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CAPITOLO TRE
Оглавление“Come si sente stasera, signore?” chiese educatamente l’infermiera del turno di notte entrando nella camera d’ospedale. Rais sapeva che si chiamava Elena ed era svizzera, anche se gli parlava in un inglese accentato. Era minuta e giovane, molti l’avrebbero definita persino attraente, ed era piuttosto allegra.
Rais non disse nulla in risposta. Non lo faceva mai. Si limitò a fissarla mentre lei appoggiava una tazza di plastica sul suo comodino e gli controllava con attenzione le ferite. Era consapevole che l’allegria serviva a compensare la paura. Era ovvio che non le piacesse stare in quella stanza insieme a lui, nonostante le due guardie armate alle sue spalle, che guardavano ogni sua mossa. Non era felice di curarlo, né di parlare con lui.
Nessuno lo era.
L’infermiera, Elena, ispezionò con cautela le sue ferite. Era ovvio che fosse nervosa standogli tanto vicina. Sapevano tutti che cosa aveva fatto, che aveva ucciso in nome di Amun.
Sarebbero molto più spaventati se sapessero quante persone ho ammazzato, pensò sarcastico.
“Sta guarendo bene,” gli stava dicendo. “Più velocemente del previsto.” Glielo ripeteva ogni sera, cosa che lui interpretava come un modo per dire: “Con un po’ di fortuna te ne andrai presto.”
Non erano buone notizie per Rais, perché quando finalmente fosse stato abbastanza in salute da andarsene, di certo sarebbe stato mandato in un orrendo e squallido buco scavato nella terra, una prigione segreta della CIA nel deserto, per subire nuovi strazi mentre lo torturavano per ottenere informazioni.
In quanto Amun, noi sopportiamo. Era stato il suo mantra per più di un decennio della sua vita, ma non era più così. Amun non esisteva più, per quanto ne sapeva; il piano a Davos era fallito, i suoi capi erano stati imprigionati o uccisi, e ogni organo di polizia al mondo sapeva del marchio, il glifo di Amun che i suoi membri si erano bruciati nella pelle. Rais non aveva il permesso di guardare la televisione, ma captava notizie dalle sue guardie armate, che chiacchieravano spesso (e a lungo, con sua grande irritazione).
Lui stesso si era tagliato via il marchio dalla pelle prima di essere portato all’ospedale a Sion, ma alla fine era stato tutto inutile; sapevano chi era e almeno una parte di ciò che aveva fatto. Nonostante ciò, l’irregolare cicatrice rosata sul braccio dove un tempo aveva avuto il marchio era un perpetuo ricordo che Amun non esisteva più, e quindi sembrava solo giusto che il mantra cambiasse.
Io sopporto.
Elena prese la tazza di plastica, piena di acqua fredda e con una cannuccia. “Vuole bere un po’?”
Rais non disse nulla, ma si sospinse in avanti e aprì le labbra. La donna guidò con cautela la cannuccia verso di lui, tenendo le braccia completamente estese, i gomiti rigidi e il corpo reclinato all’indietro. Era spaventata; quattro giorni prima l’assassino aveva tentato di mordere il dottor Gerber. Gli aveva solo graffiato il collo con i denti, non lo aveva nemmeno fatto sanguinare, ma il gesto gli aveva fatto ricevere un pugno alla mascella da una delle guardie.
Quella volta non cercò di fare nulla. Prese lunghe e lente sorsate attraverso la cannuccia, godendosi la paura della giovane donna e la tensione dei due agenti di polizia alle sue spalle. Quando ebbe bevuto abbastanza, si sdraiò di nuovo. Lei emise un percettibile sospiro di pensiero.
Io sopporto.
Aveva sopportato molto nelle ultime quattro settimane. Aveva subito una nefrectomia per rimuovere un rene perforato e un secondo intervento chirurgico per estrarre una parte del suo fegato lacerato. Poi c’era stata una terza procedura per accertarsi che nessuno degli altri organi vitali fosse danneggiato. Era rimasto diversi giorni in terapia intensiva prima di essere trasferito nel reparto di chirurgia, ma non aveva mai lasciato il letto al quale era ammanettato per entrambi i polsi. Gli infermieri lo giravano, gli cambiavano la padella e lo tenevano più comodo possibile, ma non aveva il permesso di sollevarsi, di alzarsi e di muoversi di sua volontà.
Le sette ferite da taglio sulla sua schiena e quella sul suo petto erano state suturate e, come Elena, l’infermiera notturna, gli ricordava di continuo, stavano guarendo bene. Tuttavia, non c’era molto che i dottori potessero fare per i danni ai nervi. A volte tutta la spina dorsale gli si intorpidiva fino alle spalle e di tanto in tanto persino fino ai bicipiti. Non sentiva nulla, come se quelle parti del suo corpo fossero state di qualcun altro.
Altre volte si svegliava da un sonno profondo con un urlo in gola e un dolore bruciante che lo attraversava come una tempesta di lampi. Quegli attacchi non duravano mai a lungo, ma erano acuti, intensi e si ripetevano a intervalli irregolari. I dottori li definivano “dolori neuropatici”, un effetto collaterale che poteva capitare a chi aveva subito danni ai nervi tanto estesi. Gli avevano assicurato che spesso si attenuavano e sparivano del tutto, ma non gli avevano potuto dire quando sarebbe successo. Invece lo avevano informato che era stato fortunato a non aver riportato danni alla spina dorsale, e ad essere sopravvissuto alle sue ferite.
Già, fortunato, pensò amaramente. Fortunato di essere in via di guarigione, solo per finire sepolto in una prigione segreta della CIA. Fortunato che tutto ciò per cui aveva lavorato gli fosse stato strappato in un solo giorno. Fortunato ad essere stato sconfitto non solo una volta, ma due, da Kent Steele, un uomo che disprezzava e odiava con ogni fibra del suo essere.
Io sopporto.
Prima di lasciare la sua camera, Elena ringraziò i due agenti in tedesco e promise a entrambi di portar loro del caffè quando fosse tornata più tardi. Una volta che si fu allontanata, gli uomini riassunsero le loro posizioni fuori dalla porta, che era sempre aperta, e ripresero la loro conversazione, qualcosa su una recente partita di calcio. Rais conosceva bene il tedesco, ma i dettagli del dialetto svizzero-tedesco e la velocità con cui parlavano a volte lo eludevano. Gli agenti del turno di giorno tendevano a parlare in inglese, ed era grazie a loro che otteneva la maggior parte delle notizie su ciò che succedeva fuori dalla sua stanza d’ospedale.
Entrambi gli uomini erano membri dell’Ufficio Federale della Polizia Svizzera, che aveva dato ordini che avesse due guardie davanti alla sua porta, ventiquattro ore al giorno. Facevano turni da otto ore, con agenti del tutto diversi il venerdì e nel weekend. Ce n’erano sempre due, di continuo; se un agente doveva usare il bagno o prendere da mangiare, prima doveva chiamare una delle guardie di sicurezza dell’ospedale, e poi doveva aspettare il suo arrivo. La maggior parte dei pazienti nelle sue condizioni e a quello stadio avanzato di guarigione di solito era trasferito a un centro traumatologico di livello inferiore, ma Rais era rimasto all’ospedale. Era una struttura più sicura, con i suoi reparti chiusi a chiave e le guardie armate.
Ce n’erano sempre due. Sempre. E Rais aveva deciso che li avrebbe sfruttati per i suoi scopi.
Aveva avuto molto tempo per progettare la sua fuga, in particolare negli ultimi giorni, quando avevano iniziato a diminuirgli le dosi di tranquillanti e aveva ripreso a pensare lucidamente. Aveva preso in considerazione molti scenari diversi, analizzandoli ancora e ancora. Aveva memorizzato spostamenti e origliato conversazioni. Non mancava molto perché lo dimettessero, era al massimo una questione di giorni.
Doveva agire, e aveva deciso che lo avrebbe fatto quella sera.
Gli agenti avevano abbassato la guardia nel corso delle settimane in cui erano stati assegnati alla sua porta. Lo chiamavano ‘terrorista’ e sapevano che era un assassino, ma a parte il piccolo incidente con il dottor Gerber di qualche giorno prima, Rais non aveva fatto altro che stare sdraiato in silenzio, quasi immobile, permettendo allo staff di svolgere i suoi compiti. Se non c’era nessuno nella stanza con lui, quasi non gli prestavano attenzione al di là dell’occasionale sguardo.
Non aveva cercato di mordere il dottore per ripicca o cattiveria, ma per necessità. Gerber era stato chino su di lui, intento a ispezionare la ferita sul braccio doveva aveva tagliato via il marchio di Amun, quando la tasca dl camice bianco del dottore gli aveva sfiorato le dita della mano ammanettata. Rais si era scagliato in avanti, serrando i denti, e quando gli aveva sfiorato il collo l’uomo era saltato indietro per la paura.
E una penna stilografica era rimasta stretta nel pugno dell’assassino.
Uno degli agenti di turno gli aveva sferrato un violento pugno in faccia per quell’atto, e nel momento in cui il colpo era atterrato, Rais aveva infilato la penna sotto le lenzuola, nascondendola sotto la coscia sinistra. Era rimasta lì per tre giorni, celata sotto la coperta, fino alla notte prima. L’aveva tirata fuori mentre le guardie chiacchieravano nel corridoio. Con una mano, senza poter vedere che cosa stava facendo, aveva separato le due metà della penna e aveva rimosso la cartuccia, lavorando piano e con cura per evitare di versare l’inchiostro. La penna era un classico modello con un’acuminata punta d’oro. Aveva riposto quella metà sotto le lenzuola. L’altra metà aveva una clip da taschino in oro, che aveva forzato con attenzione con il pollice fino a staccarla.
La manetta al polso sinistro gli lasciava meno di trenta centimetri di mobilità al braccio, ma se stendeva la mano al limite riusciva a raggiungere l’estremità del comodino. Il ripiano era un semplice pannello liscio di compensato, ma la parte inferiore era ruvida come carta vetrata. Nel corso di quattro estenuanti e dolorose ore la notte prima, Rais aveva strofinato la clip avanti e indietro sotto il tavolo, attento a non fare troppo rumore. Con ogni movimento aveva temuto che la clip potesse sfuggirgli di mano, o che le guardie notassero il gesto, ma la sua stanza era buia e gli uomini erano stati impegnati nella loro conversazione. Poi anche la clip era sparita sotto le lenzuola, insieme alla punta del pennino.
Aveva capito da frammenti di discorsi che quella notte ci sarebbero state tre infermiere del turno notturno nel reparto di chirurgia, inclusa Elena, e altre due reperibili nel caso di necessità. Insieme alle guardie, facevano un totale di cinque persone che avrebbe dovuto affrontare, e un massimo di sette.
A nessuno nello staff medico piaceva particolarmente occuparsi di lui, sapendo chi era, e quindi lo andavano a controllare di rado. Ora che Elena era entrata e uscita, Rais sapeva che aveva tra i sessanta e i novanta minuti prima del suo ritorno.
Il suo braccio sinistro era bloccato con una cinghia standard d’ospedale, del tipo che i professionisti di solito definivano “a quattro punti”. Era una striscia azzurro chiaro avvolta al suo polso, stretta da un aderente cinturino bianco di nylon, la cui estremità era attaccata saldamente alla sponda di ferro del suo letto. Per via della severità dei suoi crimini, anche il suo polso destro era ammanettato.
Le due guardie all’esterno stavano parlando in tedesco. Rais le ascoltò con attenzione; quella sulla sinistra, Luca, sembrava lamentarsi del fatto che sua moglie stava prendendo peso. Rais quasi sbuffò; l’uomo era ben lontano da potersi definire in forma lui stesso. L’altro, un ragazzo di nome Elias, era più giovane e atletico, ma beveva caffè in dosi che sarebbero stati letali per la maggior parte degli esseri umani. Ogni notte, tra i novanta minuti e le due ore dopo l’inizio del turno, Elias chiamava l’agente di sicurezza notturno per poter andare in bagno. Mentre era via, ne approfittava per uscire a fumare, quindi durante la pausa bagno rimaneva via tra gli otto e gli undici minuti. Rais aveva passato molte delle notti precedenti contando i secondi della sua assenza.
Era una finestra d’opportunità molto stretta, ma lui era addestrato.
Infilò la mano sotto le lenzuola alla ricerca della clip affilata e la tenne tra le punte delle dita. Poi, facendo attenzione, la gettò ad arco sopra il proprio corpo. Gli atterrò facilmente nel palmo della mano destra.
La seguente era la parte più difficile del suo piano. Tirò il polso fino a tendere la catena delle manette, e in quella posizione voltò la mano per infilare la punta affilata della clip nella serratura che lo teneva bloccato alle sponde del letto. Era complicato e doloroso, ma aveva già scassinato altre manette in passato, e sapeva che il meccanismo di chiusura all’interno era progettato perché una chiave universale potesse aprirne ogni paia. Dato che conosceva il funzionamento della serratura doveva solo eseguire i movimenti giusti per far scattare i perni. Ma era necessario che la catena fosse ben tesa, per evitare che le manette sferragliassero contro le sponde del letto e allertassero le guardie.
Gli servirono quasi venti minuti di contorcimenti, piegamenti e brevi pause per alleviare il dolore alle dita e riprendere il tentativo, ma alla fine la serratura scattò e la manetta si aprì. Rais la sfilò con attenzione dalla sponda.
Aveva una mano libera.
Si tese e liberò rapidamente la sinistra.
Così erano libere entrambe.
Infilò la clip sotto le lenzuola e afferrò la parte superiore della penna, stringendola nel palmo perché solo la punta fosse esposta.
Fuori dalla porta, l’agente più giovane si alzò all’improvviso. Rais trattenne il fiato e si finse addormentato mentre Elias gli lanciava un’occhiata.
“Chiama Francis, per favore?” disse l’agente in tedesco. “Devo andare a pisciare.”
“Certo,” rispose Luca con uno sbaglio. Usò la radio per contattare la sorveglianza notturna dell’ospedale, che di solito era stazionata dietro la reception al primo piano. Rais aveva visto Francis diverse volte; era un uomo di una certa età, sulla sessantina, forse persino con qualche anno di più, con un fisico snello. Era armato di pistola ma si muoveva con lentezza.
Era proprio quello che Rais aveva sperato. Non voleva lottare contro l’agente di polizia più giovane finché era ancora tanto debole.
Tre minuti più tardi apparve Francis, nella sua uniforme bianca e la cravatta nera, ed Elias si affrettò verso il bagno. I due uomini fuori dalla porta si scambiarono convenevoli mentre la guardia dell’ospedale si accomodava con un sospiro sulla sedia di plastica lasciata vuota dal giovane.
Era tempo di agire.
Rais scivolò lentamente verso il bordo del letto e abbassò i piedi nudi sulle piastrelle fredde. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva usato le gambe, ma era certo che i suoi muscoli non si fossero atrofizzati tanto da essere inservibili.
Si alzò con cura e in silenzio, ma poi gli cedettero le ginocchia. Strinse l’orlo del letto per sopportarsi e lanciò un’occhiata alla porta. Non arrivò nessuno; fuori continuavano a chiacchierare. I due uomini non avevano sentito niente.
Si raddrizzò tremante e ansimando, e fece qualche passo silenzioso. Certo, aveva le gambe deboli, ma quando era necessario era sempre forte, e così doveva essere in quel momento. Il camice d’ospedale gli ondeggiò attorno, aperto sulla schiena. L’immodesto indumento lo avrebbe solo ostacolato, quindi se lo tolse con uno strattone, rimanendo sfrontatamente nudo nella stanza.
Con la punta della penna nel pugno, prese posizione appena dietro la porta aperta, ed emise un basso fischio.
L’improvviso raschio delle gambe delle sedie gli disse che entrambi gli uomini lo avevano sentito e si erano alzati. La stazza di Luca riempì la porta, mentre l’uomo scrutava dentro la stanza buia.
“Mein Gott!” mormorò quando entrò e vide il letto vuoto.
Francis lo seguì, con la mano sulla fondina della pistola.
Non appena l’agente più anziano ebbe varcato la soglia, Rais fece un balzo avanti. Spinse la punta della penna nella gola di Luca e la torse, aprendogli la carotide. Il sangue spruzzò copioso dalla ferita aperta, e in parte schizzò sul muro davanti.
Lasciò andare la punta e assalì Francis, che stava cercando di liberare la pistola. Sgancia, estrai dalla fondina, togli la sicura, punta: la reazione della guardia più anziana era lenta, e gli costò diversi preziosi secondi che semplicemente non aveva.
Rais gli sferrò due colpi, il primo verso l’alto appena sotto l’ombelico, seguito subito da uno verso il basso al plesso solare. Uno gli riempì i polmoni d’aria, mentre l’altro lo costrinse bruscamente a esalare, e sul suo fisico confuso ebbero un effetto così scioccante e inaspettato da fargli appannare la vista e perdere i sensi.
Francis barcollò, non riuscendo più a respirare, e cadde in ginocchio. Rais si portò con una piroetta alle sue spalle, e con un gesto fluido gli spezzò il collo.
Luca si stava stringendo la gola con entrambe le mani mentre sanguinava, emettendo gorgoglii e leggeri ansimi. Rais lo guardò e contò fino a undici, quando finalmente l’uomo svenne. Senza fermare il flusso sanguigno sarebbe morto in meno di un minuto.
Sfilò le pistole a entrambe le guardie e le appoggiò sul letto. La fase seguente del suo piano non sarebbe stata semplice: doveva sgattaiolare lungo il corridoio, senza essere visto, fino al ripostiglio dove erano conservati i camici di ricambio. Non poteva lasciare l’ospedale nell’uniforme di Francis, era troppo riconoscibile, né in quella di Luca che ormai era fradicia di sangue.
Udì una voce maschile in fondo al corridoio e si fermò.
Era l’altro agente, Elias. Così presto? Fu assalito dall’ansia. Poi sentì una seconda voce, quella dell’infermeria notturna, Elena. A quanto pareva il ragazzo aveva saltato la pausa sigaretta per chiacchierare con la giovane e attraente infermiera, e ora entrambi erano diretti verso la sua stanza. Sarebbero arrivati in pochi secondi.
Avrebbe preferito non dover uccidere la donna. Ma se doveva scegliere tra lei e se stesso, Elena non avrebbe avuto scampo.
Afferrò una delle pistole dal letto. Era una Sig P220, tutta nera, calibro 45. La strinse nella mano sinistra. Il suo peso era gradevole e familiare, come una vecchia fiamma. Con la destra strinse la metà aperta delle manette. E poi rimase in attesa.
Le voci nel corridoio si ammutolirono.
“Luca?” chiamò Elias. “Francis?” Il giovane agente aprì la chiusura della fondina e mise la mano sulla pistola, entrando nella camera buia. Elena si insinuò dietro di lui.
Gli occhi dell’agente si sgranarono per l’orrore alla vista dei due cadaveri.
Rais abbatté il gancio delle manette aperte nel lato del collo del giovane uomo, e poi tirò il braccio all’indietro. Il metallo gli morse il polso e le ferite nella schiena bruciarono, ma lui ignorò il dolore e tagliò la gola dell’agente. Il sangue schizzò in enorme quantità e colò su di lui.
Con la mano sinistra premette la Sig alla fronte di Elena.
“Non gridare,” disse in fretta e a bassa voce. “Non chiamare nessuno. Rimani zitta e vivrai. Fai un rumore e morirai. Hai capito?”
Dalle labbra di Elena si alzò uno squittio, e la donna cercò di soffocare il singhiozzo che seguì. Annuì, con gli occhi pieni di lacrime, mentre Elias cadeva in avanti sulle piastrelle del pavimento.
Lui la studiò da capo a piedi. Era minuta, ma il suo camice era largo e aveva la vita elastica. “Togliti i vestiti,” le disse.
La donna spalancò la bocca in preda al terrore.
Rais emise un suono sdegnato. Poteva capire la sua confusione, certo, dopo tutto era ancora nudo. “Non sono quel tipo di mostro,” le garantì. “Mi servono solo i vestiti. Non te lo chiederò di nuovo.”
Tremando, la giovane donna si sfilò la casacca e si tolse i pantaloni, abbassandoseli sopra le scarpe da ginnastica bianche, in piedi nella pozza del sangue di Elias.
Rais li prese e li indossò, facendo una certa fatica dovendo usare una mano sola, dato che aveva la Sig puntata sulla ragazza. Gli abiti erano stretti, e i pantaloni un po’ corti, ma sarebbero bastati. Infilò la pistola dietro l’elastico delle brache, e recuperò l’altra arma dal letto.
Elena era rimasta in biancheria, e si stringeva il torace con le braccia. Rais lo notò; prese il suo camice d’ospedale e glielo tese. “Copriti. Poi sali sul letto.” Mentre lei faceva come gli aveva ordinato, trovò un anello di chiavi alla cintura di Luca e si aprì l’altra manetta. Poi passò la catena attorno a una delle sponde del letto e ammanettò le mani della donna.
Appoggiò le chiavi all’estremità del comodino, lontano dalla sua portata. “Arriverà qualcuno a liberarti dopo che me ne sarò andato,” le disse. “Ma prima ho delle domande. Mi serve che tu sia sincera, perché se non lo sarai, tornerò a ucciderti. Lo capisci?”
Lei annuì freneticamente, con la guance rigate dalle lacrime.
“Quanti altri infermieri ci sono in questo reparto stanotte?”
“Ti prego, non far loro del male,” balbettò la donna.
“Elena. Quanti altri infermieri sono in questo reparto, stanotte?” ripeté Rais.
“Du-due…” Tirò su con il naso. “Thomas e Mia. Ma Tom è in pausa. Dovrebbe essere al piano di sotto.”
“Okay.” Il cartellino con il nome appeso al petto di Rais era delle dimensioni di una carta di credito. C’era una piccola foto di Elena, e sull’altro lato era attraversato per il lungo da una striscia nera. “Quest’unità di sera viene chiusa a chiave? E il tuo badge è la chiave?”
Lei annuì e tirò di nuovo su con il naso.
“Bene.” Si infilò la seconda pistola nell’elastico dei pantaloni e si inginocchiò vicino al corpo di Elias. Gli sfilò entrambe le scarpe e ci spinse dentro i piedi. Erano un po’ strette, ma abbastanza vicine al suo numero da poterle usare per la fuga. “Un’ultima domanda. Sai che cosa guida Francis? La guardia notturna?” Indicò l’uomo morto nell’uniforme bianca.
“No-non ne sono sicura. Un… un pick-up, credo.”
Rais frugò nelle tasche del cadavere e ne sfilò un mazzo di chiavi. Ce n’era elettronica; ciò lo avrebbe aiutato a trovare il veicolo. “Grazie per la tua onestà,” le disse. Poi strappò un angolo del lenzuolo e glielo infilò in bocca.
Il corridoio era vuoto e ben illuminato. Rais aveva la Sig in mano ma la teneva nascosta dietro la schiena mentre avanzava. Il corridoio si apriva su un ampio piano occupato dalla postazione a forma di U delle infermiere, e al di là di quella, l’uscita del reparto. Una donna con occhiali dalla montatura rotonda e un caschetto moro stava scrivendo a un computer, con la schiena rivolta verso di lui.
“Girati, per favore,” le disse.
La donna sorpresa si voltò e si trovò davanti il loro paziente/prigioniero con indosso un camice e un braccio insanguinato, che le stava puntando una pistola. Rimase senza fiato e strabuzzò gli occhi.
“Tu devi essere Mia,” disse Rais. L’infermiera sembrava sulla quarantina, con un aspetto materno, e cerchi scuri sotto gli occhi sgranati. “Mani in alto.”
Lei obbedì.
“Che cosa è successo a Francis?” domandò a mezza voce.
“Francis è morto,” rispose lui freddamente. “Se desideri unirti a lui, ti basta fare una mossa avventata. Se vuoi vivere, ascolta con attenzione. Adesso me ne andò di qui da quella porta. Una volta che si sarà chiusa alle mie spalle, conterai lentamente fino a trenta. Poi andrai nella mia stanza. Elena è viva ma ha bisogno di aiuto. Dopodiché potrai fare qualsiasi cosa tu sia addestrata a fare in una situazione di questo tipo. Hai capito?”
L’infermiera fece un secco cenno affermativo con il capo.
“Ho la tua parola che seguirai queste istruzioni? Preferisco non uccidere le donne quando posso evitarlo.”
Lei annuì di nuovo, più lentamente.
“Bene.” Rais oltrepassò la stazione, togliendosi nel frattempo il badge dalla casacca dell’ospedale per passarlo nello slot a destra della porta. Una piccola luce rossa divenne verde e la serratura si aprì. Con un ultimo sguardo a Mia, che non si era mossa, spinse la porta e aspettò che gli si richiudesse alle spalle.
Poi corse.
Si affrettò lungo un corridoio, infilandosi la Sig nei pantaloni. Prese le scale per il primo piano due gradini alla volta, ed emerse da una porta laterale nella notte svizzera. L’aria fresca lo accolse come una doccia purificatrice, e lui si prese un momento per respirare liberamente.
Gli tremavano le gambe, minacciando di cedere di nuovo. L’adrenalina della fuga si stava esaurendo in fretta, e i suoi muscoli erano ancora deboli. Prese la chiave elettronica di tasca e premette il pulsante rosso per le emergenze. Sentì accendersi l’allarme di un SUV e vide lampeggiare le sue luci. Lo spense subito e lo raggiunse di corsa.
Avrebbero cercato l’auto rubata, era ovvio, ma tanto non l’avrebbe usata a lungo. Presto avrebbe dovuto abbandonarla, trovare nuovi abiti, e il mattino seguente si sarebbe diretto verso l’Hauptpost, dove aveva tutto il necessario per scappare dalla Svizzera con una falsa identità.
E quanto prima avrebbe trovato e ucciso Kent Steele.