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II.
ОглавлениеIl Talmud
Tutti hanno udito menzionare, ed anche maledire, il Talmud, questo libro che lo storico Milman (54) chiamava: “monumento straordinario dell'attività umana, della intelligenza umana, e dell'umana pazzia;” molti certamente ignorano cosa esso sia, o ne hanno nozioni assai incomplete; e non vi sarebbe troppo da meravigliarsi se qualche semidotto credesse ancora che il Talmud fosse un uomo, siccome avvenne a quel buon Cappuccino d'Henry de Seyne che ebbe con tutta tranquillità a scrivere: Ut narrat Rabbinus Talmud.
Cercheremo, in brevi parole, di dirne quel tanto che sarà necessario per far chiaro ciò che dovremo dire in appresso.
Fintanto che gli Ebrei rimasero nella Terra Promessa, la Legge scritta, il Pentateuco, fu, per essi, solo codice religioso, morale, politico.
Coloro che eran chiamati ad insegnarlo ed a curarne l'osservanza, ne conoscevano ed applicavano, caso per caso, l'interpretazione tradizionale.
Essi erano, a sentirli, depositari di una tradizione orale trasmessa in buona parte da Dio stesso a Moisè sul Sinai (alachà lemoscè Missinai) (55), da Mosè trasmessa a Giosuè, da questo agli anziani, dagli anziani ai profeti e dai profeti agli uomini della Grande Sinagoga (56).
Agli Ebrei però era allora vietato di raccogliere per iscritto tale tradizione. Il motivo di questo divieto non è noto. Chi crede ne fosse causa il desiderio connaturale ai popoli orientali, siccome ci mostrano la storia dell'India e dell'Egitto, di concentrare in poche mani il monopolio della scienza (57); chi ne cerca ragione nel timore che errori di copisti o volontarie falsificazioni (58) producessero nuovi scismi; chi nel desiderio di impedire che la legge tradizionale acquistasse eguale autorità della scritta; S. D. Luzzatto (59) infine, pensa che tale divieto provenisse dall'aver, gli antichissimi dottori, voluto che la teoria e la pratica della religione rimanessero in buona parte modificabili, giusta i bisogni dei tempi, ragione per cui nulla scrissero e nulla permisero si scrivesse per non scemare ai posteri la libertà di modificare gli insegnamenti dei predecessori (60).
Per quanto incredibile possa ciò sembrare a' giorni nostri, non è meno certo che questi insegnamenti passavano per tradizione orale dall'una all'altra generazione. La memoria sviluppatissima, come è noto, presso i popoli orientali, dovette aver parte grandissima nelle scuole ebraiche (61).
Caduto il secondo tempio e venutane la gran dispersione degli Ebrei, i loro dottori compresero che ove si fosse continuato nell'antico sistema, la tradizione avrebbe molto probabilmente finito coll'andar dispersa.
Pensarono quindi di ridurla in iscritto, e Giuda di Tiberiade, soprannominato il Santo, a causa della sua scienza e della purezza dei suoi costumi, e conosciuto anche sotto il semplice nome di Rabbì, quasi il maestro per antonomasia, compilò, nel primo quarto del terzo secolo, la Mischnà o seconda legge (62).
Che egli poi la scrivesse, come afferma il Maimonide e con lui moltissimi altri, o che invece egli si limitasse ad insegnarla ai suoi numerosi uditori, sicchè essa si tramandasse inalterata per molte generazioni e venisse soltanto dopo lungo tempo posta in iscritto, siccome vogliono con S. D. Luzzatto, il Graetz e molti altri moderni, è questione sulla quale non ci sentiamo da tanto di pronunciarci. Ciò che è certo è che la Mischnà sta al Pentateuco, come il Mitri ai Veda, la Sunnah al Corano e che è qualche cosa di analogo alle Ῥήτραι greche, alla lex non scripta dei Romani ed alla Common Law degli Inglesi.
Nella Mischnà Giuda raccolse tutti i decreti, gli statuti, le sentenze pronunciate dai saggi, diverse massime religiose e morali, tutto ciò che era stato adottato durante l'epoca dei profeti dai membri della grande Sinagoga, tutte le ordinazioni del Sahnedrin e dei tanaim (63), cioè dei dottori più celebri vissuti durante i due secoli anteriori, e ne fece un'opera divisa in sei parti principali, dette ordini.
Ogni ordine è diviso in trattati (letteralmente: contesti), ogni trattato in capi, ogni capo in paragrafi (detti mischnà, nel senso più ristretto della parola). La prima parte od ordine che dir si voglia intitolata delle sementi tratta delle leggi dell'agricoltura e delle decime (64). Vi è premesso un trattato sulle benedizioni quotidiane e su quelle che devonsi pronunciare in varie circostanze. La seconda parte delle Feste tratta delle cerimonie da compiersi nei giorni feriali e solenni. La terza: della Donna o del matrimonio e dei doveri della famiglia. La quarta: dei danni, si occupa della indennità dovuta pei danni che si occasionano altrui ed in generale di tutto quanto si riferisce al giure civile ed al punitivo. Questa parte offre in moltissimi punti una grande analogia col diritto romano (65). A questa parte è aggiunto un trattato di morale che contiene una raccolta di sentenze morali dei padri della Sinagoga. La quinta parte tratta della Santità e dei sacrifizi che si offrivano nel Tempio, che vi è minutamente descritto, e contiene inoltre i precetti sui cibi. La sesta verte sulle purificazioni e sulla purità ed impurità legale.
Lo spirito generale della Mischnà trova la sua migliore espressione nelle parole del suo stesso redattore, che servono quasi di epigrafe alla intiera raccolta: “Siate tanto coscienziosi nell'adempimento dei piccoli precetti quanto dei grandi perchè ignorate la ricompensa che va annessa ad ognuno di essi. Paragonate la perdita temporale che vi occasiona l'adempimento di una legge, colla ricompensa celeste che vi è congiunta, ed il beneficio che risulta dalla trasgressione della legge colla pena che deve seguirla. Per evitare il peccato abbiate sempre presente tre cose: che al dissopra di voi vi ha un occhio che tutto vede, un orecchio che tutto intende, e che tutte le vostre opere sono scritte in un libro” (66).
La Mischnà ha più carattere di codice che di trattato di metafisica. Però essa non trascura l'occasione di inculcare quegli alti principii morali cui deve informarsi la stretta lettera della legge. Nell'esecuzione di un fatto guarda più all'intenzione che all'atto in sè stesso. Chi reclama un diritto, basandosi sulla lettera della legge, ma senza tener conto del sentimento di umanità, che dovrebbe spingerlo a non insistere nelle sue pretese, non è amato nè da Dio nè dagli uomini. Quegli invece che spontaneamente fa buon diritto agli altrui reclami, anche quando la legge non gliene impone l'obbligo, colui, in una parola, che non si ferma alla porta della giustizia, ma che varca la linea della misericordia, guadagna l'approvazione del saggio. “Gerusalemme, vi è detto, non andò distrutta se non perchè in essa si giudicava col rigor della legge” (67). Certi doveri, come, ad esempio, il rispetto ai genitori, la carità, l'applicazione precoce allo studio, l'ospitalità, il metter pace fra nemici traggono seco (68) la loro ricompensa in questo mondo, ma questa non è che un interesse; la vera ricompensa, il capitale, viene pagato nella vita futura. Nella Mischnà non è parola dell'inferno. Oltre le pene sancite dalla legge la Mischnà non minaccia ai peccatori che un solo castigo misterioso e formidabile mandato da Dio, “lo sradicamento;” è lo sterminio (cared) di cui già parla la Scrittura. Le colpe si riscattano generalmente o col pentimento, o colla carità, o col sagrifizio e nel giorno della espiazione; se gravissime, il pentimento giova soltanto a sospendere gli effetti dell'ira divina, ed ove esso continui sino alla morte, questa tutto espia. I peccati commessi contro gli uomini non sono perdonati se la parte offesa non riceve piena riparazione, e non si dichiari soddisfatta. La virtù la più alta consiste nello studio della legge, siccome quello che conduce all'esercizio della virtù (69). Un bastardo istrutto è più onorevole di un gran sacerdote che non lo sia (70).
Esistono due redazioni della Mischnà, le quali non presentano per altro notevoli differenze.
La Mischnà, la quale non contiene generalmente che la decisione finale della tradizione, secondo i pareri dei diversi dottori, fu naturalmente argomento di note, di scolii, di discussioni, nelle due accademie religiose di Palestina e di Babilonia. In ciascuna di queste due accademie si fece più tardi una raccolta di queste discussioni: queste raccolte, molto più voluminose della Mischnà che serve loro di testo, presero il nome di Ghemarà o complemento. La Mischnà e la Ghemarà insieme unite formano il Talmud (71).
Per conseguenza si hanno due Talmud; uno frutto degli studi dell'Accademia di Palestina chiamato Ghemarà di Gerusalemme, l'altro dovuto all'Accademia di Babilonia e detto Ghemarà di Babilonia.
La Ghemarà di Gerusalemme venne redatta a Tiberiade ed ultimata probabilmente verso la fine del iv secolo dell'èra nostra, sotto la direzione di rabbi Iochanan, detto anche bar nappachà, ossia, figlio del fabbroferraio (72). Conteneva i commentarii sulle cinque prime parti della Mischnà, ma quelli risguardanti la quarta parte andarono perduti.
Anche le altre quattro parti contengono taluni trattati incompleti. Questa Ghemarà venne negletta, negli studii delle scuole ebree del medio evo. Essa subì la sorte delle Accademie, da cui aveva avuto origine, e che vennero ecclissate da quelle di Babilonia. Se le edizioni del Talmud gerosolimitano sono meno buone, è perchè ancora non se ne è scoperto un esemplare manoscritto colla cui scorta si possano ristabilire i differenti brani mutilati dai copisti. Inoltre questo Talmud offre molta difficoltà, grazie alla lingua, in cui è scritto, imbarbarita dalla mescolanza di molte voci greche e siriache.
La Ghemarà di Babilonia, la cui autorità prevalse fra gli Ebrei, venne redatta, in una lingua mescolata d'ebraico e d'aramaico, nel corso del quinto secolo, da Aschè, celebre dottore dell'Accademia di Sora (73), da Ravenà suo discepolo e terminata l'anno 500 da rabbi Jossè. Essa è almeno quattro volte più voluminosa dell'altra, quantunque a noi non sian giunti che i commenti a trentasei dei sessantatre trattati, di cui si compone la Mischnà. Le discussioni vi sono più sviluppate, essendo stato chiuso più tardi. Contiene, oltre alle dispute di numerose scuole babilonesi, anche quelle di talune scuole di Palestina.
Questa Ghemarà, al paro della Gerosolimitana, è composta di due parti principali: la parte rituale, detta Alachà, in cui si discorre anco dei riti che divennero impraticabili dopo la distruzione del tempio e una parte non rituale, detta Agadà che contiene narrazioni, leggende, allegorie, proverbi, regole di vita sociale, dottrine morali e sentenze (74). Morale, metafisica, giurisprudenza, astronomia, medicina, tutte le scienze trovano luogo nel Talmud (75).
Le nozioni, che sopra ognuna di esse vi si leggono, sono certamente ben lungi dal raggiungere la perfezione, ma, a traverso gli errori moltissimi che danno a quel libro l'impronta dell'epoca in cui fu scritto, appare che, sin da allora, esisteva presso gli Ebrei il germe della Enciclopedia umana. E ciò è tanto vero che l'Etheridge, scrittore certamente non favorevole al giudaismo, si lascia scappare questa confessione: “Quando il Talmudismo come sistema religioso sarà scomparso, il Talmud non cesserà perciò di essere una preziosa miniera di leggende divertenti e di lezioni inapprezzabili che resteranno vere per tutti i tempi futuri” (76).
Quanti scrissero del Talmud notarono il disordine con cui è redatto. L'Alachà e l'Agadà vi si incontrano promiscuamente, senza sistema nè ordine, sicchè un illustre scrittore disse sembrar quasi che i dottori, minacciati dalla dispersione, agissero come uomini che in un incendio salvano tutto quanto loro viene sotto mano, lasciando ad altri la cura di tirare più tardi il miglior partito da quanto venne sottratto alle fiamme (77).
Questo disordine non deve recar meraviglia. Chi non sa che, malgrado gli sforzi di Triboniano, il Digesto abbonda in germinationes, leges fugitivae, errativae? Gli stessi famosi capitolari di Carlo Magno, o meglio dei Re Franchi (Capitula Regum Francorum), non sono, se si considerano colle idee dei nostri tempi anzichè con quelle dell'epoca in cui vennero scritti, che una indigesta e disordinata farraggine (78). Eppure i Capitolari son di vari secoli posteriori al Talmud.
Una questione importante a risolversi sarebbe quella di conoscere, se il disordine che tanto si lamenta nel Talmud, sia una ripercussione di quello che avrebbe sistematicamente regnato nelle discussioni delle accademie ebraiche; ma l'esame di tale questione ci porterebbe fuori del ristretto campo di questo modestissimo libercolo, sicchè contentiamoci di averla accennata.
Il miscuglio però dell'Agadà coll'Alachà ci viene spiegato da un aneddoto che troviamo narrato nel Talmud stesso, e che ci piace riferire anche perchè vale a render ragione delle iperboli esagerate che spesso si riscontrano nel Talmud, e di cui si fecero un'arme coloro che vollero denigrarlo, senza tener presente l'aureo consiglio di Goëthe, che chi vuole comprendere un poeta deve recarsi nel paese dove egli visse. Un vecchio maestro, narra adunque il Talmud, accorgendosi un giorno che i suoi scolari sonnecchiavano durante la lezione, si interruppe d'un tratto per dire: “Vi fu una volta in Egitto una donna, che diede alla luce seicentomila uomini.” Si può di leggieri immaginare l'effetto prodotto da questo meraviglioso racconto. “Era, continuò tranquillamente il maestro, Jochebed, la madre di Mosè, il quale valeva da solo i seicento mila uomini d'arme che uscirono dall'Egitto”; e rieccitata in tal guisa l'attenzione dell'uditorio, continuò la sua lezione. Chi conosce l'indole immaginosa degli Orientali comprenderà come i maestri, per tener desta l'attenzione degli uditori, dovessero spesso ricorrere a tale sistema, mescolare la leggenda divertente e fantastica col precetto rigido e positivo.
L'Agadà fu spesso segno a motteggi, ed è sempre o quasi sempre di essa che si parla, allorquando si discorre di fantasticherie rabbiniche, o si scaglia contro gli Ebrei il vecchio insulto: Lex Judaeorum, lex puerorum (79).
Niun miglior giudice però dell'importanza che devesi annettere ad un'opera, dello stesso autore; ora nel Talmud stesso troviamo questo giudizio che può fare apprezzare l'importanza che gli stessi rabbini annettevano all'Agadà: “Colui che la trascrive non avrà la sua parte nell'altro mondo, colui che la spiega sarà bruciato e colui che l'ascolta non riceverà ricompensa” (80).
Ogni popolo ha le sue leggende, ma non accade sovente di vedere i contemporanei giudicarle coll'indipendenza d'opinione di cui dà prova questo rabbino.
Ed è veramente strano il vedere che, malgrado siffatta indipendenza di giudizio, si sia potuto da taluno asserire che gli Ebrei di ogni paese si sarebbero obbligati con patto solenne ad accettare il Talmud nella sua integrità, a non aggiungervi ed a non togliervi una sola parola. Con ben maggiore ragione un illustre professore tedesco scrisse: “che i Talmud non hanno essenza dogmatica, che persino i risultati scientifico-legali sono soltanto opinioni individuali e provvisoriamente valevoli, che la sinagoga non li sanzionò mai, e non riconobbe mai in essi l'autorità di decretali riconosciute e generalmente valevoli.” (81).
Infatti il Talmud non fu mai accettato dalla nazione, in assemblea generale o speciale. Le sue decisioni legali, come quelle che emanavano dalle più alte autorità teologiche del Giudaismo, formarono certamente la base della legge religiosa, la norma di tutte le decisioni future. Ma è probabile, per non dir certo, che egli non deve la autorità di cui gode, che ad una causa non prevista dai suoi stessi autori. Durante le persecuzioni contro gli Ebrei, che ebbero luogo nell'impero persiano sotto Ysdegerd II (440 d. G. C.), Peroze e Cobade, le scuole furono chiuse per quasi ottant'anni. Lo sviluppo permanente, continuo, della legge che era lo spirito del Giudaismo fu violentemente interrotto; ed il libro ottenne una autorità suprema, che era ben lungi dalla mente dei suoi autori.
Ma qual sia questa autorità, ce lo dice Samuel Naghid, il dottissimo ebreo spagnuolo che fu nell'xi secolo segretario di un re di Granata, e che è autore di una introduzione al Talmud, tenuta in tanto conto dagli Ebrei, che forma oggidì parte integrante di tutte le edizioni del Talmud stesso:
“Tutto quanto si trova nel Talmud, e che non abbia rapporto con la legge rituale dicesi Agadà; nè da questa devesi trarre altro insegnamento se non quello che persuade. È da notarsi eziandio che quello che i dottori fissarono essere dottrina rivelata a Mosè sul Sinai deve ritenersi come legge fissa ed immutabile, mentre le deduzioni da essi fatte coll'appoggio di commenti a testi biblici, son cose fatte a seconda delle esigenze, delle circostanze e delle proprie idee; per cui mentre devesi ritenere quanto in questi ultimi insegnamenti vi ha di persuadente, il resto non è cosa su cui si abbia l'obbligo di appoggiarsi.” Se così scrivevano gli antichi non meraviglia che con eguale indipendenza il rabbino Hurwiz di Londra abbia scritto nella sua opera Hebrew Tales: “Sono lungi dal sostenere che il Talmud sia un libro irreprensibile, sono disposto ad ammettere che contiene molte cose, che ogni spirito illuminato, ogni israelita pio desidererebbe non vi fossero mai state o vi fossero, almeno, state tolte da molto tempo.” (82).
Se piacque dunque a taluno, dice, ben a ragione, il dottissimo Bedarride (83) di porre a paro le prescrizioni del Talmud con quelle della legge di Mosè, questa dottrina non è mai stata ammessa dagli Ebrei siccome articolo di fede. Nelle cerimonie del culto giudaico è il Pentateuco che il ministro della religione presenta ai fedeli dicendo: “Ecco la legge che portò Mosè ai figliuoli di Israello.” Se il Talmud avesse formato un tutto colla legge di Mosè non si sarebbe mancato di unirlo a quella in siffatte funzioni.
“Negli articoli di fede del Maimonide, che ottennero l'approvazione di tutti gli Ebrei, si legge: “Tutta la legge che è oggi nelle nostre mani ci è stata trasmessa da Mosè.” Anche qui evidentemente non può trattarsi che del solo Pentateuco.
“Infine, in tutte le epoche, i più dotti rabbini si sono espressi liberamente sul conto del Talmud, ciò che non avrebbero osato fare se fosse stato parte della legge rivelata.
“Così Judas Levy, che fiorì nell'undecimo secolo, dichiara nel Cozri, che vi sono nel Talmud cose che già ai suoi tempi non si sarebbero scritte (84).
“Maimonide, nel Morè hanevohim, critica numerosi brani del Talmud, ed allorquando taluni zelanti vollero scomunicarlo, una folla di dotti ebrei alzò la voce per adottarne e difenderne le opinioni.
“Così Aben Ezra, Giuseppe Albo, e gran numero di altri dottori che meritarono il nome di sapienti, pur rendendo alle tradizioni, che si trovano nel Talmud, il tributo di rispetto che meritano, non hanno esitato a dichiarare che vi si contengono cose che non è possibile ammettere.”
Non si creda però che noi intendiamo invocare quanto siamo venuti finora dicendo per sostenere che dal Talmud non si può desumere un sicuro criterio per giudicare della moralità degli Ebrei. Lungi da noi siffatta idea.
Volemmo soltanto dire che coloro i quali asseriscono avere gli Ebrei egualmente autorevole il Pentateuco ed il Talmud sono in grande errore, siccome errerebbe chi asserisse che, pei Cristiani, il Vangelo e la Summa di San Tommaso hanno eguale valore.
Certamente non mancan Cristiani che non curano o non comprendono i sacri misteri della loro fede per correr dietro alle stupide fole di Maria Lateau (85) come non mancano Ebrei che trascurarono quasi il Pentateuco e le opere sublimi dei loro filosofi, dei loro pensatori per perdersi nelle quisquilie del Talmud.
Ma questo, ci si permetta dirlo, non prova nè contro gli Ebrei, nè contro i Cristiani, prova soltanto, per la millesima volta, una verità antica quanto il mondo: che ogni religione, come ogni nazione, come ogni partito conta infinito numero di... spiriti deboli.
Nè gli Ebrei potrebbero non aver in gran conto questo libro, che non soltanto fu il legame che li tenne uniti, durante le secolari persecuzioni di cui furono vittime, ma che giovò eziandio a conservare intatta la loro fede. Nessuno infatti potrà negare che questo commento minuziosissimo della legge fosse incontrastabilmente utile al Giudaismo, come quello che lo preservò da quelle grandi discussioni religiose che furono cagione di tanti scismi nelle altre credenze. Le religioni che, o non hanno, come il Giudaismo, un codice particolareggiato, o non obbediscono, come il Cattolicismo, all'autorità indiscutibile di un Supremo Gerarca, sono naturalmente soggette a suddividersi in un numero infinito di chiesuole, come avvenne del Protestantesimo, e come sarebbe avvenuto del Giudaismo, se il Talmud non vi avesse posto riparo, a tutto provvedendo, e realizzando, sin dal V secolo, l'ideale di moderni filosofi: la libertà nell'unità. Sicchè, in questo senso, ben può dirsi giusta e veritiera la parola del Talmud stesso: “Dio non ingiunse ad Israello tante leggi e tanti precetti che per renderlo felice” (86).
Il Talmud, ripetiamolo, è di somma autorità presso gli Ebrei, e noi, dopo aver mostrato che essi, pur avendolo e dovendolo avere in gran conto, apportarono nel suo studio quello spirito di libero esame, innato nel Giudaismo e da esso reso obbligatorio (87), che permette di sceverare il grano dal loglio, vogliamo ancora dimostrare due cose: che il Talmud non è legge di iniquità, siccome pretendono gli stolti, ma legge di amore, di carità, di tolleranza, e che se vi sono nel Talmud dei passi non pochi che contraddicono ed all'intonazione generale dell'opera, ed alla vera morale, ciò è facilmente spiegabile e giustificabile.
Prima per altro di entrare nello spinoso argomento, ci si conceda una dichiarazione. La Chiesa Cattolica ha condannato a parecchie riprese il Talmud (88). Nulla di più naturale che siffatta condanna.
Il Talmud, codice di una fede non cristiana, deve contenere e contiene massime, precetti, argomentazioni contrarie al Cristianesimo. Se altrimenti fosse, gli Ebrei sarebbero Cristiani e la questione sarebbe bella e terminata. A buon dritto adunque la Chiesa Cattolica condannava il Talmud siccome libro pernicioso alla Fede e noi faremmo opera stolta pretendendo scagionarlo da questo addebito.
Ciò che vogliamo provare è che la morale del Talmud non è punto diversa, nè sopratutto peggiore di quella che può trovarsi in qualsivoglia opera umana scritta nelle identiche condizioni di tempi, di luoghi, di costumi; ciò che ci preme constatare, non per artificio di polemica, ma per omaggio alla verità è che la legge talmudica non è legge di odio come volgarmente si crede, e che l'Ebreo non soltanto può restarvi fedele rimanendo in pari tempo ottimo cittadino (89), ma attinge da esso quelle virtù domestiche e sociali che sono base di ogni civile consorzio (90).
E questa avvertenza che qui facciamo, desideriamo che il signor lettore applichi a tutto il contesto di questo lavoruccio. Difendendo l'Ebreo, compiamo opera sociale, non religiosa, non sopratutto anticristiana.
Fra le principalissime accuse che si vanno continuamente movendo al Talmud vi è quella di eccitare l'animo degli Ebrei contro i Cristiani.
Chi si è fatto banditore di queste accuse? Il Talmud, lo sanno anche i bimbi, non venne mai sinora completamente tradotto, i numerosi estratti che se ne hanno sono per la maggior parte opere polemiche e quindi da accogliersi con prudente riserbo.
I traduttori erano in generale o ebrei rinnegati (91) o feroci nemici dell'Ebraismo da una parte, o dall'altra rabbini e dotti israeliti. Una traduzione imparziale non abbiamo e non si avrà mai, perchè nessun dotto, non mosso da spirito di parte o da sentimento religioso, potrebbe accingersi all'improba e semi-inutile fatica.
Aggiungasi a ciò che le diverse edizioni del Talmud sia per imperizia degli amanuensi, sia per ostacoli ed impedimenti frapposti dalle censure politiche ed ecclesiastiche, presentano notevoli differenze e varianti, sicchè il volere ristabilire il testo primitivo sembrò sino ai giorni nostri opera quasi impossibile (92).
Infine lo stile del Talmud è lungi dall'esser sempre piano e facile; le iperboli vi abbondano e se vi si leggono pensieri squisitamente gentili siccome quando per dimostrare come l'uomo sia cosmopolita dice che “la polve con cui fu plasmato conteneva gli atomi più delicati della polvere di tutto il mondo” (93) vi si trovano eziandio frasi siffattamente oscure da doversi ritenere inesplicabili. Queste per esempio: La migliore fra le donne è una maliarda (94), il miglior medico (ebreo) va all'Inferno (95).
Questo linguaggio figurato che domina sovente nel Talmud, e la confusione grandissima nella redazione di cui abbiamo tenuto parola, furon causa che il Talmud fosse spesse volte frainteso.
Si avverta altresì che il Talmud è in gran parte composto di discussioni fra dottori, ognuno dei quali sostiene opposte dottrine (96). Per mostrare quanto sia facile per avversari di mala fede snaturare il concetto di un libro di siffatta natura addurrò un esempio.
Nel 1879, alla Camera francese, il noto radicale Paul Bert sostenne che un celebre teologo e casuista francese, il padre Gury, appoggiandosi alla dottrina cattolica giustificava il furto.
Naturalmente l'asserzione fece chiasso. Il deputato Granier di Cassagnac padre volle andare a fondo della cosa, e cercato il passo incriminato dal Bert trovò che il padre Gury, risolvendo un caso di coscienza, ha proposto il seguente esempio.
Il pastorello Titiro credendosi condannato ingiustamente dal Tribunale ad una indennità verso il suo padrone, ha cercato di indennizzarsi con un furto segreto.
Il padre Gury espone dapprima la tesi di Titiro, conchiudente alla liceità del compenso. Dopo ciò reca la soluzione teologica, decidendo che quella compensazione è illecita, e che Titiro è obbligato alla restituzione. Nulla di più semplice, di più retto, di più naturale. Ma il signor Bert si era limitato a leggere dalla tribuna testualmente la tesi di Titiro, tacendo la soluzione del teologo, ed attribuendo al padre Gury precisamente la dottrina, che il dabben prete condannava.
Se questo fu possibile ai giorni nostri con un libro che come quello del padre Gury è scritto in una lingua accessibile a tutti e che è effettivamente diffusissimo, quanto più facile non sarà falsificare qualche brano del Talmud e fargli dire proprio il contrario di quanto era nell'intenzione dei compilatori?
Due esempi fra mille.
Si pretende che nel Talmud vi sia questo precetto: “Il migliore degli idolatri uccidilo.” Che il precetto manchi di carità e di tolleranza non vorremmo certamente negare, e dato proprio che lo si trovasse allo stato di precetto nel Talmud, non saremmo noi gli ultimi ad invocare i fulmini dell'opinione pubblica contro l'empio libro. Ma esiste proprio questa frase nel Talmud? Possiamo accertare che sì, e che essa si trova nel Talmud gerosolimitano alla fine del trattato dei Kidduscin, accanto proprio a quella testè citata che manda i medici all'inferno, ed a molte altre egualmente strane e bizzarre. Molte ipotesi furono messe innanzi per spiegare questa frase, e l'illustre Zunz concluse che il passo debba intendersi così: “Il migliore degli idolatri (parlando di un ebreo) dice uccidilo.” Ciò che sarebbe stata semplicemente una constatazione delle persecuzioni di cui gli Ebrei erano fatti segno da parte dei gentili, divenne in bocca ai nemici del Giudaismo, un feroce appello all'assassinio ed allo sterminio, fatto da quello stesso libro dove è invece sancita la massima: “Chi alza la mano contro il prossimo, quand'anche non lo batta, è chiamato colpevole (97).” Del resto volere basare una conclusione qualsiasi su qualche brano staccato del Talmud sarebbe cosa impossibile. Nessun uomo imparziale vorrà dire si debba interpretare alla lettera un libro in cui si trovano massime come questa: “Chiunque pronuncia una decisione al cospetto del suo maestro merita la morte (98).”
Un'altra accusa che si muove al Talmud e che è ripetuta, con non ammirabile unanimità, da tutti gli scrittori antisemitici a cominciare dal Wolf nella sua Biblioteca (99) e venendo giù giù fino agli ultimi libellisti, è che il Talmud insegni agli Ebrei: “Voi, voi siete degli uomini, ma gli altri popoli non sono tali.” Senza essere atroce come quello di cui ci siamo testè occupati, anche quest'altro passo sarebbe sufficientemente antisociale e ridicolo, sicchè si sarebbe non poco sorpresi di trovarlo in quello stesso libro dove sono pur scritte queste massime di assoluta tolleranza (100): “Un non israelita il quale si governi dietro la legge di Dio, acquistasi merito, niente meno di un sommo pontefice; imperciocchè la legge dice (101): L'uomo eseguendo le mie leggi si procura la vita; nè dice già i Sacerdoti, i Leviti, gli Israeliti, ma dice Adam l'uomo.”
“Benefica, o Signore, i buoni. I buoni è scritto e non gli Israeliti, i buoni quindi di tutte le nazioni (102).”
Per chiunque sia in buona fede, basta la citazione di questi passi tanto chiari, tanto espliciti, per far comprendere che in quello che nega la qualità di uomini ai non Israeliti deve essere incorso qualche errore di interpretazione; e l'errore c'è, ed evidente.
La proposizione che i non Israeliti non si chiamano uomini, si trova effettivamente nel Talmud (103), ma, isolandola dal suo contesto, la si riduce ad un senso che mai non ebbe nella mente di chi la dettava. Si sa che la legge mosaica (104) colpisce di impurità per sette giorni chiunque sia entrato in una abitazione ove si trovi un uomo morto. Ora un talmudista, volendo alleggerire questa prescrizione, disse che la era da ritenersi unicamente applicabile ai morti israeliti, i quali soltanto generavano impurità col loro contatto; i morti non israeliti non avendosi per gli effetti di siffatta legge a considerare siccome uomini. Questa opinione, tutta individuale, a proposito di una questione affatto bizantina, e rigettata, lo si noti, da tutti gli altri talmudisti (105), bastò, perchè da secoli si vada ripetendo che gli Ebrei, per obbedire al Talmud, devono considerare sè soli uomini ed avere in conto di bestie tutti i non ebrei (106).
Accusa altrettanto assurda e ridicola, quanto quella che si muove al Cristianesimo di aver negata l'anima alle donne, per ciò solo che Gregorio da Tours lasciò scritto nella sua Historia ecclesiastica, come nel concilio di Macon (a. 525) un Vescovo facesse la proposta, respinta dai suoi colleghi, non potersi la donna chiamar uomo, nè formar essa parte del genere umano!
Il Cristianesimo, che ha tra i suoi potissimi vanti di aver dato alla donna la parte che le spetta nel civile consorzio, è accusato di averle negata l'anima, il Talmudismo che eleva a massima il precetto: “Amato è l'uomo perchè fu creato ad immagine di Dio, amore straordinario gli fu manifestato perchè fu creato ad immagine di Dio” (107) è accusato di aver assimilato alle bestie la quasi totalità del genere umano.
Aberrazioni dell'odio e dell'intolleranza. Per aggiungere poi un'altra prova della spudorata mala fede di taluni avversari degli Ebrei, e della supina ignoranza di altri, dirò, che allorquando oggi ancora, si vogliono citare i due passi del Talmud, dei quali siamo venuti sinora discorrendo, si suole in entrambi tradurre la parola goim che vale idolatri o gentili, coll'altra cristiani, siccome fece anche poche settimane or sono un sedicente abate Chabauty nelle colonne dell'Antisémitique (108). Dimostreremo ora che la parola goim non deve mai intendersi applicata ai Cristiani ma, prima di farlo, vogliamo avvisare il signor Chabauty che i due passi incriminati, di cui ci siamo venuti sinora occupando, sono scritti entrambi nella prima metà del secondo secolo dell'èra nostra, in una epoca, cioè nella quale non si parlava ancora nè di Cristiani, nè di Cristianesimo, ed in cui le due religioni di Mosè e di Cristo confondevansi quasi ancora in una sola; e sono scritti appunto da quel Simeon ben Johai che, condannato a morte dalla tirannia pagana, si tenne per quattordici anni nascosto in una caverna, nutrendosi di erbe e di radice.
Se questo sapeva il signor Chabauty, traducendo goim per cristiani die' prova di impudente mala fede; se non lo sapeva, di supina ignoranza, perocchè, lasciando anche in disparte l'osservazione, certo non trascurabile, della poca importanza che in quell'epoca aveva il Cristianesimo, non occorre davvero grande acume per comprendere che se Simeon ben Johai si lasciò trasportare dall'odio, è ben naturale che i suoi strali fossero diretti agli atroci suoi persecutori e non a coloro che in quei tempi dividevano cogli Ebrei i dolori del martirio.
Parrebbe quindi sprecata ogni parola per dimostrare che, egli almeno, colla parola goim non potè alludere ai Cristiani (109).
Siccome però questa parola, che alla lettera significa stranieri, viene usata nel Talmud, anche da scrittori ben più moderni che non sia Rabbi Simeon ben Johai, e non mai in senso di benevolenza, così ci converrà soffermarvici sopra alquanto, per dimostrare falsa e calunniosa l'opinione di quei nemici degli Ebrei che sostennero doversi questa parola tradurre con quella di cristiano.
Se si ammettesse questa interpretazione sarebbe facile scavare nel Talmud non poche massime e sentenze dove si parla del goi, e farsene un'arma per dimostrare l'ebreo nemico delle popolazioni in mezzo a cui vive.
Sventuratamente pei sobillatori l'interpretazione che essi vorrebbero dare alla parola goi (plur. goim) non regge alla critica.
Il Talmud, considerato nello spirito che lo informa, non è intollerante, neppur verso la idolatria: “Gli stranieri fuori di Palestina non sono idolatri, ma essi seguono semplicemente i costumi de' padri loro.” (110), e, come corollario di questa massima, l'altra: “L'esercizio della carità e della giustizia son le uniche condizioni che il Giudaismo impone per l'eterna salute” (111). Tanto meno quindi esso può essere intollerante verso i monoteisti a qualunque religione appartengano, ed effettivamente i dottori del Talmud fanno enorme differenza fra idolatri e monoteisti. È idolatra chiunque non rispetti i sette precetti imposti da Dio ai figliuoli di Mosè (112):
1. Costituirsi tribunali.
2. Non bestemmiare.
3. Non servire ad idoli.
4. Non fornicare.
5. Non versare sangue.
6. Non rubare.
7. Non mangiar carne strappata da un animale ancora vivente.
Chiunque invece ottempera a questi precetti si chiama giudeo: “Chi rinnega l'idolatria si chiama giudeo” (113). Precetto questo che basterebbe a far chiaro qual concetto di alta tolleranza abbia il Giudaismo per tutte le religioni monoteistiche. Basta non essere idolatra per meritarsi quel nome di giudeo, di cui la stolta malignità delle plebi fece una ingiuria, ma che è, naturalmente, la più grande espressione di benevolenza che si possa trovare nel Talmud. E tanto differenziano gli Ebrei fra idolatri e monoteisti che Maimonide, il massimo fra i loro filosofi, potè ridurre ad assioma il principio, essere il Cristianesimo e l'Islamismo mezzo di preparazione all'êra messiaca.
Da quanto si è fin qui detto parrebbe già evidente non doversi mai in nessun caso la parola goi applicare ai Cristiani, ma ne piace far più chiara siffatta dimostrazione, esaminando la questione sotto un altro aspetto.
La Mischnà annovera tra le feste dei Goim le Calende ed i Saturnali. Ci volle davvero nel Bustorfio singolar mala fede, per tradurre nel suo Lessico Talmudico (colonna 2043), in questa guisa le parole della Mischnà. Haec autem sunt festa Christianorum (!) Calendæ, Saturnalia, Quadragesima. Che le Calende ed i Saturnali non siano state mai feste cristiane sanno anche i bimbi, nè vi ha chi ignori come i primi scrittori cristiani stigmatizzassero con santo zelo gli osceni riti dei saturnali pagani.