava affisso il lunario, e un calendario dell'ortolano, nel quale si leggevano i lavori e le semine da farsi ogni mese.
Quella buona ragazza così sensata e positiva, visti i miei piccoli mezzi, mi aveva dichiarato non occuparsi che del solo necessario; essa aveva dunque trovato necessario coprire la nudità delle pareti, riposare i miei sguardi sulle care memorie della patria, ricondurre il mio spirito di quando in quando per le vie della mia cara Milano, rammentando l'aspetto ridente della natura coi più bei siti contemplati sul lago, e richiamandomi alla mente le grandi virtù dagli uomini che onorano l'umanità.
Di quella povera casa, così deserta, tacita, e nuda, essa aveva fatto una dimora piacevole, comoda, popolata di ricordi, eloquente d'insegnamenti, fornita di graziose opere d'arte, un rifugio tranquillo e sereno, che invitava alla pace ed allo studio.
Commosso e riconoscente, non sapevo in qual modo dimostrarle la mia gratitudine. Essa aveva apparecchiato il nido al povero esule, s'era studiata di rendergli meno squallida la vita solitaria. Come una buona sorella aveva prodigate le cure più affettuose nell'allestimento d'ogni stanza, usando gli accorgimenti più delicati, le previsioni più sottili. Io andava pensando a qualche regaluccio che le provasse la mia piena soddisfazione, ma mi trovavo nell'impossibilità di poter acquistare un oggetto qualunque al villaggio.
Mi si presentò il pensiero di offrirle la medaglia di mia madre.
Era quanto io possedessi di più prezioso, e vi tenevo tanto che dapprima respinsi tale idea come una tentazione. Non sapevo risolvermi a privarmi di quella santa memoria; respingevo il progetto, e lo riprendevo esitante e sconvolto da mille diversi pensieri, quando la Rosa venne a dirmi che l'Agata mi attendeva ansiosa di conoscere l'effetto prodotto dalle sue disposizioni.
Dovetti risolvermi a partire colla medaglia o colle mani vuote; o quella o niente!.. In tale dolorosa alternativa, piuttosto di passare per un ingrato ho preferito lacerarmi le fibre del cuore, presi la medaglia deciso e rassegnato al dolore di privarmi dell'ultimo residuo della famiglia, dell'unico segno che mi rammentasse mia madre, e corsi a casa Bruni.
L'Agata era nel suo giardinetto aspettando il mio ritorno, quando io le comparvi dinanzi tutto sconvolto dall'interna lotta delle mie sensazioni. Vedendomi ne rimase confusa, temendo di non avere incontrato il mio gradimento. La rassicurai piuttosto coi gesti che colle parole, perchè mi mancava la voce. Poi le presentai la medaglia dicendole:
– Questo è l'oggetto più prezioso che posseggo, è l'unico ricordo che mi rimane della mia povera madre; vogliate accettarlo come un pegno della mia viva riconoscenza.
Fece un moto di sorpresa e rifiutò: una grossa lagrima scese sulle sue guancie, indi mi rispose:
– La vostra soddisfazione mi ricompensa largamente del poco che ho fatto. L'allestimento della casetta è stato per me un vero divertimento, il dono che vorreste farmi mi prova che sono riuscita al di là delle mie speranze, io ne sono contentissima e non desidero altro.
– Non rifiutate, vi supplico, di accettare questo piccolo segno della mia gratitudine.
– Ma nemmeno per sogno, caro Daniele, io sarei ben crudele se vi privassi d'una tale santa memoria!
– Eppure, Agata, sento dentro di me una ispirazione che mi spinge ad insistere, sento come la voce di mia madre che mi ordina di mettere questa medaglia nelle vostre mani, come un sacro deposito… rifiuterete la preghiera di una povera madre morta?
Allora, vedendomi umiliato e dolente della sua esitanza, stese la mano dicendomi:
– Come semplice deposito l'accetto. – Prese la medaglia, la guardò attentamente, le diede un bacio, se la pose in seno, ed aggiunse: – Essa mi darà il diritto di trattarvi come fratello… fin che saremo vicini.
– Mia madre vi ascolta a vi benedirà, – risposi.
Le baciai la mano con affetto fraterno, mi ritirai nella mia stanza, perchè sentivo bisogno di trovarmi solo, per piangere in libertà.