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CAPITOLO UNO

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Reid Lawson sbirciò attraverso le veneziane del suo studio per la decima volta in meno di due minuti. Stava diventando ansioso; l’autobus sarebbe dovuto già arrivare.

Il suo studio era al secondo piano, il più piccolo delle tre camere della loro nuova casa a Spruce Street in Alexandria, Virginia. Era un contrasto piacevole rispetto allo sgabuzzino stretto e soffocante che aveva usato come ufficio nel Bronx. Aveva già tolto dalle scatole metà dei suoi averi; il resto era ancora chiuso nei cartoni sparsi per la stanza. Le librerie erano state montate ma i libri erano impilati in ordine alfabetico sul pavimento. Le uniche cose che si era preso il tempo per sistemare e organizzare adeguatamente erano la sua scrivania e il computer.

Reid si era detto che quello sarebbe stato il giorno in cui finalmente avrebbe fatto ordine, quasi un mese intero dopo aver traslocato, e in cui avrebbe finito di disimballare l’ufficio.

Era riuscito ad aprire una scatola. Almeno era un inizio.

L’autobus non è mai in ritardo, pensò. È sempre qui tra le tre e ventitré e le tre e venticinque. Sono le tre e trentuno.

Le chiamo.

Prese il cellulare dalla scrivania e compose il numero di Maya. Mentre squillava si aggirò avanti e indietro per la stanza, cercando di non pensare a tutte le cose tremende che potevano essere accadute alle sue figlie nel tragitto tra la scuola e la casa.

La chiamata finì nella segreteria.

Allora fece di corsa le scale fino all’ingresso e si infilò una giacca leggera; il mese di marzo in Virginia era decisamente più mite che a New York, ma era comunque fresco. Con le chiavi dell’auto in mano, inserì il codice di sicurezza di quattro cifre sul pannello a muro per armare il sistema d’allarme in modalità ‘fuori di casa’. Conosceva il percorso preciso che compiva l’autobus, poteva seguirlo fino al liceo se necessario, e…

Non appena aprì la porta di casa, lo scuolabus giallo brillante si fermò con un sibilo davanti al suo vialetto.

“Beccato,” mormorò Reid. Non poteva ritornare dentro. Lo avevano già notato di sicuro. Le sue due figlie adolescenti erano uscite dal bus e stavano attraversando il marciapiede. Mentre il mezzo si allontanava raggiunsero la porta che lui stava bloccando.

“Ciao, ragazze,” disse lui il più allegramente possibile. “Come è andata la scuola?”

La figlia maggiore, Maya, gli lanciò uno sguardo sospettoso incrociando le braccia sul petto. “Dove stai andando?”

“Uhm… a prendere la posta,” rispose.

“Con le chiavi della macchina?” La ragazza gli indicò il pugno, nel quale stringeva le chiavi del SUV argentato. “Raccontane un’altra.”

Già, pensò lui. Beccato. “L’autobus era in ritardo. E ti ricordi quello che ho detto, che se siete in ritardo dovete chiamare. E perché non rispondevi al telefono? Ho provato a chiamare…”

“Sei minuti, papà.” Maya scosse la testa. “Sei minuti non è ‘ritardo’. Sei minuti è il traffico. C’era un ingorgo sulla Vine.”

Reid si fece da parte per lasciarle entrare in casa. La figlia più giovane, Sara, gli diede un rapido abbraccio e gli mormorò: “Ciao, papà.”

“Ciao, tesoro.” Richiuse la porta dietro di loro, girò la chiave e inserì di nuovo il codice nel sistema d’allarme prima di rigirarsi verso Maya. “Traffico o meno, voglio che tu mi faccia sapere quando siete in ritardo.”

“Sei nevrotico,” borbottò la ragazza.

“Chiedo scusa?” Reid sbatté le palpebre in un’espressione sorpresa. “Sembra che tu stia confondendo la nevrosi con la preoccupazione.”

“Oh, per favore,” ribatté Maya. “Non ci hai perse di vista per settimane. È così da quando sei tornato.”

Come al solito aveva ragione. Reid era sempre stato un padre protettivo, e lo era diventato solo di più dopo la morte della moglie e loro madre, Kate, due anni prima. Ma nelle ultime quattro settimane, si era trasformato in un genitore davvero assillante, opprimente e (se doveva essere sincero) forse persino un po’ insopportabile.

Ma non aveva intenzione di ammetterlo.

“Mia cara, dolce bambina,” la rimproverò, “entrando nell’età adulta, dovrai imparare una dura verità, e cioè che a volte si compiono degli sbagli. E in questo momento, tu ti stai sbagliando.” Sorrise, ma lei non lo fece. Era nella natura di Reid cercare di allentare le tensioni con le figlie usando il senso dell’umorismo, ma Maya non ne voleva sapere.

“Come credi.” La ragazza marciò nell’ingresso ed entrò in cucina. Aveva sedici anni, ed era estremamente intelligente per la sua età, a volte quasi troppo per il suo stesso bene. Aveva gli stessi capelli scuri di Reid e una propensione per i discorsi drammatici, ma di recente sembrava aver guadagnato un’inclinazione per la rabbia adolescenziale, o almeno un certo malumore… probabilmente causata da una combinazione della costante presenza del padre e delle informazioni sbagliate sugli eventi del mese prima.

Sara, la più giovane delle due, salì su per le scale. “Vado a fare i compiti,” mormorò.

Rimasto da solo nell’ingresso, Reid si appoggiò con un sospiro a una parete bianca. Gli dispiaceva da morire per le sue ragazze. Sara aveva quattordici anni, e di solito era dolce e vivace, ma ogni volta che la conversazione si spostava su ciò che era successo a febbraio si chiudeva in se stessa oppure lasciava in fretta la stanza. Non voleva parlarne in alcun modo. Solo qualche giorno prima, lui aveva cercato di convincerla a vedere uno psicologo, una terza persona neutrale con cui avrebbe potuto confidarsi. (Ovviamente, doveva essere un dottore affiliato alla CIA.) Sara si era rifiutata con un semplice e succinto “no, grazie” ed era scappata dalla stanza prima che Reid potesse dire un’altra parola.

Odiava nascondere la verità dalle sue figlie, ma era necessario. Al di fuori dell’agenzia e dell’Interpol, nessuno poteva conoscere la verità: che poco prima di un mese prima aveva recuperato una parte dei suoi ricordi come agente della CIA con lo pseudonimo di Kent Steele, anche noto ai colleghi e ai nemici come Agente Zero. Un dispositivo sperimentale di soppressione della memoria nella sua testa gli aveva fatto dimenticare ogni cosa su Kent Steele e sul suo lavoro come agente per quasi due anni, fino a quando l’impianto non gli era stato strappato dal cranio.

Non aveva ancora recuperato la maggior parte dei suoi ricordi come Kent. Erano là dentro, chiusi da qualche parte nelle profondità del suo cervello, ma gocciolavano come da un rubinetto che perdeva, di solito quando erano smossi da uno spunto verbale o visivo. La brutale rimozione del soppressore di memoria aveva fatto qualcosa al suo sistema limbico che aveva impedito ai ricordi di tornare tutti in una volta, e per lo più Reid ne era felice. In base a ciò che sapeva della sua vita come Agente Zero, non era certo di volerli tutti indietro. Il suo maggior timore era che avrebbe potuto ricordare qualcosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno, un doloroso rimorso o un gesto orrendo con cui Reid Lawson non sarebbe mai riuscito a convivere.

Oltretutto, era stato molto impegnato dopo gli eventi di febbraio. La CIA lo aveva aiutato a trasferire la sua famiglia; dopo il ritorno negli Stati Uniti, lui e le ragazze erano stati mandati ad Alexandria in Virginia, poco distante da Washington, DC. L’agenzia lo aveva aiutato a ottenere un lavoro come professore associato all’università di Georgetown.

Da allora si era scatenato un turbine di attività: aveva dovuto iscrivere le ragazze a una scuola nuova, ambientarsi nel suo nuovo lavoro, e trasferirsi nella casa nuova in Virginia. Ma lui aveva creato ancora più lavoro per sé, contribuendo alla propria distrazione. Aveva verniciato stanze. Aveva aggiornato gli elettrodomestici. Aveva acquistato nuovi mobili e abiti per la scuola delle ragazze. Poteva permetterselo, la CIA lo aveva ricompensato con un grosso bonus per il suo coinvolgimento nello smantellamento dell’organizzazione terroristica chiamata Amun. Era più di quanto guadagnasse all’anno come professore. Gli stavano consegnando il denaro in rate mensili per evitare i controlli. Gli assegni arrivavano nel suo conto in banca come parcelle di consulenza da una finta casa editrice che dichiarava di essere in procinto di creare una serie di testi scolastici di storia.

Tra il denaro e la grande quantità di tempo libero—stava facendo solo qualche lezione alla settimana al momento—Reid si teneva più impegnato possibile. Perché fermarsi anche solo per qualche istante significava pensare, e pensare significava riflettere, non solo sulla sua memoria frammentata, ma su altre cose ugualmente spiacevoli.

Come i nove nomi che aveva memorizzato. I nove volti che aveva studiato. Le nove vite che erano andate perdute per via del suo fallimento.

“No,” mormorò a bassa voce, da solo nell’ingresso della sua nuova casa. “Non farti questo.” Non voleva ripensarci. Invece andò in cucina, dove Maya stava frugando nel frigo alla ricerca di qualcosa da mangiare.

“Credo che ordinerò della pizza,” annunciò lui. Quando Maya non rispose, aggiunse: “Che cosa ne pensi?”

La figlia chiuse il frigo con un sospiro e vi si appoggiò contro. “Va bene,” rispose semplicemente. Poi si guardò attorno. “La cucina è più bella. Mi piace il lucernario. Anche il cortile è più grande.”

Reid sorrise. “Stavo parlando della pizza.”

“Lo so,” replicò lei scrollando le spalle. “È solo che ultimamente sembri preferire evitare l’argomento, e quindi ho pensato di fare lo stesso.”

L’uomo fece bruscamente retromarcia di fronte alla sfrontatezza della figlia. In più di un’occasione la ragazza aveva cercato di farsi raccontare cosa era successo quando era sparito, ma la conversazione finiva sempre quando Reid prendeva a insistere che la sua storia di copertura era la pura verità. Maya era furiosa perché sapeva che le mentiva. Lasciava cadere l’argomento per una settimana circa e poi il circolo vizioso ricominciava.

“Non c’è bisogno che ti comporti così, Maya,” disse.

“Vado a vedere come sta Sara.” La figlia girò sui tacchi e uscì dalla cucina. Un momento più tardi la udì salire rumorosamente le scale.

Si strinse la base del naso in preda alla frustrazione. Era in momenti come quello che gli mancava di più Kate. Lei aveva sempre saputo che cosa dire. Avrebbe saputo come gestire due adolescenti che avevano subito un trauma come le sue ragazze.

Era sempre meno convinto di voler continuare a mentirgli. Non riusciva a costringersi a recitare un’ennesima volta la sua storia di copertura, la bugia fornita dalla CIA perché potesse spiegare alla famiglia e ai colleghi dove fosse svanito per una settimana. La storia era che degli agenti federali si erano presentati alla sua porta, richiedendo la sua assistenza in un caso importante. In quanto professore dell’Ivy League, Reid era stato nella particolare posizione di poterli aiutare con delle ricerche. Per quanto le ragazze ne sapevano, aveva passato la maggior parte di quella settimana in una sala conferenze, a sgobbare su libri e fissando uno schermo del computer. Era tutto quello che aveva il permesso di dire, e non poteva condividere nessuno dettagli con loro.

Di certo non poteva dir loro del suo passato clandestino come agente Zero, né che aveva aiutato a fermare l’attentato terroristico di Amun al World Economic Forum a Davos, in Svizzera. Non poteva dir loro che aveva ucciso da solo più una decina di persone nel corso di pochi giorni, ognuna di esse un noto terrorista.

Doveva attenersi alla sua vaga storia di copertura, non solo non creare problemi alla CIA, ma per la sicurezza delle sue ragazze. Durante il suo spericolato viaggio per tutta l’Europa, le sue due figlie erano state costrette a scappare da New York, avevano passato da sole qualche giorno e poi erano state ritrovate dalla CIA e portate in una casa sicura. Erano state quasi rapite da un paio di estremisti di Amun, un pensiero che gli faceva ancora rizzare i peli sul collo, perché significava che il gruppo terroristico aveva membri negli Stati Uniti. Sicuramente anche quello aveva contribuito ad accrescere la sua recente natura iperprotettiva.

Alle ragazze era stato detto che i due uomini che avevano cercato di avvicinarle erano membri di una gang locale che stavano rapendo bambini nella zona. Sara non era parsa convinta dalla storia, ma l’aveva accettata perché credeva che il padre non le avrebbe mai mentito (cosa che, ovviamente, aveva fatto sentire Reid persino peggio). Ciò, in aggiunta alla sua totale avversione nei confronti dell’argomento, avevano reso facile aggirare la questione e andare avanti con la normalità.

Maya, invece, nutriva anche serissimi dubbi. Non solo era abbastanza furba da sapere che era una storia impossibile, ma era stata in contatto con Reid tramite Skype durante le sue traversie e apparentemente aveva captato abbastanza informazioni per fare qualche ipotesi. Era anche stata testimone delle morti dei due estremisti per mano dell’agente Watson, e da allora non era stata più la stessa.

Reid non sapeva cosa fare, a parte cercare di andare avanti con le loro vite con più normalità possibile.

Prese il cellulare e chiamò la pizzeria lungo la strada, per ordinare due pizze medie, una con formaggio extra (la preferita di Sara) e l’altra alla salsiccia e peperoni verdi (la preferita di Maya).

Mentre riappendeva, udì dei passi per le scale. Maya stava tornando in cucina. “Sara fa una dormita.”

“Di nuovo?” Sembrava che ultimamente la figlia minore dormisse davvero tanto durante il giorno. “Non dorme di notte?”

Maya scrollò le spalle. “Non lo so. Magari dovresti chiederglielo.”

“Ci ho provato. Non mi vuol dire niente.”

“Forse perché non capisce che cosa è successo,” ipotizzò la ragazza.

“Ho spiegato a tutte e due che cosa è successo.” Non farmelo ripetere, pensò lui disperatamente. Ti prego, non costringermi di nuovo a mentirti in faccia.

“Forse è spaventata,” insistette Maya. “Forse perché sa che suo padre, di cui dovrebbe potersi fidare, le sta mentendo…”

“Maya Joanne,” l’avvisò Reid, “è meglio che scegli con cura le tue prossime parole…”

“E forse non è la sola!” Sembrava che Maya non volesse fermarsi. Non quella volta. “Forse anche io ho paura.”

“Siamo al sicuro qui,” disse fermamente Reid, cercando di sembrare convincente nonostante non ci credesse del tutto nemmeno lui stesso. Gli stava salendo un’emicrania nella parte anteriore della testa. Prese un bicchiere dallo stipo e lo riempì con l’acqua fredda dal rubinetto.

“Già, e credevamo di essere al sicuro a New York,” ribatté Maya. “Magari se sapessimo che cosa sta succedendo, e in che cosa sei stato veramente coinvolto, le cose sarebbero più semplici. Ma no.” Non importava cosa stesse spingendo la ragazza, se l’improvvisa riluttanza del padre a lasciarle sole anche per pochi minuti o i suoi stessi sospetti. Lei voleva delle risposte. “Tu sai maledettamente bene che cosa ci è successo. Ma noi non abbiamo nessuna idea di cosa è successo a te!” Ormai stava quasi gridando. “Dove sei andato, che cosa hai fatto, come ti sei ferito…”

“Maya, giuro che…” Reid appoggiò il bicchiere sul bancone e puntò un dito verso di lei in segno di avvertimento.

“Giuri cosa?” sbottò la ragazza. “Di dire la verità? Allora dimmela!”

Non posso dirti la verità!” urlò lui. Nell’esplosione alzò le mani sopra i fianchi. Nell’impeto fece cadere il bicchiere d’acqua dal ripiano.

Reid non ebbe il tempo di pensare o riflettere. I suoi istinti presero il sopravvento e in un gesto rapido ed elegante piegò le ginocchia e afferrò il bicchiere in volo prima che potesse atterrare sul pavimento.

Emise un sospiro pentito mentre l’acqua ondeggiava senza che ne cadesse per terra una sola goccia.

Maya lo fissò con occhi sgranati, anche se lui non avrebbe saputo dire se era più sorpresa dalle sue parole o dall’azione. Era la prima volta che lo vedeva muoversi in quella maniera, e anche la prima volta che lui confermava, ad alta voce, che la storia che gli aveva raccontato forse non era tutta la verità. Non importava che lei lo avesse saputo, né che lo avesse solo sospettato. Gli era sfuggito e non poteva più riprenderselo indietro.

“Presa fortunata,” disse in fretta.

Con lentezza Maya incrociò le braccia sul petto, con un sopracciglio alzato e le labbra strette insieme. Reid conosceva quello sguardo, era un’espressione accusatoria che aveva ereditato dalla madre. “Potrai aver ingannato Sara e la zia Linda, ma io non ci casco, nemmeno per un secondo.”

Lui chiuse gli occhi e sospirò. La figlia maggiore non avrebbe lasciato perdere, quindi abbassò la voce e parlò con attenzione.

“Maya, ascolta. Tu sei molto intelligente, di sicuro abbastanza da farti una tua idea su ciò che  è successo,” disse. “La cosa più importante che devi capire è che potrebbe essere pericoloso per te conoscere delle informazioni specifiche. Il rischio potenziale che avete corso quella settimana che sono stato via, potrebbe durare sempre se sapeste tutto. Non posso dirti se hai ragione o torto. Non confermerò né negherò nulla. Quindi per ora, diciamo solo che… puoi credere a qualsiasi ipotesi tu abbia fatto, basta che stai attenta a tenertela per te.”

Maya annuì lentamente. Lanciò un’occhiata lungo il corridoio per accertarsi che Sara non fosse lì prima di dire: “Non sei solo un professore. Stai lavorando per qualcuno, a livello governativo, l’FBI forse, o la CIA…”

“Gesù, Maya, ho detto di tenertelo per te!” mugugnò Reid.

“La faccenda delle Olimpiadi Invernali, e il forum a Davos,” insistette lei. “Tu eri coinvolto.”

“Te l’ho detto, non confermerò né negherò niente…”

“E il gruppo terroristico di cui continuano a parlare al telegiornale, Amun. Hai aiutato a fermarlo?”

Reid si voltò dall’altra parte, guardando fuori dalla finestrella che dava sul loro cortile. A quel punto era troppo tardi. Non serviva che confermasse o negasse. Lei glielo aveva letto in faccia.

“Questo non è un gioco, Maya. È una faccenda seria, e se le persone sbagliate lo sapessero…”

“Mamma lo sapeva?”

Di tutte le domande che poteva fargli, quella era la più complicata. Rimase in silenzio per un lungo momento. Ancora una volta la sua figlia maggiore si era dimostrata furba, forse persino troppo per il suo stesso bene.

“Non credo,” rispose piano.

“E tutti i viaggi che facevi prima,” continuò Maya. “Non erano conferenze e lezioni in altri college, vero?”

“No. Non lo erano.”

“Poi ti sei interrotto per un po’. Hai smesso dopo… dopo che la mamma… ?”

“Sì. Ma poi hanno avuto di nuovo bisogno di me.” C’era abbastanza verità in quella bugia che gli sembrava di non mentire, e sperava che avrebbe saziato la curiosità della figlia.

Si rivoltò verso di lei. La ragazza stava fissando le piastrelle del pavimento, il volto segnato da un cipiglio. Era ovvio che aveva molte altre domande. Reid sperò che non le facesse.

“Un’ultima domanda.” La sua voce era quasi un sussurro. “Questa storia ha qualcosa a che vedere con… con la morte della mamma?”

“Oddio, no, Maya. Certo che no.” Reid attraversò in fretta la stanza e la strinse forte in un abbraccio. “Non pensarci nemmeno. Quello che è successo alla mamma è stato un problema di salute. Avrebbe potuto accadere a chiunque. Non è stato… non è stato per questo.”

“Credo di averlo saputo,” disse lei a bassa voce. “Ma dovevo chiedertelo…”

“Va tutto bene.” Era l’ultima cosa che voleva che la ragazza pensasse, che la morte di Kate fosse in qualche modo legata alla vita segreta in cui era coinvolto.

Qualcosa gli attraversò la mente, una visione. Una memoria del passato.

Una cucina familiare. La loro casa in Virginia, prima di trasferirsi a New York. Prima che lei morisse. Kate è davanti a te, bella proprio quanto ricordi, ma ha le sopracciglia aggrottate e il suo sguardo è duro. È arrabbiata. Sta gridando. Indica con le mani qualcosa sopra il tavolo…

Reid indietreggiò, liberando Maya dall’abbraccio mentre il vago ricordo gli riaccendeva l’emicrania nella fronte. A volte il suo cervello cercava di ricordare certi eventi del passato che erano ancora sepolti, e il recupero forzato gli lasciava un vago mal di testa nella parte anteriore del cranio. Ma quella volta era stato diverso, strano; il ricordo era stato di Kate e di un qualche litigio che lui non ricordava di aver avuto.

“Papà, stai bene?” chiese Maya.

All’improvviso squillò il campanello, facendoli sobbalzare entrambi.

“Uhm, sì,” mormorò lui. “Sto bene. Questa deve essere la pizza.” Guardò l’orologio e si accigliò. “Sono stati molto veloci. Torno subito.” Attraversò l’ingresso e guardò attraverso lo spioncino. Fuori c’era un giovane uomo con la barba scura e uno sguardo vacuo, che indossava una maglietta polo rossa con il logo della pizzeria.

Nonostante ciò, Reid si lanciò uno sguardo alle spalle per accertarsi che Maya non stesse guardando, e poi infilò una mano nel giubbotto di pelle marrone scuro appeso a un gancio vicino la porta. Nella tasca interna c’era una Glock 22 carica. Tolse la sicura e se la nascose dietro i pantaloni prima di aprire la porta.

“Consegna per Lawson,” disse con voce monotona il fattorino della pizza.

“Sì, sono io. Quanto devo?”

L’uomo strinse le due scatole con una mano mentre tendeva l’altra verso la tasca di dietro. Istintivamente Reid fece lo stesso.

Notò un movimento con la coda dell’occhio e spostò lo sguardo sulla sinistra. Un uomo con un taglio militare stava attraversando in fretta il suo cortile, ma più importante ancora era il fatto che portava una pistola nella fondina al fianco, e aveva la mano destra sul calcio.

Obiettivo Zero

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