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LA MIA PADRONA DI CASA
ОглавлениеNon posso pensare a Firenze, senza ricordarmi della mia buona padrona di casa di via dei ***, la quale m'insegnò in sei mesi più lingua italiana di quanta io n'abbia imparata in dieci anni da tutti i miei professori di letteratura, nati, come diceva l'Alfieri, là dove Italia boreal diventa.
Era una vecchietta simpatica, vedova d'un interprete d'albergo, buona come il pane, fiorentina fin nel bianco degli occhi, operosa, assestata e pulita come un'Olandese. Viveva d'una piccola rendita e di quel po' che guadagnava tenendo dozzina. Leggicchiava, giocava al lotto, faceva qualche visita, e passava quasi sempre la sera, sola come uno sparago, in un cantuccio della sua piccola camera ingombra di mobili vecchi, vicino a una finestra, dalla quale si vedeva, di là dai tetti di molte case, la cima del campanile di Giotto.
Che cos'è questo benedetto parlare toscano! Era una povera donna, non aveva cultura, sapeva appena leggere e scrivere; ma parlava da far rimanere a bocca aperta. E non il fiorentino volgare, perchè non ho mai inteso dalla sua bocca una parola o una frase che una signora non potesse ripetere in conversazione. Il suo parlare era tutto frasi efficacissime, immagini, proverbi, diminutivi graziosi, vezzi e fiori di lingua, che venivan via facili e fitti ad ogni proposito, come nei novellieri trecentisti, senza che le sfuggisse mai neppure un lampo di quel sorriso leggerissimo che per il solito tradisce la compiacenza intima di chi sa di parlar bene.
Ogni momento gliene sentivo dire una nuova.
Stentavo un po' a infilare il soprabito: essa mi diceva: Ma perchè non se lo fa allargare chè le è stretto assaettato?
Entravo nella sua camera: — Badi, — mi diceva, — di non inciampare, perchè è buio come in gola.
Veniva un amico a chiedermi dei denari; essa capiva, e mi domandava: — Le è venuto a dare una frecciata, non è vero?
Diceva che il suo predicatore aveva la parola facile e ornata; che il lattaio aveva la voce come uno di questi cani incimurriti e fiochi che non posson più abbaiare; che erano tre giorni che non vedeva più l'effigie dello spazzaturaio che pure le aveva promesso di venire; che il bambino della vicina aveva rotto un vetro, e suo padre non se ne era anche accorto, ma il poverino stava già rannicchiato dietro l'uscio ad aspettare il lampo e la saetta; che il mio maestro di spagnuolo aveva un vestito che gli piangeva addosso; che con tutte queste guerre che si fanno dopo che Pio IX ha date le su' riforme bisogna sempre stare palpitando per i nostri cari; che un tale ch'era caduto dal secondo piano, e non era morto, aveva il sopravvivolo come i gatti; che un certo quadro pareva fatto coll'alito; che a una certa sua amica, in una certa congiuntura, essa aveva parlato come al cospetto di Dio, da cuore a cuore; e altre espressioni gentili ed argute, che a scriverle tutte, ci sarebbe da fare un vocabolario.
Però, quando s'accorgeva ch'io mi divertivo a farla parlare, taceva tutt'a un tratto e mi guardava con aria di diffidenza. Temeva ch'io la volessi canzonare. Anzi, qualche volta, quando mi lasciavo sfuggire un'esclamazione di meraviglia, quasi s'indispettiva.
— Oh insomma, — mi disse un giorno, — io parlo come so. Se dico degli spropositi, m'insegni lei a parlar meglio. Io non ho mai preteso di parlar bene.
— Ma no, cara signora, — le risposi coll'accento della più profonda sincerità. — Le giuro che ammiro davvero la sua maniera di parlare, che vorrei parlare io come lei, che vorrei saper scrivere come lei parla. Che c'è da stupirsi? Non lo sa che i fiorentini parlano meglio degli italiani delle altre provincie? Non l'ha mai inteso dire? Mi piace sentir parlare l'italiano da lei come mi piacerebbe sentir parlare il francese da un parigino. Mi piace perchè lei parla con naturalezza, perchè pronunzia bene, perchè io imparo. Ne vuole una prova? Guardi questi fogli.
E le misi sott'occhio alcuni fogli sui quali avevo notato una lunga filza dei suoi modi di dire.
Guardò, sorrise, poi sospettò daccapo e mi disse che non sapeva capire che cosa io trovassi di particolare in quelle parole. — Qualunque mercatino, — soggiunse, — è in caso di dirgliele tali e quali.
Nondimeno, a poco a poco, finì per persuadersi che mi divertivo davvero a sentirla parlare perchè parlava bene.
Ma trovavo sempre mille difficoltà a farmi capire quando volevo saper qualche cosa di preciso in fatto di lingua. — Come direbbe lei, — le domandavo, — per dire che piove forte? — Gua! — mi rispondeva, — direi che piove forte. — Io ripetevo la domanda in un'altra forma. — Ah! ho capito! — esclamava. — Chi si volesse spiegare in un'altra maniera potrebbe anco dire che piove a rovescio, a catinelle, a orciuoli, a ciel rotto; ognuno può dire come gli piace; non c'è regola fissa.
Un giorno le diedi un mio libro. — L'ha scritto lei? — mi domandò. — Sì, — risposi. — Tutto di suo pugno? — Tutto di mio pugno. — Lo tenne due o tre giorni e vidi che lo leggeva. Quando me lo restituì, mi disse: — Bravo! mi son divertita; si vede che è un buon figliuolo. E poi mi piacque anche lo stile.
A poco a poco mi prese a voler bene, mi parlava lungamente della buon'anima di suo marito, delle sue amiche, del caro dei viveri, delle tasse, del lotto, dei suoi malanni, della religione, sempre colla stessa grazia e colla stessa dolcezza. Ma specialmente quando parlava della sua disgrazia d'esser rimasta sola al mondo e diceva che la notte, non potendo dormire, pensava, pensava, fin che si metteva a piangere, aveva parole così dolci, così schiette, così poetiche, che mi si stringeva il cuore, e nello stesso tempo provavo una specie di voluttà artistica a sentirla. Mentre essa parlava la sua bella lingua, io appoggiato alla finestra della sua cameretta, guardavo il campanile di Giotto dorato dalla luce del tramonto, e provavo uno struggimento d'amore per Firenze.
Una s'era, ch'ero già a letto, s'affacciò alla porta e disse con voce commossa: — Ah! figliuol mio! bisogna proprio credere, sa, che c'è un Dio! Questa sera il predicatore ha detto che tutti i grandi uomini ci hanno creduto, — e Dante e Galileo e Colombo, — ne avrà citati più di cinquanta. E ha conciato per le feste quelli che dicono che il mondo l'ha fatto il caso! Il caso! E dire che sono gente che ha studiato! Io che sono una povera donna capisco che è una corbelleria. Se lo studio non dovesse portare altri frutti! Ma lei, benchè studii, non le pensa queste cose, non è vero, figliuolo? dica un po': ci crede lei al caso?
— No, cara padrona, — le risposi; — io credo in Dio.
— Oh lei non può immaginare la consolazione che mi dà con codeste parole, — rispose la buona donna.
La notte, mentre lavoravo a tavolino, a una cert'ora sentivo picchiare nel muro e poi una voce insonnita che diceva:
— Non lavori più, figliuolo; s'abbia riguardo agli occhi.
Ed io: — Ancora una pagina.
— Nemmeno una pagina. Si ricordi del proverbio: È meglio un.... cavallino vivo che un dottore morto.
Passava un altro quarto d'ora e lei daccapo:
— A letto, a letto, figliuolo.
— Padrona, domandavo io, — com'è quel proverbio di Berto, che mi disse stamani? Ne ho bisogno per scriverlo.
— Berto, rispondeva, — che dava a mangiare le pesche per vendere i noccioli. Vada a letto.
— Ancora una cosa. Come si chiama il bastone d'Arlecchino?
— Non mi cava più una parola, nemmeno se mi fa regina di Spagna.
E non diceva più una parola davvero e io andavo a dormire.
La mattina per tempo, appena svegliato, risentivo la sua voce: — Su, su! È un sereno che smaglia. Vada a fare un giro alle Cascine!
Una sera tornai a casa pieno di malinconia e mi buttai sul sofà senza dire una parola. Essa mi venne accanto. Duravo fatica a trattener le lagrime. Mi domandò che cos'avessi. Non volevo rispondere. Insistette, e allora le apersi il mio cuore come a un amico.
— Ho avuto un dispiacere, — le dissi. — Ho saputo che l'altro giorno, in una casa, hanno detto che i miei scritti sono noiosi e che non farò mai nulla di buono. Io ne sono persuaso e non ho più voglia di studiare. Voglio buttar nel fuoco tutti i miei libri e tornare a fare il soldato. Sono triste, scoraggito e annoiato della vita. Non m'importerebbe nulla di morire.
La buona donna si sforzò di ridere; ma era intenerita. Cercò di consolarmi e di rimettermi di buon umore; chiamò a raccolta tutti i suoi frizzi, le sue frasi e i suoi proverbi; mi assicurò che i miei libri erano pieni di bei concetti e che avrebbe voluto saperli scrivere lei; mi promise che sarei riuscito un bravissimo scienziato a dispetto dei maligni; mi disse che avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia con chi aveva sparlato di me, per fargli una risciacquata che non trovasse più la via di tornarsene a casa; mi fece bere un dito di vin Santo, mi diede del ragazzo, mi picchiò sotto il mento e gridò: — Su la testa! — Infine mi lasciò rasserenato, dicendo che se le facevo un'altra volta una di quelle scene, il pezzo più grosso che sarebbe rimasto di me, aveva da essere un orecchio, com'è vero che c'è tanto di Biancone in piazza della Signoria.
Qualche volta però ci bisticciavamo, per cose da nulla, s'intende; per esempio perchè tornavo a casa tardi, e lei mi trovava a ridire, ed io le rispondevo di mala grazia. Allora stavamo una mezza giornata senza scambiare una parola. La sera poi, pensando ch'essa era là in un cantuccio della sua camera, sola, malinconica, al buio, mi pigliava il rimorso, correvo all'uscio e le domandavo per il buco della serratura: — Padrona, come è quel detto di Cimabue che mi disse ier l'altro?
— Cimabue che conosceva l'ortica al tasto — rispondeva con una voce in cui si sentiva un'improvvisa contentezza.
— Mi perdona? — le domandavo.
— Oh buon figliuolo! — rispondeva; — perdoni lei a me, che sono una brontolona e una zotica. Ma veda: glielo dico per il su' bene che non venga a casa tardi perchè.... io non ho mica il diritto di impicciarmi nella sua condotta.... si capisce.... ma ho notato che tutte le sere che viene a casa tardi, e non studia più, la mattina dopo è di malumore.
— Ha ragione, padrona, ha ragione! Apra la porta e facciamo la pace.
Essa apriva la porta e non faceva mai in tempo a levarsi il fazzoletto dagli occhi.
Così passarono sei mesi.
Un giorno, dopo una settimana intera di preparativi e di esitazioni, mi feci forza e le dissi, guardandola fisso negli occhi:
— Padrona, io debbo partire da Firenze.
— Dove va?
— A casa mia.
— Va bene. Io terrò le sue camere libere per quando tornerà. Può lasciar qui libri, quadri, carte, come le lascerebbe alla sua famiglia. Prima che ritorni farò mettere la stufa, comprerò un altro seggiolone e se mi salta il ticchio farò cambiare la tappezzeria al salotto. E passeremo il nostro invernetto insieme d'amore e d'accordo, lei a studiare ed io a fare le mie faccenduole. Ah! vedo che almeno negli ultimi anni della mia vita avrò qualche consolazione. Quando tornerà?
— Cara padrona.... non glielo posso dire.
— Che forse non tornerebbe più? domandò col viso alterato.
— Forse non tornerò più!
Stette qualche momento senza parlare e poi esclamò con voce tremante: — Ma dunque io resterò sola!...
E tacque di nuovo come per sentir l'eco di quella triste parola.
Poi nascose il viso nel grembiale e diede in uno scoppio di pianto.
M'aiutò a fare i miei bauli, volle riporre tutti i libri colle sue mani, non mi lasciò più un momento fino all'ora della partenza. L'ultima notte, verso le undici, mentre scrivevo, picchiò ancora una volta nella parete e mi pregò di avermi riguardo agli occhi. La mattina seguente, quando partii, mi accompagnò fin sul pianerottolo e mi disse colla solita dolcezza: — Lei se ne torna colla sua famiglia; io, povera vecchia, rimango sola. Si ricordi qualche volta di me che le volevo bene come a un figliuolo. Abbia giudizio; continui a studiare e sarà contento. Mentre viaggerà in Spagna e in Francia, io guarderò il suo ritratto, leggerò i suoi libri e pregherò il Signore per lei. Quando morirò, lei si ricorderà che le ho voluto bene e piangerà, non è vero? Ed ora vada, figliuolo, che è tardi; e Dio l'accompagni!
Le diedi un bacio e discesi per le scale. La povera donna mi mandò ancora un addio rotto da un singhiozzo e poi rientrò nella sua casa vuota e triste.
Oh buona e cara vecchia! se mi son ricordato di te! In viaggio, ogni volta che ho passata la notte a scrivere in una camera d'albergo, allo scoccare delle undici ho detto tra me, con tristezza: — Oh! se sentissi picchiare nel muro, quanto lavorerei più volentieri! — Ogni volta che scrivo, e rileggendo la mia prosa, la trovo scolorita e senza grazia, dico con rammarico: — Ah! quanto ci corre da quest'italiano a quello della mia padrona di casa! — La sera, quando la mia famiglia è raccolta intorno al fuoco, e tutti ridono e lavorano, io penso col cuore stretto che tu sei sola nella tua stanza, forse al freddo ed al buio, perchè la legna e l'olio sono rincarati. E non mi si presenta mai l'immagine della mia cara Firenze, senza ch'io goda in fondo all'anima pensando che un giorno forse vi tornerò, che andrò a cercarti, che ti troverò ancora, che mi rimetterò a imparare da te la lingua armoniosa e gentile con cui mi rallegravi e mi davi coraggio.