Читать книгу Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - Чезаре Павезе - Страница 5
LA LUNA E I FALÒ
IV
ОглавлениеNemmeno per la Madonna d’agosto Nuto ha voluto imboccare il clarino – dice che è come nel fumare, quando si smette bisogna smettere davvero. Di sera veniva all’Angelo e stavamo a prendere il fresco sul poggiolo della mia stanza. Il poggiolo dà sulla piazza e la piazza era un finimondo, ma noi guardavamo di là dai tetti le vigne bianche sotto la luna.
Nuto che di tutto vuol darsi ragione mi parlava di che cos’è questo mondo, voleva sapere da me quel che si fa e quel che si dice, ascoltava col mento poggiato sulla ringhiera.
– Se sapevo suonare come te, non andavo in America, – dissi. – Sai com’è a quell’età. Basta vedere una ragazza, prendersi a pugni con uno, tornare a casa sotto il mattino. Uno vuol fare, esser qualcosa, decidersi. Non ti rassegni a far la vita di prima. Andando sembra piú facile. Si sentono tanti discorsi. A quell’età una piazza come questa sembra il mondo. Uno crede che il mondo sia cosí…
Nuto taceva e guardava i tetti.
– …Chi sa quanti dei ragazzi qui sotto, – dissi, – vorrebbero prendere la strada di Canelli…
– Ma non la prendono, – disse Nuto. – Tu invece l’hai presa. Perché?
Si sanno queste cose? Perché alla Mora mi dicevano anguilla? Perché un mattino sul ponte di Canelli avevo visto un’automobile investire quel bue? Perché non sapevo suonare neanche la chitarra?
Dissi: – Alla Mora stavo troppo bene. Credevo che tutto il mondo fosse come la Mora.
– No, – disse Nuto, – qui stanno male ma nessuno va via. È perché c’è un destino. Tu a Genova, in America, va’ a sapere, dovevi far qualcosa, capire qualcosa che ti sarebbe toccato.
– Proprio a me? Ma non c’era bisogno di andare fin là.
– Magari è qualcosa di bello, – disse Nuto, – non hai fatto i soldi? Magari non te ne sei neanche accorto. Ma a tutti succede qualcosa.
Parlava a testa bassa, la voce usciva storta contro la ringhiera. Fece scorrere i denti sulla ringhiera. Sembrava che giocasse. A un tratto alzò la testa. – Un giorno o l’altro ti racconto delle cose di qui, – disse. – A tutti qualcosa tocca. Vedi dei ragazzi, della gente che non è niente, non fanno nessun male, ma viene il giorno che anche loro…
Sentivo che faceva fatica. Trangugiò la saliva. Da quando ci eravamo rivisti non mi ero ancora abituato a considerarlo diverso da quel Nuto scavezzacollo e tanto in gamba che c’insegnava a tutti quanti e sapeva sempre dir la sua. Mai che mi ricordassi che adesso l’avevo raggiunto e che avevamo la stessa esperienza. Nemmeno mi sembrava cambiato; era soltanto un po’ piú spesso, un po’ meno fantastico, quella faccia da gatto era piú tranquilla e sorniona. Aspettai che si facesse coraggio e si levasse quel peso. Ho sempre visto che la gente, a lasciarle tempo, vuota il sacco.
Ma Nuto quella sera non vuotò il sacco. Cambiò discorso.
Disse: – Sentili, come saltano e come bestemmiano. Per farli venire a pregar la madonna il parroco bisogna che li lasci sfogare. E loro per potersi sfogare bisogna che accendano i lumi alla madonna. Chi dei due frega l’altro?
– Si fregano a turno, – dissi.
– No no, – disse Nuto, – la vince il parroco. Chi è che paga l’illuminazione, i mortaretti, il priorato e la musica? E chi se la ride l’indomani della festa? Dannati, si rompono la schiena per quattro palmi di terra, e poi se li fanno mangiare.
– Non dici che la spesa piú grossa tocca alle famiglie ambiziose?
– E le famiglie ambiziose dove prendono i soldi? Fan lavorare il servitore, la donnetta, il contadino. E la terra, dove l’han presa? Perché dev’esserci chi ne ha molta e chi niente?
– Cosa sei? comunista?
Nuto mi guardò tra storto e allegro. Lasciò che la banda si sfogasse, poi sbirciandomi sempre borbottò: – Siamo troppo ignoranti in questo paese. Comunista non è chi vuole. C’era uno, lo chiamavano il Ghigna, che si dava del comunista e vendeva i peperoni in piazza. Beveva e poi gridava di notte. Questa gente fa piú male che bene. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guastassero il nome. Il Ghigna han fatto presto a fregarlo, piú nessuno gli comprava i peperoni. Ha dovuto andar via quest’inverno.
Gli dissi che aveva ragione ma dovevano muoversi nel ’45 quando il ferro era caldo. Allora anche il Ghigna sarebbe stato un aiuto. – Credevo tornando in Italia di trovarci qualcosa di fatto. Avevate il coltello dal manico…
– Io non avevo che una pialla e uno scalpello, – disse Nuto.
– Della miseria ne ho vista dappertutto, – dissi. – Ci sono dei paesi dove le mosche stanno meglio dei cristiani. Ma non basta per rivoltarsi. La gente ha bisogno di una spinta. Allora avevate la spinta e la forza… C’eri anche tu sulle colline?
Non gliel’avevo mai chiesto. Sapevo di diversi del paese – giovanotti venuti al mondo quando noi non avevamo vent’anni – che c’erano morti, su quelle strade, per quei boschi. Sapevo molte cose, gliele avevo chieste, ma non se lui avesse portato il fazzoletto rosso e maneggiato un fucile. Sapevo che quei boschi s’erano riempiti di gente di fuori, renitenti alla leva, scappati di città, teste calde – e Nuto non era di nessuno di questi. Ma Nuto è Nuto e sa meglio di me quel che è giusto.
– No, – disse Nuto, – se ci andavo, mi bruciavano la casa.
Nella riva del Salto Nuto aveva tenuto nascosto dentro una tana un partigiano ferito e gli portava da mangiare di notte. Me lo aveva detto sua mamma. Ci credevo. Era Nuto. Soltanto ieri per strada incontrando due ragazzi che tormentavano una lucertola gli aveva preso la lucertola. Vent’anni passano per tutti.
– Se il sor Matteo ce l’avesse fatto a noi quando andavamo nella riva, – gli avevo detto, – cos’avresti risposto? Quante nidiate hai fatto fuori a quei tempi?
– Sono gesti da ignoranti, – aveva detto. – Facevamo male tutt’e due. Lasciale vivere le bestie. Soffrono già la loro parte in inverno.
– Dico niente. Hai ragione.
– E poi, si comincia cosí, si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.