Читать книгу Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - Чезаре Павезе - Страница 14

LA LUNA E I FALÒ
XIII

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Si riparlò di questa storia, in paese. Quel parroco era in gamba. Batté il ferro l’indomani dicendo una messa per i poveri morti, per i vivi ch’erano ancora in pericolo, per quelli che dovevano nascere. Raccomandò di non iscriversi ai partiti sovversivi, di non leggere la stampa anticristiana e oscena, di non andare a Canelli se non per affari, di non fermarsi all’osteria, e alle ragazze di allungarsi i vestiti. A sentire i discorsi che facevano adesso donnette e negozianti in paese, il sangue era corso per quelle colline come il mosto sotto i torchi. Tutti eran stati derubati e incendiati, tutte le donne ingravidate. Fin che l’ex podestà disse chiaro, sui tavolini dell’Angelo, che ai tempi di prima queste cose non succedevano. Allora saltò su il camionista – uno di Calosso, grinta dura – che gli chiese dov’era finito, ai tempi di prima, quello zolfo del Consorzio.

Tornai da Nuto e lo trovai che misurava degli assi, sempre imbronciato. La moglie in casa dava il latte al bambino. Gli gridò dalla finestra ch’era scemo a pigliarsela, che nessuno aveva mai guadagnato niente con la politica. Io per tutto lo stradone, dal paese al Salto, avevo rimuginato queste cose ma non sapevo come dirgli la mia. Adesso Nuto mi guardò, sbatté la riga e mi chiese brusco se non ne avevo abbastanza, che cosa ci trovavo in questi paesacci.

– Dovevate farla allora, – gli dissi, – non è da furbi cimentare le vespe.

Allora lui gridò dentro la finestra: – Comina, vado via —. Raccolse la giacca e mi disse: – Vuoi bere? – Mentre aspettavo raccomandò qualcosa ai garzoni sotto la tettoia; poi si volta e mi fa: – Sono stufo. Andiamocene fuori dai piedi.

Ci arrampicammo per il Salto. Da principio non si parlava, o si diceva solamente: «L’uva quest’anno è bella». Passammo tra la riva e la vigna di Nuto. Lasciammo la stradetta e prendemmo il sentiero – ripido che bisognava mettere i piedi di costa. Alla svolta di un filare incocciammo il Berta, il vecchio Berta che non usciva piú dai beni. Mi soffermai per dir qualcosa, per farmi conoscere – mai piú avrei creduto di ritrovarlo ancora vivo e cosí sdentato – ma Nuto tirò dritto; disse soltanto: – Salutiamo —. Il Berta non mi conobbe di certo.

Fin qui ero salito un tempo, dove finiva il cortile della casa dello Spirita. Ci venivamo in novembre a rubargli le nespole. Cominciai a guardarmi sotto i piedi – le vigne asciutte e gli strapiombi, il tetto rosso del Salto, il Belbo e i boschi. Anche Nuto adesso rallentava, e andavamo testardi, sostenuti.

– Il brutto, – disse Nuto, – è che siamo degli ignoranti. Il paese è tutto in mano a quel prete.

– Vuoi dire? Perché non gli rispondi?

– Vuoi rispondere in chiesa? Quest’è un paese che un discorso lo puoi soltanto fare in chiesa. Se no, non ti credono… La stampa oscena e anticristiana, lui dice. Se non leggono neanche l’almanacco.

– Bisogna uscire dal paese, – gli dissi. – Sentire le altre campane, prender aria. A Canelli è diverso. Hai sentito che l’ha detto anche lui che Canelli è l’inferno.

– Bastasse.

– Si comincia. Canelli è la strada del mondo. Dopo Canelli viene Nizza. Dopo Nizza Alessandria. Da soli non farete mai niente.

Nuto cacciò un sospiro e si fermò. Mi soffermai anch’io e guardai giú nella vallata.

– Se vuoi combinare qualcosa, – dissi, – devi tenere i contatti col mondo. Non avete dei partiti che lavorano per voi, dei deputati, della gente apposta? Parlate, trovatevi. In America fanno cosí. La forza dei partiti è fatta di tanti piccoli paesi come questo. I preti non lavorano mica isolati, hanno dietro tutta una lega di altri preti… Perché quel deputato che ha parlato alle Ca’ Nere non ci torna?…

Ci sedemmo all’ombra di quattro canne, sull’erba dura, e Nuto mi spiegò perché il deputato non tornava. Dal giorno della liberazione – quel sospirato 25 aprile – tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sí che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai – perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai piú tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra. Si capisce, in tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno – disse Nuto – della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare. E poi? com’era andata? Si era smesso di stare all’erta, si era creduto agli alleati, si era creduto ai prepotenti di prima che adesso – passata la grandine – sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi. – E siamo a questo, – disse Nuto, – che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente, – disse, – toccava a lui fare la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?

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