Читать книгу Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2 - Джек Марс - Страница 6
CAPITOLO UNO
Оглавление25 Giugno 2005
1:45 p.m. Ora legale di Mosca (5:45 a.m. Ora legale orientale)
240 chilometri a sud-est di Yalta
Il Mar Nero
“Sono stufo di aspettare,” disse il grasso pilota di sottomarini a Reed Smith. “Diamoci da fare.”
Smith era seduto sul ponte dell’Aegean Explorer, un vecchio e malconcio peschereccio che era stato riadattato per le ricerche archeologiche. Stava fumando una sigaretta turca, sorseggiando una lattina di Coca e si stava godendo il calore della bella giornata, l’aria asciutta e salmastra e i richiami dei gabbiani radunati nel cielo sopra la barca.
Il sole di mezzogiorno era arrivato al suo apice sopra le loro teste e ormai aveva iniziato a calare verso ovest. La squadra scientifica era ancora chiusa dentro la cabina dell’imbarcazione, fingendo di calcolare la possibile posizione di un’antica nave commerciale greca sprofondata nella sabbia 350 metri sotto la superficie di quella splendida acqua blu.
Erano circondati da tutti i lati dal mare aperto, e le onde scintillavano sotto il sole.
“Che fretta c’è?” rispose Smith. Stava ancora cercando di farsi passare il doposbronza di due notti prima. L’Aegean Explorer era rimasto attraccato per diversi giorni nel porto turco di Samsun. Senza nient’altro da fare, lui si era dedicato ai divertimenti notturni del luogo.
A Smith piaceva vivere in compartimenti stagni. Poteva andare in giro a bere e festeggiare insieme alle prostitute di una città sconosciuta, e non pensare nemmeno una volta alle persone di posti lontani che lo avrebbero ucciso appena ne avessero avuto l’occasione. Poteva stare seduto su quel ponte, godendosi una sigaretta e la bellezza delle acque che lo circondavano, senza mai pensare a come, di lì a poco, avrebbe intercettato i cavi delle comunicazioni russe a centinaia di metri sotto il livello della superficie. Vivendo in quella maniera, non gli piacevano le persone che non facevano altro che pensare, rimuginare e mescolare il contenuti dei compartimenti. Persone come il pilota di sottomarini.
“Che razza di squadra archeologica si immerge a metà pomeriggio?” stava domandando quello. “Dovevamo scendere in mattinata.”
Smith non disse nulla. La risposta avrebbe dovuto essere ovvia.
L’Aegean Explorer non navigava solo nelle acque dell’Egeo, ma anche nel Mar Nero e nel Mar d’Azov. In apparenza, l’imbarcazione era alla ricerca di navi affondate lasciate indietro da civilizzazioni scomparse da tempo.
Il Mar Nero in particolare era un posto eccellente dove trovare relitti. L’acqua era anossica, che significava che sotto i 150 metri non c’era praticamente ossigeno. La vita marina era scarsa, e quel poco che resisteva tendeva a limitarsi a batteri anaerobici.
Ciò voleva dire che gli oggetti che cadevano sul fondale marino si preservavano magnificamente. Là sotto c’erano navi risalenti al Medioevo in cui i sommozzatori avevano trovato l’equipaggio ancora vestito con gli abiti che aveva avuto indosso al momento della morte.
A Reed Smith sarebbe piaciuto vedere una cosa del genere. Ovviamente, sarebbe stato per un’altra volta. Non erano lì per cercare un relitto.
L’Aegean Explorer e la sua missione erano una bugia. Anche la Poseidon Research International, l’organizzazione che possedeva e gestiva la nave, era una bugia. Reed Smith era una bugia. La verità era che ogni uomo a bordo dell’imbarcazione era un dipendente, un agente segreto d’élite in prestito o un indipendente assunto temporaneamente dalla Central Intelligence Agency.
“Squadra Nereus, tutti a bordo,” disse una voce piatta all’altoparlante.
Il Nereus era un minuscolo sottomarino color giallo brillante, noto nel settore come un sommergibile. La cabina di comando era una bolla di plastica perfettamente sferica. La bolla, nonostante l’aspetto fragile, avrebbe resistito alla pressione presente a profondità di migliaia di metri, centinaia di volte superiore a quella che si trovava in superficie.
Smith gettò la sigaretta in acqua.
I due si diressero insieme verso il sommergibile. Un terzo uomo si unì a loro, un individuo snello e muscoloso sulla ventina, con una profonda cicatrice sul lato sinistro del volto. Portava i capelli con un taglio militare e aveva uno sguardo tagliente. Dichiarava di essere un biologo marino di nome Eric Davis.
Il giovane uomo era chiaramente un membro delle forze speciali. Quasi non aveva detto una parola per tutto il tempo che avevano passato sulla barca.
Il Nereus giallo brillante era in attesa su una piattaforma metallica. Sembrava un robot amichevole uscito da un film di fantascienza, e gli spuntavano persino due braccia di metallo nero dalla parte davanti. Una pesante gru pendeva in avanti sul ponte del peschereccio, pronta a spostare il Nereus in acqua. Due addetti in tuta arancione stavano aspettando di agganciare il sommergibile al grosso cavo che l’avrebbe sollevato.
Smith e i suoi due compagni salirono le scale ed entrarono, uno alla volta, nel portello principale. Il ragazzo delle operazioni speciali andò per primo, perché sarebbe stato seduto in fondo. Poi fu il turno del pilota.
Smith entrò per ultimo, accomodandosi sulla sedia del co-pilota. Direttamente davanti a lui c’erano i comandi per le braccia robotiche. Tutto intorno aveva la bolla trasparente che costituiva la cabina. Tese un braccio e chiuse il portello, girando la valvola per sigillare lo scomparto e chiuderlo.
Seduto al suo fianco c’era il robusto pilota, di nome Bolger, mentre a meno di trenta centimetri dal suo volto, e a quindici dalla sua spalla destra c’era il materiale trasparente della cabina.
Faceva caldo dentro la bolla e la temperatura si stava alzando sempre di più.
“Intimo,” commentò, non apprezzando la sensazione più di quanto avesse fatto durante l’addestramento. Un claustrofobo non avrebbe resistito tre minuti dentro quella cosa.
“Abituatici,” replicò il pilota. “Staremo qua dentro per un po’.”
Non appena Smith ebbe sigillato il portello, il Nereus si attivò. Gli addetti fuori lo avevano agganciato al cavo, e la gru lo stava sollevando sopra l’acqua. Lui si guardò alle spalle. Uno degli uomini in tuta arancione era salito sullo stretto ponte esterno del sommergibile. Si stava tenendo al cavo con una mano guantata.
Per un momento rimasero sospesi nel vuoto, sei metri sopra l’acqua. La gru li abbassò sul mare e si ritrovarono all’ombra del grande peschereccio verde. Uno Zodiac apparve rapidamente, guidato da un sol uomo. Dopo aver sganciato il loro cavo, l’addetto in tuta arancione sul ponte esterno vi salì sopra.
Dalla radio emerse una voce. “Nereus, qui è il comando dell’Aegean Explorer. Iniziate i test.”
“Ricevuto,” disse il pilota. “Iniziamo subito.” Davanti a sé aveva un assortimento di comandi. Premette il pulsante in cima al joystick che stringeva tra le dita. Poi prese ad attivare interruttori, spostando la grossa mano sinistra da uno all’altro in rapida successione. Quella destra non lasciò mai il joystick. Fresca aria ricca d’ossigeno iniziò a riempire il minuscolo modulo. Smith inalò a fondo. Era piacevole sul suo volto sudato. Per un attimo aveva iniziato a surriscaldarsi.
Il pilota e la voce alla radio si scambiarono informazioni, continuando a parlare mentre il sommergibile ondeggiava piano avanti e indietro. L’acqua gorgogliò e si alzò tutto attorno a loro. Qualche secondo più tardi la superficie del Mar Nero fu sopra le loro teste. Smith e l’uomo nel sedile posteriore rimasero in silenzio, lasciando che il pilota facesse il suo lavoro. Erano dei veri professionisti.
“Iniziate l’avanzamento silenzioso,” disse la voce.
“Avanzamento silenzioso,” ripeté l’uomo. “Ci vediamo stanotte.”
“Buona fortuna, Nereus.”
Fu a quel punto che il pilota fece ciò che di norma nessuno alla guida di un sommergibile civile alla ricerca di relitti sottomarini avrebbe mai fatto. Spense la radio. Poi fece lo stesso con il localizzatore. Aveva interrotto ogni collegamento con la superficie.
L’Aegean Explorer poteva ancora vedere il Nereus sul sonar? Certo. Ma l’Explorer sapeva dove era il sommergibile. Di lì a poco, sarebbero spariti anche per la nave. Il Nereus era solo un minuscolo puntino in un vasto mare.
A tutti gli effetti il sommergibile era invisibile.
Reed Smith inspirò di nuovo a fondo. Quella doveva essere la trentesima volta che scendeva sotto la superficie marina in uno di quegli aggeggi, sia durante l’addestramento che nella vita reale, ma ancora non riusciva a farsene una ragione. Erano sprofondati di appena cinque metri e il mare era già diventato di un color blu brillante perché la luce del sole sopra la superficie si rifrangeva e veniva assorbita dall’acqua. Tra lo spettro dei colori il rosso veniva assorbito per primo, lasciando tutto il mondo subacqueo avvolto in un alone blu.
Diventava sempre più blu e più scuro man mano che il veicolo affondava nell’acqua.
“È bellissimo,” commentò Eric Davis alle sue spalle.
“Sì, lo è,” replicò il pilota. “Non me ne stanco mai.”
Si immersero nel blu fino a raggiungere un’oscurità profonda e buia. Tuttavia non era completa. Smith sapeva che una minuscola quantità di luce dalla superficie riusciva ancora a raggiungerli. Era il crepuscolo. Al di sotto, ancora più a fondo, c’era la mezzanotte.
L’oscurità li avvolse. Il pilota non accese le luci, preferendo navigare solo con gli strumenti. In quel momento non c’era niente da vedere.
Smith si permise di sonnecchiare. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Poi un altro. E un altro ancora. Si lasciò prendere dal suo doposbronza. Aveva un lavoro da fare, ma non era ancora il momento. Il pilota, Bolger, gli avrebbe detto quando avrebbe dovuto darsi da fare. Per un po’ poteva perdersi nei propri pensieri. Era una sensazione piacevole, poter ascoltare il brusio dei motori e l’occasionale mormorio dei due uomini nella capsula insieme a lui che facevano due chiacchiere su un argomento o un altro.
Il tempo passò. Forse molto tempo.
“Smith!” sibilò Bolger. “Smith! Sveglia.”
Lui rispose senza aprire gli occhi. “Non sto dormendo. Siamo già arrivati?”
“No. Abbiamo un problema.”
L’uomo aprì di colpo gli occhi. Fu sorpreso di vedere l’oscurità quasi totale che li circondava. Le uniche luci venivano dal chiarore rosso e verde del pannello della strumentazione. Problema non era una parola che voleva sentire centinaia di metri sotto la superficie del Mar Nero.
“Che cosa c’è?”
Il dito grassottello di Bolger indicò lo schermo del sonar. C’era qualcosa di grosso, forse a tre chilometri a nord-ovest da loro. Se non era una balenottera azzurra, e quasi di certo non lo era, allora era un’imbarcazione di qualche tipo, probabilmente un sottomarino. E che Smith sapesse c’era solo un paese che avesse degli autentici sottomarini in quelle acque.
“Ah, cazzo, perché hai acceso il sonar?”
“Avevo una brutta sensazione,” disse Bolger. “Volevo assicurarmi che fossimo da soli.”
“Beh, è chiaro che non lo siamo,” replicò lui. “E tu stai sbandierando la nostra presenza.”
Bolger scosse il capo. “Sapevano che eravamo qui.” Puntò il dito verso due puntini più piccoli, dietro di loro verso sud. Poi ne indicò uno simile davanti a est, a meno di un chilometro di distanza. “Li vedi questi? Non è affatto buono. Stanno convergendo sulla nostra posizione.”
Smith si passò una mano sulla testa. “Davis?”
“Non è di mia competenza,” replicò l’uomo sul sedile posteriore. “Sono qui per salvare i vostri culi e affondare il sommergibile in caso di malfunzionamento del sistema o di errore del pilota. Non sono nella posizione per affrontare un nemico da qui. E a queste profondità non potrei aprire il portello neanche se volessi. Troppa pressione.”
Smith annuì. “Già.” Si voltò verso il pilota. “Quanto manca all’obiettivo?”
Bolger fece segno di no con la testa. “Troppo lontano.”
“Al punto di incontro?”
“Lasciamo perdere.”
“Possiamo eluderli?”
Il pilota scrollò le spalle. “Dentro questo coso? Suppongo che possiamo provare.”
“Esegui una manovra evasiva,” stava per ordinargli Smith, ma non ne ebbe modo. All’improvviso, una luce brillante si accese di fronte a loro. L’effetto nella minuscola capsula fu accecante.
“Gira il mezzo,” disse allora, coprendosi gli occhi. “Nemici.”
Il pilota fece roteare di colpo il Nereus di trecentosessanta gradi. Prima di poter finire la manovra, un’altra luce accecante si accese alle loro spalle. Erano circondati, davanti e dietro, da sottomarini come il primo. Simili al loro, a parte che Smith riconosceva lo stile dei nemici. Erano stati progettati e costruiti negli anni ’60, durante l’epoca delle calcolatrici tascabili.
Fece un sforzo per non sferrare un pugno sullo schermo davanti a sé. Maledizione! E per di più davanti a loro ce n’era uno più grosso, probabilmente un cacciatore.
La missione, altamente classificata, sarebbe fallita. Ma non era quella la parte peggiore. Neanche lontanamente. La parte peggiore era la presenza di Reed Smith stesso. Non poteva farsi catturare, a nessun costo.
“Davis, opzioni?”
“Potremmo provare a scappare con il sommergibile,” disse Davis. “Ma personalmente gli lascerei prendere questo rottame e vivere per combattere un altro giorno.”
Smith grugnì. Non riusciva a farsi venire in mente niente. Poteva solo decidere se morire in quella bolla oppure… non voleva pensare alle altre possibilità.
Fantastico. Di chi era stata quell’idea?
Tese una mano verso il polpaccio e aprì una zip dei suoi pantaloni cargo. Aveva una minuscola Derriger da due colpi legata alla gamba. Era una pistola per il suicidio. Strappò il nastro adesivo dalla pelle, senza sentire quasi niente nonostante i peli strappati. Si portò l’arma alla testa e fece un profondo respiro.
“Che cosa stai facendo?” domandò Bolger, con voce allarmata. “Non puoi sparare qua dentro. Farai un buco in questa cosa. Siamo a centinaia di metri sotto la superficie.”
Indicò la bolla che li circondava.
Smith scosse la testa. “Tu non capisci.”
All’improvviso il ragazzo delle forze speciali si erse dietro di lui. Si moveva come un grosso serpente. Gli afferrò il polso in una potente morsa. Come faceva a spostarsi tanto in fretta in uno spazio così ristretto? Per un momento, grugnirono e lottarono, senza riuscire quasi a muoversi. L’avambraccio del giovane uomo si tese contro la gola di Smith, e poi gli sbatté la mano sulla console.
“Lasciala!” ordinò. “Lascia la pistola!”
L’arma cadde. Smith spinse giù le gambe e si tese all’indietro, cercando di liberarsi del giovane.
“Non sai chi sono.”
“Smettetela!” urlò il pilota. “Smettetela di lottare! State colpendo i comandi.”
Smith riuscì ad alzarsi dal sedile, ma ormai l’altro era sopra di lui. Era forte, immensamente forte, e lo costrinse ad accovacciarsi tra la seduta e la parete del sottomarino. Lo spinse lì e lo fece raggomitolare a terra. Gli si chinò sopra, ansimando pesantemente. Il suo fiato di caffè soffiò all’orecchio di Reed Smith.
“Posso ucciderti, okay?” disse il giovane uomo. “Posso ucciderti. Se è necessario farlo, okay. Ma non puoi sparare un colpo qua dentro. Io e l'altro tizio vogliamo vivere.”
“Ho un grosso problema,” insistette Reed. “Se mi interrogano… Se mi torturano…”
“Lo so,” gli garantì l’altro. “Lo capisco.”
Si fermò, respirando affannato.
“Vuoi che ti ammazzi? Lo faccio, decidi tu.”
Reed rifletté. La pistola sarebbe stata un modo facile per farla finita. Non avrebbe dovuto pensarci tanto. Gli sarebbe bastato premere il grilletto e poi… qualsiasi cosa venisse dopo. Ma a lui piaceva vivere. Non voleva morire così presto. Magari sarebbe riuscito a cavarsela, e non avrebbero scoperto la sua identità. Forse non lo avrebbero torturato.
C’era la possibilità che i russi volessero solo confiscare il loro sottomarino altamente tecnologico, per poi proporre uno scambio di prigionieri senza tante domande. Forse.
Iniziò a respirare con più calma. Non sarebbe mai dovuto andare lì. Era vero che sapeva intercettare i cavi delle comunicazioni, che aveva esperienza nelle missioni subacquee e che era un abile agente. Ma…
L'interno del sommergibile era ancora illuminato da un chiarore accecante. I russi avevano appena assistito a tutto lo spettacolo.
Già quello gli sarebbe valso diverse domande.
Ma Reed Smith voleva vivere.
“Okay,” disse. “Okay. Non uccidermi. Fammi alzare, va bene? Non farò niente.”
Il ragazzo iniziò a levarsi in piedi. Non fu semplice. Lo spazio nel sommergibile era tanto stretto che erano come se fossero caduti e rimasti travolti dalla calca alla Mecca. Era difficile districarsi.
Dopo pochi istanti Reed Smith tornò nel suo sedile. Aveva preso la sua decisione. Sperò che fosse quella giusta.
“Accendi la radio,” disse a Bolger. “Vediamo che cosa vogliono quei buffoni.”