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BATTAGLIE DI TAVOLINO

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Un giorno un mio amico mi disse: — Tu non studii abbastanza; tu leggi; leggere non è studiare; leggere è un piacere, e studiare è una fatica: infatti tutti leggono e pochissimi studiano. Quali sono le ore della giornata che tu dedichi a uno studio profondo? a quel lavoro di figgersi nella mente le cose lette, di pensarle, di rimestarle, di raffrontarle, di spremerne il sugo? a quella fatica di raccogliere cognizioni precise, di formarsi giudizî proprî, di combattere, ragionando, i giudizî altrui, che dissentano da' tuoi? Tu con la mente non lavori, ti balocchi.

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A vent'anni quante ragioni si trovano da opporre a questi consigli! I libri, i libri! O che si vive pei libri? Io ho del sangue nelle vene, io ho bisogno d'aria e di luce, io voglio leggere il gran libro della vita. Prima di studiare bisogna vivere. Perchè legarmi a questo strumento di tortura ch'è il tavolino? La vita è moto; chi si muove è sano, chi è sano è allegro, chi è allegro è buono, e chi è buono è più caro a Dio e più utile agli uomini che questi eremiti della società che si sono logorati sui libri, pieni di vanità, gonfi d'orgoglio e svogliati d'ogni cosa.

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Le prime lotte son dure. Voi avete preso la risoluzione di studiare, date un addio agli amici, correte a casa, aprite un libro. A un tratto sentite non so che dentro di voi che dà indietro, che si raggomitola, che si scontorce. Voi ravvicinate la seggiola, e vi ripiegate sul libro, e vi sentite sbalzato indietro daccapo. V'è qualcuno dentro di voi, un nemico sordo, muto, cocciuto, che s'impenna, s'ostina, non vuole intendere ragione; un poltrone che si dibatte come se lo trascinassero al supplizio. E la lotta dura molto tempo e diventa accanita fino a farvi morder le dita e picchiare il pugno nel muro senza quasi sentirne dolore, come se veramente quelle offese non fossero fatte a voi, ma all'altro; e voi foste intimamente persuaso che siete in due: un capitano animoso e un soldato vigliacco.

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Poi si provano le prime gioie della vittoria. Vien sempre il momento in cui l'io che vuole, traendo dall'ira la forza che non aveva potuto trarre dal proposito, grida un voglio così imperioso, che l'altro non osa più di ribellarsi, si acquatta, si annichilisce. Allora vi sentite in cuore una soddisfazione piena di alterezza e assaporate la voluttà del comando; provate un sentimento quasi di rispetto per voi medesimo, come se in voi ci fosse qualcuno più valoroso e più forte di voi.

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Dopo le prime lotte e le prime gioie, vengono i primi sconforti. Come nella mente del dotto una nozione chiama l'altra, e per poco che rimugini ne mette sottosopra una folla, ch'egli si fa sfilare dinanzi colla compiacenza d'un generale che passa in rassegna un esercito, o d'un avaro che conta le sue ricchezze; così nella mente di chi comincia a studiare una lacuna mette in un'altra lacuna, e il povero esaminatore di sè stesso, dopo aver molto errato nel vuoto, prova un sentimento di solitudine, che gli precide il coraggio e le forze. Da un dubbio di lingua a un dubbio di storia, da un dubbio di storia a uno di geografia, da uno di geografia a uno di fisica, e son tutte cose elementari, essenziali, necessarie, tali che, sebbene dalla maggior parte si ignorino, pare nondimeno così vergognoso l'ignorarle che s'è convenuto fra tutti di fingere reciprocamente di saperle. E allora, in quell'affollamento di stupori e di vergogne, lo assale una smania dolorosa di colmare quei vuoti; e tira giù libri, e rovista dizionari, e piega pagine, e appunta; e mentre una nozione s'appiccica, l'altra si stacca, e mentre questa riaderisce, quell'altre due si confondono, fin che gli si fa buio fitto nella testa, le braccia gli cadono, ed egli esclama sconfortato: È inutile, è tardi, torniamo alla vita di prima.

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Il giorno dopo, a mente fresca, si ripiglia speranza e vigore. Si studia fino a sera e la sera si coglie il premio. In quel breve riposo che ci si concede dopo un sobrio desinare, tutte le cose imparate, come se si fossero data la posta, balzan tutte insieme dai ripostigli della mente, vengono a galla, non cercate, con una specie di gara a chi giunga la prima, e fanno nella testa un tumulto che non si può esprimere. Sentenze di filosofi e regole di grammatica, versi e date, immagini e pensieri lucidissimi; e poi bagliori, barlumi lontani d'altri pensieri e d'altre immagini così fitti e rapidi che non lascian vedere le lacune oscure che poc'anzi ci prostravano nello sgomento. Quelli son momenti di gioia viva.

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Il sacrifizio più duro è quello della sera nella bella stagione. L'aria è odorosa, la città è splendida, udite giù per le scale il passo affrettato dei vicini, e risa di ragazze e di fanciulli; poi il rumore nella strada; poi la casa rimane silenziosa. Tutti sono usciti, rimanete solo. Allora vi tocca combattere contro le immagini seduttrici. Avete la fantasia eccitata dalla lettura, siete giovane, la lotta è fiera. È appena credibile quello che segue allo studioso in quei momenti. A volte vi sentite veramente soffiare nel viso un alito di donna che vi rimescola; vedete passare a traverso il vostro libro una treccia di capelli; udite dei passi leggeri, dei respiri, qualcosa che s'agita nell'aria. Allora vi piglia quella maledetta tentazione di dar una pedata al tavolino e di buttar a terra ogni cosa, gridando con un accento di trionfo e di disprezzo: — Alla cassetta della spazzatura, cartaccie! Io voglio vivere!

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Sono belle e feconde queste battaglie combattute nel silenzio d'una cameretta tra l'immensa avidità del sapere e la foga prepotente della giovinezza; questo divincolarsi sotto un giogo che ci siamo imposti noi stessi. Il sudore che ci esce dalla fronte in questa fatica è un sudore salutare, la stanchezza che ne segue è madre di nuove forze. Allora si comprende che son sapienti certi consigli che ci parevan degni di riso. Allora si vede la necessità di combattere acerbamente questo corpo ribelle che ci vuole imporre una disciplina codarda; d'infliggergli dei patimenti che lo prostrino, non tanto da renderlo inetto a servire, ma abbastanza perchè non possa più comandare. Allora si piglia l'abitudine della colazione alla Franklin: pane, frutta, acqua, e di rigore in rigore, si è condotti logicamente fino a fare uno sforzo per non appoggiarsi alla spalliera della seggiola; concessione pericolosa, che per una serie d'altre concessioni conduce insensibilmente a ricominciar la battaglia.

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L'arte di comandare a sè stessi consiste in gran parte nel trovar argomenti e parole efficaci per movere in noi la vergogna. Ci vuol immaginazione ed eloquenza. Una mattina ch'ero svogliato mi costrinsi a studiare con questo discorso. Supponi che le pareti, i solai, le scale della casa diventino ad un tratto trasparenti. Guarda in alto, in basso, intorno. Tu vedi da ogni parte menar scope, smover sacconi, spolverar mobili; la casa è tutta in moto e in faccende. Ebbene, giurami che se tutte quelle donne colle maniche rimboccate e il viso luccicante di sudore si voltassero tutt'insieme a guardar te sdraiato sulla poltrona colle braccia in croce, giurami che, in quel punto, non proveresti un senso di vergogna, non ti verrebbe fatto di afferrar subito un libro per fingere almeno che studiavi, non ti verrebbe detto, come a un ragazzo côlto in fallo, con accento di scusa: — Ma io lavoravo, sapete!

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T'amo, o tavolino! Tu, fra tutti gli oggetti della casa, sei il solo che rappresenti l'amicizia fedele. La porta che, nei nostri begli anni, risuona qualche volta al tocco d'un ditino, che ci fa balzare in piedi col cuore in sussulto, finisce col non aprirsi più che a qualche vecchio amico che ci viene a parlare di malanni. Lo specchio, che ci dice tante care cose, fin che abbiamo l'occhio scintillante e la guancia rosea, finisce per diventarci odioso come un importuno che ci rammenti sempre una sventura che vorremmo dimenticare. Il letto sul quale ora dormiamo i sonni pieni e quieti della giovinezza, finisce per diventare un giaciglio di spine sul quale cerchiamo inutilmente il riposo. Tu, tavolino, sei l'ultimo ridotto nel quale, affranti dai disinganni, ripariamo. Caro quando, accesi dall'ispirazione, ti percotiamo col pugno vigoroso, presentendo la gioia dei trionfi; ci sei caro ugualmente quando torniamo a te col cuore contristato da una speranza miseramente delusa. Giovani, t'amiamo per la gloria; vecchi, per la pace; e riedifichiamo su te l'edifizio caduto della giovinezza.

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V'hanno dei momenti nella giornata dello studioso, — anche giovane, — nei quali la vita, — non so per che improvviso rivolgimento d'idee — gli si presenta al pensiero soltanto sotto i tristi aspetti; i pericoli, le delusioni, le lotte inutili, la vanità di ogni cosa; — e tutte queste immagini gli paion come altrettante figure umane che, accennando lui, dicano: — Ecco un fortunato! — In quei momenti egli prova qualcosa di simile al sentimento di chi, stando chiuso in una stanza calda, vede cader la neve nella via. Egli si sente bene nel suo covo, è contento della maniera di vita che ha scelta, prova come un bisogno di rannicchiarsi, vorrebbe vivere in un guscio anche più piccino, per tapparvisi meglio, per essere più al sicuro. Gli par di essere nella sua stanza piena di libri come in una fortezza inespugnabile, fornita di provvigioni inesauribili, in mezzo à una vasta pianura corsa da eserciti furiosi che spargano sangue e paura.

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V'hanno altri momenti, per contro, nei quali par che vi manchi tutt'a un tratto il calore intimo della vita del pensiero. Allora ogni cosa si agghiaccia intorno a voi; lo scopo delle vostre fatiche vi par puerile; vi piglia un'uggia invincibile di tutto ciò che avete dinanzi agli occhi e sotto le mani; i vostri libri ve li sentite come ammontati tutti sul petto; la finestra vi par diventata lo spiraglio di un carcere; il soffitto vi par che s'abbassi sulla vostra testa. Vi manca il respiro, v'alzate, vi guardate allo specchio: avete i capelli aruffati, la barba lunga, gli occhi rossi; vi sentite inselvatichito, avvilito; vi pare d'esservi svegliato in una spelonca; provate quasi orrore di esser così solo, intanato; pensate agli amici, alla campagna, alla musica, alle signore eleganti, e dite a voi medesimo che siete un insensato e un infelice.

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Certe figure d'amici vostri che sanno tanto più di voi, dopo che vi siete dato a studiar di proposito, ingigantiscono. Prima vi pareva che i lampi che voi mandate valessero assai più dell'oro che essi possedono, e vi meravigliavate che anch'essi non fossero del vostro parere. Ma a poco a poco siete arrivato a capire come un uomo che ha studiato davvero, che ha fatto di quegli sforzi di volere che costano lotte faticosissime, e riportate di quelle vittorie intime che insuperbiscono al pari d'un trionfo pubblico, debba naturalmente far poco conto dell'ingegno che s'alza per la sola forza delle sue ali; che molto ardisce perchè ignora molto; che non sente la sua vacuità perchè non essendosi mai messo alla grave impresa di riempirla, non l'ha mai misurata. Capite ora come a quell'uomo l'opera d'un tale ingegno debba parere un edifizio fragile. Anche voi, a pari altezza, ammirate di più il vertice immobile d'una piramide che l'ondeggiamento d'un cervo volante. Chi studia, conquista; l'ingegno incolto, al suo paragone, par che rubi. Molti che vi parevano invidiosi perchè non vi battevano le mani, capite ora che non avevano per voi altro sentimento che quello d'una fredda disistima. Essi sono boccie di cristallo, e voi siete bolle di sapone.

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Studia; ma non ti rintanare, scriveva il Giusti a suo fratello; e v'è un proverbio spagnuolo che tradotto letteralmente, dice: «corsa che non dà il puledro nel corpo gli rimane.» Guai al giovine che per studiare si seppellisce! La durerà più o men tempo, e poi gli piglieranno delle malinconie disperate. Per non aver creduto a chi mi dava questo consiglio, mi svegliai qualche volta con una così profonda ripugnanza per lo studio e per la casa, che scappai come un frenetico, corsi alla campagna, camminai tutta la giornata, dormii in un villaggio, e non tornai in città che il giorno dopo come torna un forzato alla galera. E non bisogna tuffarsi intero negli studî, anche per non perdere ogni attitudine alla vita sociale. Chi sta troppo solo, non più usato a tollerare i difetti dei suoi simili, a far sacrifizî d'amor proprio, a soffrire degli attriti spiacevoli, quando poi ritorna in mezzo alla gente si sente urtato e punto in mille modi, da mille parti. E va qualche volta tant'oltre questa sensitività penosa, da renderci insopportabile la più leggiera contraddizione. Nello studio solitario l'amor proprio ingigantisce; l'io diventa formidabile. Le nostre fatiche eccessive par che ci diano il diritto, — qualunque sia il frutto che ne ricaviamo, — di tenerci da più degli altri. Assuefatti nel nostro piccolo mondo a regnar da principi assoluti, portiamo anche fuori di esso le pretensioni e le arroganze principesche. Bisogna andar sempre fra la gente per farsi rintuzzare le corna dell'orgoglio.

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Una volta stetti tre mesi di seguito chiuso in casa a studiare, dalla mattina alla sera, non uscendo che un po' dopo desinare per pigliare una boccata d'aria. Facevo la colazione alla Franklin, bevevo appena un bicchier di vino al giorno, non fumavo, mi levavo la mattina all'alba. Volli esprimentare fino a che punto di elasticità e di forza si potessero condurre le facoltà mentali, e che miglioramento si operasse nelle morali, rifiutando al corpo tutto quello che infiacchisce le une e corrompe le altre.

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I frutti del primo mese e di mezzo il secondo furono ammirabili. Sentivo la verità di quella sentenza del Rousseau: — Un giovane che vivesse in questa maniera fino a venticinque anni, schiaccerebbe poi facilmente tutti gli altri. — La memoria mi s'era fatta più facile e più tenace; capivo a volo cose che prima mi davan da pensare un'ora; idee che pel passato mi si svolgevano nella mente come un filo sgomitolato a fatica, ora scoppiettavano tutte insieme, al menomo tocco, come un nuvolo di scintille; ragionando, sentivo che andavo più addentro; parlando, dovevo fare uno sforzo per contenere la piena delle parole che volevano prorompere. Poi, per quello che riguarda il sentimento, valeva addirittura il doppio. La commozione che mi dava la lettura delle cose poetiche, era più pronta e più durevole. Leggendo ad alta voce certi versi, mi sfuggivan persino delle grida. Mi rendevo ragione di certi esaltamenti, che m'erano parsi fino allora inesplicabili, di artisti, o di uomini nati per essere artisti, che alla lettura di certi libri erano stati presi dalla febbre, avevan dato in voci e in gesti da spiritati. E di tutti gli effetti di quella maniera di vita, quello che mi colpiva di più era questo: che il mio pensiero tendeva sempre a andare in su, a smarrirsi fuori del mondo. Per ore e ore non facevo che fantasticare intorno agli astri, all'immortalità dell'anima, all'infinito. Mi ero chiuso la porta di casa, scappavo pel tetto. Ma, in complesso, il miglioramento era grande.

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Il terzo mese fu un mese di lotta, e finì colla mia sconfitta. Mi parve che la mia intelligenza diventasse inerte e la mia memoria s'intorbidasse. Rimaneva la commovibilità, ma era giunta al segno da potersi chiamare piuttosto irritazione morbosa che vigore sano di sentimento. Ero diventato stravagante. A volte, smettevo di leggere, per far dei giuochi di forza colle seggiole, fin che sgocciolavo di sudore. Sovente mi mettevo davanti allo specchio e discorrevo con me gesticolando e ridendo. Ebbi perfino paura che mi desse un po' volta il cervello. La mia padrona di casa mi diceva spesso: — Ma che vita la fa, caro signore? — L'ultima settimana non studiai quasi affatto. Eppure non volevo cangiar vita. Era una picca d'amor proprio. Avevo detto agli amici che non mi sarei più fatto vedere; non m'avean creduto; volevo spuntarla. Finalmente, una sera, irruppero in casa mia alcuni compagni del buon tempo, mi chiusero i libri, mi misero il cappello, mi cacciaron fuori a spintoni, e fu finita. Dopo d'all'ora passai due mesi quasi nell'ozio: solita conseguenza di queste pazzie di solitudine. Ma il primo giorno la pagai cara. Svegliandomi non mi ricordai subito della scappata della sera, e corsi col pensiero alla vita di prima. Allora il ricordo saltò su, vidi i miei bei propositi andati in fumo, la catena dei miei sacrifizî spezzata, tutto l'edifizio innalzato nella solitudine, in rovine; e mi sentii oppresso da una grande tristezza, come una fanciulla alla quale fosse stato tolto a tradimento il diritto di portare quel nome.

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Il miglioramento che s'era operato in me in quel primo mese di vita austera, mi fece persuaso di questa verità, che bisognerebbe pestar bene nella testa a tutti i giovani: che, cioè, noi non ci accorgiamo del danno che fanno all'intelligenza e al cuore i disordini giovanili, anche quelli che paiono, per la loro natura e per la loro misura, più perdonabili; ma che ne fanno, ne fanno, ne fanno. Un giovane d'ingegno vivacissimo e di vita disordinata, col quale un giorno mi trattenni su questo argomento, diceva: — Sì, ammetto, si reggerà un po' meno al lavoro, si scriverà cinque ore invece di dieci; ma l'ingegno non ne può soffrire; un uomo d'ingegno riman sempre un uomo d'ingegno; il lavoro della creazione artistica non può essere turbato. — E che ne sai? gli domandai. Puoi tu accorgerti di tutte le piccolissime alterazioni che si producono nella misteriosa macchina del pensiero? Puoi dire, quando ti si desta nella mente quel tumulto d'idee che precede l'ispirazione, puoi dire che non se ne desterebbe nessuna di più, se il giorno prima non avessi disordinato? Si citano i grandi scrittori che han menato una vita disordinata. Ma chi può dire che i cattivi versi e le pagine scipite che sono uscite anche dalla loro penna, non corrispondano appunto a quei giorni della loro vita in cui non vissero come dovevano? Sappiamo noi se, vivendo in un'altra maniera, non avrebbero fatto un'opera completa di ciò che ci hanno lasciato in frammenti?

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Un giovane che stia solo, se studia, se riman molto in casa, non solo finisce per amare la sua casa, ma per rispettarla; e molte cose che prima non gli parevano, gli paiono dopo una profanazione. Fra quelle quattro pareti dove avete provato tante nobili emozioni, leggendo, scrivendo, fantasticando creature eccelse e grandi amori, vi ripugna, vi umilia lasciar penetrare qualcuno per cui i vostri studî, il vostro ingegno, la parte più eletta di voi, è un argomento di riso o un mistero.

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La gioia che viene dalla fatica è grande, e grande quella che viene dall'ingegno; ma più grande senza paragone è quella che viene dalla fatica dell'ingegno. — Io lavoravo da quasi un anno intorno a quel soggetto; non avevo mai fatto, sopra un soggetto unico, un così lungo lavoro; e perciò mi pareva assai più lungo di quello che ora mi parrebbe. Quando s'ha la penna facile, e molte cose belle da dire (o se non belle, liete), pare che lo scrivere dovrebbe essere un godimento, che la giornata dovrebbe riuscir breve alla furia dell'opera, che l'ora del lavoro dovrebbe essere aspettata con desiderio impaziente. Eppure, erano appena due o tre giorni ogni quindici quelli in cui mi mettevo a tavolino volentieri e scrivevo di vena; tutti gli altri giorni pigliavo la penna collo stesso animo col quale lo schiavo afferra lo strumento del lavoro che lo rifinisce. Certi giorni avrei preferito vangare, spaccar legna, e portar sacchi come un facchino, piuttosto che scrivere. Rimandavo d'ora in ora il momento di cominciare, cercando mille pretesti, come per ingannare me medesimo; e talvolta, per salvarmi dal rimorso di quell'ozio, m'imponevo delle fatiche ch'erano in realtà assai più gravi che quella dello scrivere; come fare una carta geografica, studiare a memoria lunghi squarci di prosa, imparare sterminate filze di vocaboli d'una lingua straniera. Quando non avevo ancora scritto che una cinquantina di pagine del mio libro, mi pareva che, una volta arrivato a metà, avrei tirato un gran respiro e sarei andato innanzi sino alla fine, quasi senza sforzo; e pensavo sempre a quella metà benedetta, come si pensa al termine d'un viaggio pieno di traversie. Ma arrivato che ci fui, non provai nulla di quanto avevo sperato; e rimisi le mie speranze ai due terzi. Quante volte, anche dopo fatto più di mezzo il lavoro, fui tentato di rinunziare a finirlo! Quante volte mia madre, vedendomi in un canto della stanza colle braccia incrociate e gli occhi fissi, mi domandò: — Ebbene, a che punto siamo? — e io le risposi: — Indietro, cara, indietro, e ho paura che non andrò più innanzi! — Mi ricordo che invidiavo mio fratello, perchè impiegato che non aveva che da andare all'uffizio; che invidiavo tanti miei amici i quali non scrivevano che articoletti di giornale; che invidiavo tutti coloro che non avevano sul collo quel giogo di dover star tanti mesi lì a tavolino a stillarsi sulla stessa cosa, quella prigionia dell'immaginazione, quella schiavitù del pensiero, quel supplizio di tutti i giorni e di tutti i momenti. Finalmente giunsi alle ultime pagine. Ebbi un ultimo scoraggiamento, chi lo crederebbe? quando non me ne rimanevan più da scrivere che una quarantina; ma fu breve; dopo di che mi prese un'attività impetuosa, gioiosa, febbrile, che durò fino al momento che scrissi l'ultima parola. Ricordo come se fosse ieri l'ora, il tempo, la luce che inondava la mia stanzina, l'odore di primavera che di tratto in tratto mi portava il vento, e persino l'ordine in cui eran disposti i miei fogli sul tavolino, quando scrissi con mano agitata la parola: — Fine. — Dio buono, era un ben meschino lavoro quello ch'io finivo, appetto alle fatiche ventenni (rido del paragone) del Gibbon, del quale avevo letto pochi giorni innanzi la bellissima prefazione alla Storia della decadenza dell'impero romano! Eppure, in quel momento, sentii anch'io, come lui, l'immensa gioia della libertà riacquistata, e mi parve di affacciarmi a una nuova vita. Mia madre non sapeva nulla; il giorno prima le avevo detto che mi rimaneva un'altra settimana di lavoro; e la mattina medesima le avevo annunziato che appena scritta l'ultima pagina avrei rimesso in ordine i miei libri che da parecchi mesi erano tutti sossopra, e fatto un ripulisti generale sul tavolino, che era un monte di carte e di prove di stampa da non potercisi raccapezzare. L'ordine nella mia stanza sarebbe stato il segnale della fine del mio lavoro. Mi misi dunque in fretta e in furia, ma senza fare rumore, per non mettere sull'avviso mia madre, a ordinare, a pulire, a sgombrare, col tremito in cuore di esser sorpreso, trattenendo ogni momento il respiro per sentire se nessuno s'avvicinava, ridendo da me come un fanciullo e soffocando le risa, finchè tutti i libri furono al posto, tutte le cartacce nella cesta, e sul tavolino non rimase che il calamaio, la penna e gli ultimi fogli del manoscritto. Allora sedetti ed aspettai; il cuore mi batteva forte, mi sentivo il volto acceso, sudavo. Passarono alcuni minuti, nessuno veniva: cominciai a tossire; mi misi a cantarellare. Allora udii nella stanza vicina il passo di mia madre, mi alzai, le corsi incontro. Essa mi guardò e mi domandò con aria di meraviglia: — Che cos'hai? — Io le accennai il tavolino e dissi: — Guarda! — Guardò, non capì subito, stette un momento sopra pensiero, e poi gridò con uno slancio di gioia: — Ma dunque hai finito! — Io le gettai le braccia al collo, ed essa mormorò con voce commossa: Povero figliuolo!

Tutt'a un tratto mi sentii mutare quella gioia vivissima in un sentimento quasi di mestizia. Mia madre se ne accorse e mi domandò: — A che pensi? — O madre mia, risposi, penso che per meritare questa soddisfazione avrei dovuto fare ben altro lavoro! Nondimeno son contento (e qui soggiunsi una frase che soglio dirle quando son contento, e che la fa sempre ridere) e ti ringrazio d'avermi messo al mondo.

Ciò detto, le porsi il braccio, uscimmo dal mio gabinetto, e facemmo la nostra entrata trionfale nella stanza da pranzo dov'era il resto della famiglia.

Vorrei che la donna che mi ama m'avesse visto in quel punto, perchè, lo dico francamente, ero bello.

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