Читать книгу Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - Чезаре Павезе - Страница 4
LA LUNA E I FALÒ
III
ОглавлениеDi Nuto musicante avevo avuto notizie fresche addirittura in America – quanti anni fa? – quando ancora non pensavo a tornare, quando avevo mollato la squadra ferrovieri e di stazione in stazione ero arrivato in California e vedendo quelle lunghe colline sotto il sole avevo detto: «Sono a casa». Anche l’America finiva nel mare, e stavolta era inutile imbarcarmi ancora, cosí m’ero fermato tra i pini e le vigne. «A vedermi la zappa in mano», dicevo, «quelli di casa riderebbero». Ma non si zappa in California. Sembra di fare i giardinieri, piuttosto. Ci trovai dei piemontesi e mi seccai: non valeva la pena aver traversato tanto mondo, per vedere della gente come me, che per giunta mi guardava di traverso. Piantai le campagne e feci il lattaio a Oakland. La sera, traverso il mare della baia, si vedevano i lampioni di San Francisco. Ci andai, feci un mese di fame e, quando uscii di prigione, ero al punto che invidiavo i cinesi. Adesso mi chiedevo se valeva la pena di traversare il mondo per vedere chiunque. Ritornai sulle colline.
Ci vivevo da un pezzo e m’ero fatto una ragazza che non mi piaceva piú da quando lavorava con me nel locale sulla strada del Cerrito. A forza di venire a prendermi sull’uscio, s’era fatta assumere come cassiera, e adesso tutto il giorno mi guardava attraverso il banco, mentre friggevo il lardo e riempivo bicchieri. La sera uscivo fuori e lei mi raggiungeva correndo sull’asfalto coi tacchetti, mi prendeva a braccio e voleva che fermassimo una macchina per scendere al mare, per andare al cinema.
Appena fuori della luce del locale, si era soli sotto le stelle, in un baccano di grilli e di rospi. Io avrei voluto portarmela in quella campagna, tra i meli, i boschetti, o anche soltanto l’erba corta dei ciglioni, rovesciarla su quella terra, dare un senso a tutto il baccano sotto le stelle. Non voleva saperne. Strillava come fanno le donne, chiedeva di entrare in un altro locale. Per lasciarsi toccare – avevamo una stanza in un vicolo di Oakland – voleva essere sbronza.
Fu una di quelle notti che sentii raccontare di Nuto. Da un uomo che veniva da Bubbio. Lo capii dalla statura e dal passo, prima ancora che aprisse bocca. Portava un camion di legname e, mentre fuori gli facevano il pieno della benzina, lui mi chiese una birra.
– Sarebbe meglio una bottiglia, – dissi in dialetto, a labbra strette.
Gli risero gli occhi e mi guardò. Parlammo tutta la sera, fin che da fuori non sfiatarono il clacson. Nora, dalla cassa, tendeva l’orecchio, si agitava, ma Nora non era mai stata nell’Alessandrino e non capiva. Versai perfino al mio amico una tazza di whisky proibito. Mi raccontò che lui a casa aveva fatto il conducente, i paesi dove aveva girato, perché era venuto in America. – Ma se sapevo che si beve questa roba… Mica da dire, riscalda, ma un vino da pasto non c’è…
– Non c’è niente, – gli dissi, – è come la luna.
Nora, irritata, si aggiustava i capelli. Si girò sulla sedia e aprí la radio sui ballabili. Il mio amico strinse le spalle, si chinò e mi disse sul banco facendo cenno all’indietro con la mano: – A te queste donne ti piacciono?
Passai lo straccio sul banco. – Colpa nostra, – dissi. – Questo paese è casa loro.
Lui stette zitto ascoltando la radio. Io sentivo sotto la musica, uguale, la voce dei rospi. Nora, impettita, gli guardava la schiena con disprezzo.
– È come questa musichetta, – disse lui. – C’è confronto? Non sanno mica suonare…
E mi raccontò della gara di Nizza l’anno prima, quando erano venute le bande di tutti i paesi, da Cortemilia, da San Marzano, da Canelli, da Neive, e avevano suonato suonato, la gente non si muoveva piú, s’era dovuta rimandare la corsa dei cavalli, anche il parroco ascoltava i ballabili, bevevano soltanto per farcela, a mezzanotte suonavano ancora, e aveva vinto il Tiberio, la banda di Neive. Ma c’era stata discussione, fughe, bottiglie in testa, e secondo lui meritava il premio quel Nuto del Salto…
– Nuto? ma lo conosco.
E allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa faceva. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone avevano suonato senza smettere fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano cosí bene che dalle case le donne saltavano giú dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo. Nuto, in mezzo, portava tutti col clarino.
Nora gridò che facessi smettere il clacson. Versai un’altra tazza al mio amico e gli chiesi quando tornava a Bubbio.
– Anche domani, – disse lui, – se potessi.
Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto. Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli. Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa. Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura. Le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi. Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?
Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo. Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di esser padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura? Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: «Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere». Era questo che faceva paura. Neanche tra loro non si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lí si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto. E avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. Veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.
Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quella dei grilli. Mi scappò da ridere, all’idea se avesse saputo quel che pensavo. Ma queste cose non si dicono a nessuno, non serve. Un bel mattino non mi avrebbe piú visto, ecco tutto. Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.