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SCORAGGIAMENTI
ОглавлениеErano le nove della sera: Teresa ricamava accanto al fuoco, quando udì picchiare leggermente, corse all'uscio e più per abitudine che per diffidenza domandò chi fosse.
— Io! — rispose una voce aspra. Teresa aperse, entrò un giovane ravvolto in un mantello, si baciarono, e la ragazza gli domandò subito:
— Che hai, Mario?
— Perchè questa domanda? domandò il giovane alla sua volta.
— Perchè non hai detto io come gli altri giorni.
Mario la guardò un po' senza rispondere, poi buttò in un canto il mantello e il cappello, e s'avvicinò al caminetto. La ragazza tornò al suo posto, e tirò a sè un panchettino, sul quale sedette il giovane, appoggiando un gomito sul suo ginocchio e la testa sulla mano.
Stettero così qualche momento senza parlare; poi Teresa domandò timidamente:
— Hai scritto?
— No — rispose il giovane con aria pensierosa.
— Hai fatto male.
— Avrei fatto peggio se avessi scritto: anche oggi son vuoto come una bolla di sapone.
— È un mese che lo dici.
— È assai più d'un mese che lo sento. Sento che sono una buccia di limone spremuto. Un critico disse una volta una verità semplicissima, ma profonda: — Per scrivere bisogna avere qualcosa da dire ai proprî concittadini. — Ebbene, io non ho nulla da dire e non scrivo. Scrivere solamente per far sapere al pubblico che si sa accozzare il verbo col sostantivo e far delle infilzate di epiteti, non mi par degno d'un uomo.
— Mario, — rispose la ragazza mettendogli una mano sul capo e sorridendo: — dici questo sul serio o soltanto per farmi stizzire?
— Per farti stizzire? Lo dico con tutta la serietà d'una certezza dolorosa. È più d'un mese che per me il tavolino è la ruota del tormento, e mi ci mordo le dita senza riuscir a scrivere un periodo. Ho un bell'eccitarmi prima, leggere versi ad alta voce come consiglia il Buffon, pensarci su come dice il Manzoni, ed anche tenere i piedi nell'acqua fredda come faceva lo Schiller, frugar dentro di me, ravvivare tutti i sentimenti che m'inspiravano una volta; ogni cosa è inutile. Seduto che sono al tavolino, mi pare che il cuore e il cervello mi si raggrinzino come vesciche crepate, e non mi riesce più di afferrare un'idea che meriti l'omaggio d'una goccia d'inchiostro. Ti giuro che dico la verità.
— Non giurare.... m'hai detto altre volte le stesse cose e dopo qualche giorno le hai disdette.
— Cara mia, anche le malattie disperate hanno i loro alti e bassi, e non v'è moribondo al quale non brillino dei barlumi di speranza. Ho avuto anch'io i miei barlumi.
— Ma che melanconie son queste, Mario?
— Non sono melanconie, son disinganni. Vuoi che io ti dica una cosa che non ho mai detta a nessuno e che non ho quasi mai osato dire a me medesimo, ma che ormai credo fermissimamente vera, tanto che provo quasi un sentimento di sdegno contro tutti coloro che per lungo tempo cospirarono a farmi credere il contrario? Te la dico in tre parole: — Ho sbagliato strada.
— Andiamo, — disse con vivacità la ragazza, — ora ti faccio ravveder io. Io conosco il segreto di tutte queste malinconie. Tu hai una ruga qui tra ciglio e ciglio che quasi non si vede quando sei sereno, e quando non lo sei, diventa profonda come una ferita. Ora è un mese che io ti vedo codesta ruga quasi tutti i giorni. Ecco perchè non puoi lavorare. Disinganni, vesciche, buccie di limone spremuto, son tutte fantasie: il male sta qui. Dunque non c'è da far altro che spianare la ruga; — e appuntandogli l'indice fra ciglio e ciglio soggiunse: — e io ci terrò il dito su fin che sparisca, e allora vedrai che ti tornerà l'inspirazione e la fiducia in te stesso.
Mario le strinse il mento fra l'indice e il pollice, poi lasciando ricader la mano, rispose con un sospiro: — Ah buona Teresa, sulla ruga vera tu non puoi mettere il dito perchè è dentro al cervello.
— Oh allora, — disse la ragazza con quel tuono di ironia benevola che s'usa coi bambini fingendo di dare importanza a una corbelleria, — allora non c'è rimedio. Capisco anch'io che hai sbagliato strada. Non parliamone più.
— Eppure, — riprese il giovine senza badarle, — benchè questa certezza si sia impadronita di me a poco a poco, risparmiandomi così il dolore d'uno di quei disinganni improvvisi, che schiacciano prima che si sia potuto pensare a resistere, io credevo che l'avrei sopportata con cuore più fermo. E veramente quando s'è nutrito per molti anni la speranza di riuscire qualche cosa nel mondo, e s'è veduto godere di questa medesima speranza la famiglia e gli amici, e s'è avuto dalla gente mille dimostrazioni di simpatia e di rispetto, non tanto per quello che s'era quanto per ciò che si prometteva di divenire; dopo tutto questo, l'accorgersi che ci si è ingannati e che s'è ingannato gli altri; prevedere che un giorno la gente ci farà scontare col disprezzo le lodi che le abbiamo scroccate; sentirsi a poco a poco riattrarre e poi travolgere e annegare nella folla sulla quale si era riusciti ad alzare un momento la testa; persuadersi infine che s'è sciupato gioventù, ingegno, fatiche per prepararsi dei disinganni e delle vergogne, mentre percorrendo una strada più modesta si sarebbe ottenuto un nome onorato e una vita tranquilla; è un cangiamento questo, mia cara Teresa, che somiglia a quello di un uomo il quale di ricco e potente si trovi ridotto mendico.
Teresa lo guardò attentamente, e poi, sospettando ancora ch'egli non parlasse sul serio, prese un libro, lo aperse, mise un dito sul nome dell'autore, e domandò con ingenuità fanciullesca, abbassando la voce: — È questo signore che parla?
— È lui, lui, — rispose Mario respingendo il libro. — Ah! cara amica, quanto t'inganni se credi che la vista di tutta quella cartaccia stampata mi faccia provare il menomo sentimento di alterezza. Sì, certo, quando sono in mezzo alla gente, mostro di credermi qualche cosa; il mio amor proprio sta sulle difese. Il vedere la presunzione di tanti che valgono anche meno di me, e il timore di fornire agli altri, mostrando di stimarmi poco io stesso, il pretesto di stimarmi anche meno, mi tengono un po' su; e per questo, chi mi ferisce dal lato dell'amor proprio, sente la resistenza dell'orgoglio. Ma davanti a me stesso è altra cosa! Se ti dicessi che passan dei mesi ch'io non leggo una pagina di mio, nemmeno se mi cade sott'occhio, per timore della sgradevole impressione che ne riceverei? Se ti dicessi che, riandando le cose mie, anche le meno peggio, mi piglia il sospetto che un accordo d'amici, la benevolenza dei conoscenti e l'indulgenza sollecitata di molti altri sian stati la cagione di quel po' di fortuna che ho avuta? E se ti dicessi ancora che, quando correggo le prove di stampa, qualche volta mi sento tutt'a un tratto salire il sangue al viso, e penso alla maniera di sciogliermi dall'impegno contratto coll'editore, e comprendendo che non è più possibile, cerco almeno che ci sarebbe da fare per impedire la diffusione del libro, o se non altro, per evitare che lo legga il tale o il tal altro, di cui mi preme non perdere la stima?
— Ma queste, scusa, sono esagerazioni! E poi, qualunque opinione tu abbia di te stesso, non potrai mettere in dubbio un fatto che dovrebbe bastare a darti coraggio: il favore pubblico.
— Qui ti volevo. Il favore pubblico! Che cos'è questo favore pubblico? che cosa prova? Chi non ne ottiene un po' di questo favore, scrivendo, pur che abbia cuore e non offenda alcuna classe della società e segua l'andazzo del tempo e scriva cose che la maggior parte sentono o pensano, o non hanno interesse di negare? Entra in un caffè di una qualunque delle nostre grandi città, e sarà un miracolo se non ci troverai in un canto qualche pover'uomo a cui nessuno bada e di cui nessuno sa il nome, del quale venti o trent'anni prima qualcuno non abbia detto o stampato che era una speranza della letteratura italiana e che sarebbe diventato una gloria della patria. A vent'anni abbiamo tutti qualcosa di bello nel capo e di generoso nel cuore, e abbiamo tutti bisogno di farlo sapere. Ebbene, io l'ho fatto sapere, ho fatto il mio sfogo di giovanotto e sta bene. Ma ora basta, ora dovrei buttare la penna da parte e abbracciare una professione; perchè altro è esser nato per passare per lo stadio di scrittore, altro è esser nato per restarci; e una cosa è aver ingegno per scrivere, e un'altra cosa aver tanto ingegno da poter legittimamente non far altro che scrivere.
— Io non so rispondere a tutte queste cose, — disse Teresa con voce commossa, — ma mi pare che non sia tutto vero. Che cosa vuoi concludere? Che non devi più scrivere? Vuoi farmi dire che non sai far nulla? Vuoi provarmi che sei uno scemo?
— No, perchè non lo sono; se lo fossi, non mi sarei disingannato, non ti terrei questi discorsi; continuerei a credermi un animalaccio raro, come fan molti, a dispetto del mondo intero. Il mio disinganno prova che c'è qualche cosa in questo nocciolo di testa. Ma il gran punto è che questo qualche cosa non basta. Vi sono ben dei momenti che abbraccio col pensiero un grande spazio intorno a me; ma son vedute istantanee, come quelle della notte al chiarore d'un lampo. Afferro colla mente un dei capi d'una catena d'idee; ma dò uno strappo, e non mi resta in mano che il primo anello. Ci corre, cara mia, da questi scatti d'ingegno alla forza dell'ingegno vero! a quell'ingegno confidente e imperioso, che si afferma qualche volta con parole superbe; quello che getta sprazzi di luce e pezzi di oro massiccio, che tira a sè e rende muti in sè stesso altri ingegni minori, che corre la sua strada destando e schiacciando ad un tempo ire ed invidie mortali, che s'innalza egli stesso degli ostacoli e li rovescia, che va a battere le ali dove gli altri arrivano appena collo sguardo, che trascina, innamora e spaventa! Questi sono uomini d'ingegno, spiragli aperti nella natura umana, per i quali la moltitudine vede confusamente qualche cosa del mondo di là, che le strappa un grido di meraviglia. Questi hanno diritto di consacrare tutta la loro vita all'arte; questi sono i grandi alberi della vegetazione umana; il resto è erbaccia parassita, ed io sono un filo di quest'erba.
— Grandi alberi! — mormorò Teresa timidamente. — Fuor che quei quattro o cinque che tutti sanno, per ora, di grand'alberi che vengano su, io non ne vedo. E qui pronunziò in fretta una lunga serie di nomi, e domandò: Son questi forse gli spiragli aperti nella natura umana?
— No, — rispose Mario; — ma benchè io sia da meno di questi, non mi debbo paragonar con essi, per aver una idea giusta di quello che sono. Debbo metter tutti costoro in un mazzo, me compreso, e paragonarli ai pochissimi che sono sulla sommità della scala. Bisogna uscir dal proprio paese, cara mia, per vedere che cosa paiono, viste da lontano, certe gloriole di casa! Quando si vede che i veri grandi nomi, anche nostri, ed anco di questi ultimi tempi, suonano sul Tamigi come suonano sul Tevere, sul Tago come sul Reno, sulla Senna come sull'Adige, che conto vuoi più che si faccia di quelli che cascano come palloncini sgonfiati sulle frontiere del proprio paese? Che cosa siamo al paragone di quell'aquile che fanno il giro del mondo, noi moscerini che viviamo in un soffio d'aria, e facciamo un ronzío che non si sente da una foglia all'altra d'un fiore? noi che mostriamo con pompa, come tutto il nostro avere, una qualità che in quelli altri non è che una delle mille faccette della perla del loro ingegno? Ah come si capisce tutto questo viaggiando! Quando uno straniero mi domandava: — Lei scrive? — io rispondevo in fretta arrossendo, come uno che respinga un sospetto ingiurioso: — No! no! non scrivo!
Teresa scrollò la testa sorridendo, come per dire: — Sei sempre lo stesso!
— E poi, — riprese Mario dopo una breve riflessione — vivere per scrivere! Bella presunzione è questa di aver nel capo tante cose degne d'esser dette al mondo, da dover impiegare tutta la vita a dirle! E con che diritto s'impiega la vita in questa maniera? Scrivere, in materia d'arte, non si dovrebbe che per soddisfare un bisogno dell'anima; e soddisfare un bisogno non può valer lo stesso che pagare un debito. Dunque chi non fa altro che scrivere, non paga il suo debito alla società; e se ad altri pare, a lui non deve parere. Rispondere: — Scrivo — a uno che mi domandi qual è la mia professione, mi pare lo stesso che a uno che mi domandasse: — Che cosa fai costì? — rispondergli: — Respiro. — E chi è questo poltrone che mentre tanta gente migliore di lui suda sangue per guadagnarsi la vita, passa la giornata sur una seggiola a predicar la virtù e ad eccitar gli altri a fare? Lavori il giorno anche lui, e scriva la sera a tempo avanzato. Cacciatelo in un'officina!
— Oh questa poi! — esclamò Teresa tra indispettita e intenerita. — Tutti non possono lavorare colle braccia! —
— Ma io posso! E che credi? Che non mi vergogni qualche volta d'esser robusto? Quando vedo ammontati sul mio tavolo quei cinque o sei libracci che ho scritti, dei quali fra qualche anno non si troverà più il titolo in nessun catalogo di libraio, e penso che ho speso a farli gli anni più vigorosi della gioventù, e che spenderò forse nello stessa modo, e non con miglior frutto, gli anni che mi restano; e poi guardandomi nello specchio, mi vedo un par di spalle da atleta, che so io? sento che c'è una sproporzione fra me e il mio lavoro, un disaccordo, un qualche cosa che non va; mi sento dentro una voce di rimprovero; mi pare come di aver sciupato una trave per fare un bastoncino; e provo non so che bisogno di curvar la schiena sotto dei pesi e d'incallirmi le mani sopra uno strumento.
Teresa gli afferrò le mani.
— Quanti uomini sciupati — continuò Mario — con questo maledetto scrivere! Uomini di un sentire nobilissimo, dotati d'una certa facoltà di trasfondere in altri l'anima propria, forniti d'un sentimento pel bello, parlatori facili, che avrebbero, in un altro campo, acquistato ed esercitato un potere benefico su molta gente.... sciupati! Io per esempio, ch'ero nato per fare il maestro di scuola, a segno che, quando vedo in una stanza quattro banchi e un tavolino, mi sento rimescolare! E non solo il maestro di scuola: sento che sarebbe stata la mia vita l'aver che fare con povera gente, con operai; sento che, se fossi pretore in un villaggio, mi farei fare una statua. E così quando leggo gli scritti di molti miei amici romanzieri, poeti, critici, vedo tra riga e riga le belle facoltà mal impiegate, e penso con rammarico che l'uno sarebbe riuscito un eccellente medico condotto, un altro un direttore di collegio inimitabile, un altro, un avvocato onestissimo e valentissimo. E dico a loro e a me: — Siamo fuori di strada! Tutti fuori di strada per aver preso per nostra dote principale una dote secondaria, che doveva soltanto servire d'aiuto, d'ornamento alle altre; per aver creduto che ciò che non ci dovrebbe occupare se non un'ora al giorno, bastasse a riempirci tutta la vita; per aver considerato come una vocazione quello che non era che una tendenza!
— E quando vedi codesti amici — domandò Teresa sorridendo — lo dici loro che avrebbero fatto meglio a fare i medici condotti?
— Non mi seccare con quel loro, Teresa; di' glielo dici; te n'ho già pregato altre volte.... E che cosa segue da ciò? Segue che, avendo l'ambizione, senza aver la potenza di destare l'ammirazione del paese, diventiamo come gli accattoni che si contentano di quello che gli si dà: ci contentiamo di ispirar la simpatia, la stima, la considerazione, di acquistare la notorietà, la distinzione; e leggerai infatti ogni momento il simpatico, il pregevole, lo stimato, il noto, il distinto scrittore, e altri insipidi e sguaiati appellativi, che pure nella nostra nullità ci fanno sorridere di compiacenza; ma che a spremerne il sugo voglion dire: mediocre, insignificante, impotente, nullo, perchè chi, avendo dedicato la vita all'arte, non riesce che a rendersi simpatico, stimato, pregevole, ha sciupato tempo e fatica. E in fondo all'anima, lo sentiamo anche noi. Per questo, invece di lavorare serenamente e nobilmente, ci affanniamo, facciamo ogni sorta di sforzi disperati per saltar fuori dalla pegola della mediocrità che ci affoga; e buttiamo fuori in furia un libro dopo l'altro, avidi, impazienti, sperando sempre che l'ultimo che stiamo facendo, sia quello che ci porrà sul piedestallo della gloria; supplicando la gente che passa di soffermarsi; gridando al paese: Vòltati, guardami, t'assicuro che ho del genio, dammi tempo a far qualche cos'altro, non profferire ancora l'ultimo giudizio, aspetta, vedrai. — E intanto il vento porta via libretti e libracci, e noi invecchiamo trascurati e dispettosi, finchè un bel giorno si tira il calzino, dieci giornali dicono che s'è lasciato larga eredità d'affetti, e il giorno dopo nessuno pronuncia più il nostro nome. Ecco la carriera degli scrittori simpatici, stimati, noti, distinti; la mia carriera e quella di cento altri campioni della giovine letteratura.
— Ma tutti — disse Teresa, — anche i più grandi, hanno avuto di questi scoraggiamenti!
— Erano altri scoraggiamenti, — rispose Mario; — stanne sicura. Si scoraggivano perchè sentivan la loro opera troppo inferiore al loro ingegno; ma non è che non sentissero l'ingegno. Essi hanno gettato sul mondo i riflessi della luce che brillava alla loro mente, e a noi questi riflessi paion già una gran luce; ma chi può immaginare lo splendore che vedevan loro cogli occhi del genio? Chi sa che portentoso Cinque maggio balenò ad Alessandro Manzoni, prima che si mettesse a scrivere quello che noi conosciamo? Tutti i grandi caddero qualche volta; ma caddero a pochi passi dalla cima della montagna, ed erano già saliti ad un'altezza tremenda. Non cadevan per fiacchezza, cadevano per vertigine. Erano battaglie, nelle quali riuscivano ora vinti, ora vincitori. Ma in me, vedi, non c'è lotta; in me è calma morta. Ai grandi che picchiano alla porta del tempio dell'Arte, qualche volta una voce di dentro risponde: — Non ancora: — A me quella voce risponde: — Via! — Quelli sono pregati d'aspettare, e io sono scacciato come un cialtrone.
Teresa aperse il libro che aveva preso poco prima e finse di mettersi a leggere senza badare alle parole di Mario.
— Leggi, leggi, — continuò Mario sorridendo, — chi si contenta, gode. Intanto io farò un pochino di critica al tuo autore. I suoi personaggi son tutti fantocci che recitano la medesima parte, e non ne vien uno in iscena, che non lasci veder sotto la mano del burattinaio. Tre idee tinte di mille colori; ma non più che tre idee. Un manzonismo annacquato, senza coraggiose affermazioni; un ciondolío perpetuo fra il credo e il non credo; un voler far sentire la cosa senza compromettersi colla parola; una doppia paura di far sorridere i miscredenti e di scontentare le mamme pie; un tirar sempre al cuore, a tradimento, quando si dovrebbe tirare alla testa; e persino nella lingua, la persuasione profonda che si debba dare un calcio alle convenzioni, agli scrupoli grammaticali, alle parole illustri, a tutte le formole della lingua scipita, pedantesca, bastarda, che si parla fuor di Toscana; e la vigliaccheria di non farlo per paura di coloro che combattono la proposta del Manzoni, perchè non vogliono ricominciare a studiare.
— Io non me ne intendo di lingua, — disse Teresa; — non ti so cosa rispondere. Ma per quel ch'è dei fantocci, purchè dicano delle cose buone, che importa se si vede la mano? — Così dicendo, rise e gli prese la mano.
— Dir delle cose buone! esclamò Mario. — Vorrei che tu mi dicessi che diritto ho io di dire delle cose buone, io che non ne faccio, e di metterci sotto la mia firma, come se le facessi. Mi ricordo, pochi giorni fa, quando ti dissi che compivo ventisette anni, tu esclamasti: — Ventisette anni! Hai già fatto molto! — Fatto molto! non ho ancora salvato la vita a nessuno, — non ho mai passato trenta notti di seguito al letto d'un ammalato, — non mi sono mai messo a rischio di buscarmi una coltellata per levare una donna dalle mani d'un brutale che la schiaffeggia nel mezzo della strada, — non ho mai fatto dieci miglia a piedi per andar a portare una buona notizia a una famiglia povera, — non mi son mai privato un mese di seguito del sigaro, del teatro e della birra, per fare un regalo a un mio antico maestro elementare che si trova nella strettezza. Ebbene, conosco dei giovani che fecero e che fanno tutte queste cose, e che si vergognerebbero di scriverle, e che quando le leggono scritte da me, mi dicono: «bravo! Lei fa del bene! Beato lei!»
— Vero, e con questo?
— Con questo, quando mi dicono quelle parole, io arrossisco perchè dovrei dirle io a loro; e loro dovrebbero dire a me che sono un impostore.
— E allora, — disse Teresa con un'ironia faceta, di cui Mario non s'accorse; — se scrivendo delle cose morali ti pare di far l'impostore, scrivine delle immorali e vivrai in pace colla tua coscienza.
— No! — rispose Mario — mai. Se volessi anche, non potrei. Su questo punto tu non conosci ancora le mie idee, e te le dico. Da un uomo di genio, di quelli che ti ho definiti poco fa, accetto tutto; creda, non creda, sia ottimista o veda tutto nero, non mi riveli che il bello o non mi mostri che le brutture dei suoi simili e le sue, — dissento, deploro — ma accetto, — o almeno mi rendo ragione del come gli possa parer lecito di scrivere quello che pensa e quello che fa. È un uomo di genio; preferisco averlo com'è al non averlo; anche offendendomi e sconfortandomi, mi fa vedere molte cose sotto una faccia nova; mi costringe a pensare; mi fa, se non altro, ammirare in sè un nuovo stampo d'uomo, e una gradazione di più nell'infinita varietà della natura. Sta bene. Ma che un uomo d'ingegno della seconda sfera, uno di quelli dei quali è dubbio se abbiano fatto bene o no a scegliere la via delle lettere, e che dovrebbero, poichè il mondo può benissimo far di meno di loro, cercare tutti i modi di farsi perdonare l'ambizione che li rode; che uno di questi, dico, abbia la sfacciataggine di gridare al mondo: — Vòltati — per fargli sapere che non crede a nulla, che è divorato dalla bile, che disprezza i suoi simili, che vive fra le sgualdrine e s'ubbriaca; questo, per Dio, non solo non lo ammetto, ma non lo capisco; e non capisco come il pubblico non si stomachi di queste scimmie degli scapestrati di genio, e non se li levi di torno colla scopa.
— Dunque scrivi morale! — disse Teresa — Io non so più che cosa dirti! Dici che sei un impostore! Basta essere onesto per poter scrivere delle sante cose senza fingere. Come potresti scrivere, se prima di metterti a tavolino, dovessi far dieci miglia a piedi per portare una buona notizia a una famiglia povera?
Mario sorrise e scrollò una spalla; e dopo qualche minuto di silenzio, disse:
— Un giorno, a Firenze, passeggiando fuor di Porta Romana, sull'imbrunire, vidi tutt'a un tratto una gran luce dietro un gruppo di case e gente che correva. Presi anch'io la corsa e arrivai dinanzi a una casa che bruciava, in mezzo a una folla che faceva un grande strepito. L'incendio era scoppiato da poco; ma uscivan già fiamme dal tetto e da parecchie finestre, e si sentiva dentro un fracasso spaventoso di travi che cadevano e si spezzavano, e in mezzo alla folla grida di donne e di bimbi, che facevan pietà. Arrivarono in quel momento le pompe e le guardie, e cominciò il solito lavoro di far dare addietro la gente, coll'urlío e il disordine solito. Tutt'a un tratto si sentì un grido straziante e si vide molta gente affollarsi da una parte. Era la solita disgrazia d'una donna che aveva chiuso il bambino in casa per uscire, e che tornava troppo tardi. La voce si sparse in un batter d'occhio. Per fortuna la finestra della camera dava sulla strada; fu portata una scala e appoggiata al davanzale, e una guardia salì. Ma sì! non era ancora arrivata in cima, che uscì un nuvolo di fumo nero e una lingua di fuoco dall'alto della finestra, e il pover uomo si sentì mancare il coraggio. La folla gridò: — Giù! Giù! — La guardia saltò giù; un'altra salì, e ricascò in terra come la prima; cinque o sei uomini si agitavano ai piedi della scala, e nessuno saliva. Intanto la povera donna gettava delle grida orribili, si buttava in ginocchio, si stracciava i capelli, faceva cose da lacerare il cuore. Allora non so che cosa seguì in me; mi si velò la vista, mi balenarono mille pensieri in un punto, quel bambino, mia madre, una gioia immensa; sentii come una voce sovrumana che mi gridò nell'orecchio: — Va! — e nello stesso momento un impulso irresistibile che mi sbalzò quasi ai piedi della scala. Ma là.... mi parve d'essere afferrato di dietro da un artiglio di ferro, e rimasi inchiodato, immobile, trasognato, come uno che si trovi tutt'a un tratto sull'orlo di un precipizio. Mentre guardo intorno e rinvengo in me, un uomo si spicca dalla folla come una saetta, butta in terra una guardia, sale in cima alla scala, dispare nella finestra che pareva la bocca d'una fornace, — si fa un profondo silenzio — l'uomo ricompare — la folla getta un grido — quegli sale sul davanzale, si gira, mette il piede sulla scala, discende e casca in terra spossato.... Aveva portato giù il bambino sano e salvo! Ebbene, è una cosa che seguì molte volte, tu mi dirai. Ah Teresa! ma quella volta ero là, ho visto tutto; — ho visto quella donna quando si slanciò al collo di quell'uomo, — l'ho guardata negli occhi, — ho contato i baci furiosi che gli ha stampati sulla fronte e sul petto, — ho sentito le sue grida — le sento ancora — non credevo che un viso umano si potesse trasfigurare in quel modo, e che delle voci e dei singhiozzi di gioia come quelli là potessero fuggire da questo petto di creta senza spezzarlo! Non credevo che si potesse esser belli, felici, gloriosi, com'era quell'uomo, quando si passò una mano nei capelli strinati — fiutò la mano — e si mise a ridere!
Teresa era commossa.
— Io tornai a casa — continuò Mario, — triste e pieno di disprezzo per me medesimo, come se avessi commesso un'azione vergognosa. Pensavo a quell'uomo, e mi pareva di essere meno che un verme della terra accanto a lui. Pensavo ai miei studî, e alle mie piccole soddisfazioni d'amor proprio, e ogni cosa mi pareva fredda e meschina, al paragone della gioia infinita che m'ero lasciata sfuggire. Rientrai in casa, accesi il lume e mi lasciai cadere sopra una poltrona, dicendo a me medesimo: — Bravo! Ecco il tuo piedestallo! — Sentivo delle voci nella strada, che mi parevano l'eco delle grida della madre e della folla, e da tutte le parti vedevo quella finestra infocata, la scala, l'uomo che saliva. A un tratto, mi cadon gli occhi sul tavolino, c'eran delle carte sparse, non mi ricordavo che fossero, guardai.... Erano pagine d'uno scritto, nel quale dicevo mille belle cose intorno all'amor materno, alla virtù del sacrifizio, alla generosità, al coraggio. Che vuoi che ti dica! Quelle parole, in quel momento, mi fecero l'effetto d'una ciurmeria ignobile, d'una ostentazione ipocrita e sfrontata; mi sentii salire il sangue al viso; buttai in terra, con una manata, quel mucchio di fogli....
Teresa gli pose una mano sulla bocca.
— E ci sputai sopra tre volte! — soggiunse Mario respingendo la mano.
— No, Mario! — esclamò Teresa — non le dire queste cose!
— Lasciamele dire — rispose Mario, con un sorriso mesto e amorevole: — è questo uno dei pochi bei tratti della mia vita. E ora sai perchè mi pare un'impostura lo scrivere quello che non faccio.
— Eppure! — gli disse Teresa — guardandolo negli occhi, dopo alcuni momenti di silenzio. — Eppure domani tu scriverai.
Mario si strinse nelle spalle.
— Sì, scriverai, — riprese Teresa — perchè io son donnina da trovare nella mia piccola testa delle ragioni convincenti da opporre a tutte quelle che mi hai dette finora per provarmi che non devi più scrivere.
— Sentiamole.
— Ma non oso dirtele perchè.... non mi so esprimere; sono una scioccherella.... io non m'intendo di letteratura.
— Credi agli angeli?
— Io sì.
— E credi che gli angeli s'intendano di letteratura?
Teresa sorrise, e continuò: — Ebbene, ecco la mia idea. Dici che dovrebbero scrivere solamente i grandi e questo non mi par giusto. In questo mondo ci sono tante anime che si somigliano, che vivono nella stessa maniera, che vedon le cose dallo stesso lato, che hanno perfino le medesime debolezze. Ebbene, queste anime si cercano, e quando s'incontrano, sia anche in una pagina d'un libro, ne godono, e si attaccano a chi ha scritto quella pagina, come a un intimo amico. I grandi scrittori ne abbracciano un gran numero di queste anime, perchè abbracciano la natura sotto moltissimi aspetti. Gli scrittori che vengon dopo, ne abbracciano soltanto poche; ma bastano anche queste poche perchè essi abbiano ragione di essere. I grandi scrittori destano la maraviglia, l'entusiasmo: gli altri solamente l'affetto e la simpatia. Ebbene, anche far nascere una simpatia mi pare che sia un effetto che giustifichi un libro, perchè la simpatia è una disposizione benevola del cuore, e una disposizione benevola è la metà d'una buona azione. E poi, perchè il grande dovrebbe escludere il piccolo? e il bellissimo escludere il grazioso? Non ci dovrebbero essere delle margheritine e delle viole perchè ci sono dei girasoli e delle rose? Forse che il poema di Dante m'impedisce di piangere e di sentirmi riaver l'anima leggendo le novelle del Thouar? Quando uno è sicuro che cinquecento persone leggeranno quello che scrive, ogni volta che gli viene un buon sentimento, fosse anche a proposito di due lucciole che passano, lo deve scrivere; e se impiega tutta la sua vita a scrivere delle cose che trasfondono un buon sentimento in cinquecento persone, la sua vita mi par che sia bene impiegata. E quanto allo scrivere quello che non si fa, mi par che tu non abbia ragione neppure; le buone azioni non si fanno soltanto col coraggio e coi sacrifizî; destare degli affetti gentili, consolare, intenerire, rasserenare l'anima per un momento a qualcuno, sono buone azioni non meno meritorie che star un mese senza fumare per fare un regalo a un maestro. Che importa se un libro che ha prodotto questi effetti, dopo un certo tempo è dimenticato? Quante buone azioni non si dimenticano ogni giorno! Forse che non si dovrebbero fare buone azioni che pei posteri? Ma perchè mi perdo in ragionamenti? Chi più di te sentiva queste verità, quando scrivevi le tue prime cose, e ogni volta che ne finivi una, comparivi qui colle braccia aperte e il viso radiante e mi dicevi: — Teresa, quanto mi rincrescerebbe morire! — Teresa, non dirmi che sono superbo: t'assicuro che oggi dentro di me c'era un angelo; era lui che mi dettava; se non ho scritto meglio, è perchè ho inteso male quello che diceva, tanto mi parlava in furia! — E vedi che anche adesso ti splendono gli occhi a sentirti ricordare quei giorni. — Dammi la mano, Mario — riprendi coraggio e fiducia — cercala qui l'ispirazione — nel cuore — vedrai che ti risponderà — la tua forza è qui; — promettimi che scriverai ancora, — che tornerai di nuovo qui contento e glorioso a farti baciare sulla fronte, — dimmi che ti senti l'angelo, Mario!
Mario, commosso, le chinò il capo sul seno, e rimase per lungo tempo immobile e pensieroso.
Finalmente Teresa gli mormorò all'orecchio: — E l'angelo?
— Oh! perdio sì! — gridò Mario balzando in piedi col viso radiante e battendosi una mano sul petto, — c'è ancora!