Читать книгу Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I - Elia Augusto - Страница 3
CAPITOLO II
1847-48 Insurrezione della Sicilia Messina-Palermo-Catania-Calabrie
ОглавлениеCome la più oppressa tra le regioni italiane, la Sicilia fu la prima a tentare di scuotere il giogo che le gravava sul collo appena si ebbe sentore delle idee liberali di Pio IX. Primissima Messina, il 1o settembre del 1847. Molti parteciparono alla congiura, pochi, per fatali equivoci, presero parte all'azione; gli ufficiali borbonici che dovevano essere tutti colti all'improvviso all'Hôtel Vittoria, dove erano uniti per festeggiare una promozione, non si sa come, vennero prevenuti; corrono alle caserme ed alla Cittadella e ne escono alla testa di forti battaglioni. Gli insorti non s'intimidiscono; affrontano le truppe vendendo cara la loro vita; ma alla fine il numero la vince sul valore e l'insurrezione è domata. Il generale Landi pubblica un bando contro i principali cospiratori promettendo lauti premi a chi li consegni.
Tutta la città conosceva i capi dell'insurrezione, ma non vi fu uno che li denunziasse; e, più meraviglioso ancora, che taluni dei perseguitati trovarono rifugio in case di gente poverissima per la quale il premio promesso dal Lanza sarebbe stata una vera ricchezza. Tutti i compromessi trovarono modo d'imbarcarsi; ma nei messinesi restò accresciuto l'odio contro le truppe borboniche, e doveva presto venir il giorno che la patriottica città avrebbe presa la sua rivincita.
A dare la nuova iniziativa spettava alla capitale della Sicilia, all'eroica Palermo e questa non tardò ad affermarlo in modo veramente straordinario.
Maggiore eroismo di un popolo non si sarebbe potuto dare. Certo fu esempio unico nella storia.
Questo fu la sfida poderosa, quasi pazza, in cartello a giorno determinato che i palermitani stanchi di domandare lenimento alle profonde piaghe comuni, lanciavano alle autorità costituite del tirannico governo borbonico. Il 22 gennaio 1848, giorno natalizio di Ferdinando II Re delle due Sicilie, era fissato per la rivoluzione.
L'ansia dei giorni che di poco precedettero quello stabilito fu grande.
Spuntava l'alba del 12. Forti pattuglie di cavalleria in attitudine di guerra percorrevano le vie della città e i sobborghi. Buon nerbo di fanteria e di birri stavano schierati in piazza Vigliena. Le truppe erano consegnate ne' quartieri, al palazzo Reale, al Castello. Era appena giorno e le vie brulicavano di gente inerme di ogni classe come nei giorni di festa. Le finestre, i balconi di tutte le case zeppe d'uomini, di donne, di fanciulli, tutti aspettanti qualche cosa che ignoravano ma che presentivano dovesse accadere. Finalmente alla Madonna del Cassero si presenta un uomo armato di fucile, visto di essere il solo armato, grida al tradimento e fa fuoco in aria. Al colpo si risponde con applausi rumorosi dalle finestre, dalle vie; ed ecco altri due cittadini armati salutati al loro arrivo da frenetici applausi. Alla piazza della Fieravecchia una ventina di persone, quali armati di fucile e quali d'arma bianca con nastro tricolore sul petto, stanno aspettando che altri vengano a far massa; fu un'ora tremenda di aspettativa e di dubbio, ma altri valorosi sopraggiungono, si forma una colonna, questa si muove per altre strade e fa nuove reclute. Passa per l'Albergaria e la colonna s'ingrossa d'armati, pronti a dare la vita combattendo. La truppa ed i birri di piazza Vigliena, non molestati e non molestanti, si ritirano verso il palazzo Reale ed il popolo li acclama.
Un corpo di circa cinquanta soldati a cavallo con alla testa il figlio del generale Vial entrava nella strada nuova per sciogliere l'attruppamento; il popolo gridava Viva la truppa! ma i soldati all'ordine dell'ufficiale che li comandava misero mano alle sciabole; dal popolo allora partirono alcuni colpi di fucile e questi bastarono per mettere in fuga ufficiali e cavalieri. Il dado ormai era tratto e la rivoluzione prese animo e si fè gigante per l'inasprimento della popolazione svegliata dal rombo delle artiglierie. Si festeggiava il natalizio del re con la strage che palle e mitraglia facevano del popolo; e da parte del popolo coi rintocchi delle campane suonanti a stormo.
Il giorno 13 le squadre cittadine cresciute di numero e di coraggio assalivano da più parti il palazzo delle Finanze difeso da forte presidio di soldati; il combattimento fu ostinato e non cessò che la sera; il popolo mancava di artiglieria e non poteva tentare un assalto con fucili od armi corte perchè per forzare i cancelli bisognava esporsi alla mitraglia dell'artiglieria di Porta Nuova che infilava il "Cassero"; durante il lungo combattimento contro le Finanze non si cessò mai dal Castello di lanciare bombe che danneggiavano le case, i conventi, le chiese; si sperava che il terrore avrebbe consigliata la sottomissione, ma l'effetto fu totalmente contrario. Pacifici cittadini, anche i più timidi, vistisi minacciati negli averi e nella vita scelsero di morire con le armi in pugno in difesa del patrio focolare e si unirono al popolo; si chiedeva armi da ogni parte.
Per provvedere ai più urgenti bisogni si riunivano molti dei più notabili cittadini nel palazzo Municipale e si formarono comitati diversi in appoggio del Comitato della Fieravecchia centro delle disposizioni di guerra, e siccome le imprese generose svegliano la simpatia dei cuori umani, un inglese, che per modestia volle non fosse pubblicato il suo nome, mise a disposizione del Comitato armi e munizioni da guerra a quanti dei cittadini ne avessero fatta richiesta.
I combattimenti continuavano da parte dei cittadini; la distruzione col bombardamento da parte delle truppe che fra l'altro incendiavano il Monte di S. Rosalia e nell'incendio venivano consumati i miseri cenci della parte più povera del popolo e il popolo inferocito, nonostante la difesa delle truppe, s'impossessava del quartiere militare di Santa Cita; altra vittoria sanguinosa riportava sulle truppe che occupavano il podere del principe di Villafranca di fronte a porta Macqueda.
Nel giorno 24 i cittadini assalivano furiosamente il Noviziato guardato da molta forza e se ne rendevano padroni. Le truppe erano scosse già; alcuni militi eransi affratellati al popolo accolti con amorevolezza; il palazzo Reale nel giorno 26 cadeva in mano dei cittadini e nelle ore pomeridiane questi prendevano possesso anche del palazzo delle Finanze.
I regi cacciati da tutte le loro posizioni si riunirono al Molo; i generali De Maio e Vial s'imbarcano per Napoli; al comando delle truppe rimase il Desauget.
I cittadini si aspettavano un sanguinoso combattimento al Molo, ma il Desauget sceglie di ritirarsi, costeggiando la catena dei Monti che cingono da Levante a Settentrione Palermo.
Non restava ai cittadini che di espugnare il forte di Castellamare; e a questa impresa si accinsero animosi.
Furono piantate, mascherandole, le più grosse artiglierie e mortai caduti in mano del popolo nel fabbricato della Carità che guarda il Castello dal lato della Cala. Il forte sotto il fanale del molo fu destinato a tenere occupato il Gross comandante del Castello dal lato opposto; altri pezzi dovevano ribattere il fuoco della batteria principale e questi furono piazzati fra le case che circondano la Cala di porta Felice a Piedigrotta; doveva essere un feroce bombardamento e della battaglia dovevano essere spettatori un Vascello di linea inglese ed altro Vapore, nonchè molte navi mercantili di diverse bandiere che abbandonato il molo eransi schierate in linea nella rada. E il fuoco incominciò da ambo le parti; per quasi tre ore tremarono le case della città al rimbombo delle grosse artiglierie e di mortai. Ad un tratto il fuoco cessava su tutti i punti. Per mediazione del Comandante del Vascello inglese si trattò della resa ad onorevoli condizioni. Nella notte il Comandante Gross con tutta la guarnigione di circa mille soldati con armi e bagaglio s'imbarcava per Napoli.
Il giorno 5 febbraio Palermo libera, dalle armi borboniche, solennizzava alla Chiesa Madre, con l'inno ambrosiano, la sua vittoria.
Fu questa la fine dei 24 giorni di rivoluzione palermitana, meravigliosa per l'audacia di chi la indisse, pel valore sommo del popolo che la sostenne, per la generosità di soccorsi avuti e pel favore unanime dell'Isola tutta; deplorevole per le truppe regie, vittime delle insolenze e delle viltà dei capi, nonchè del giusto risentimento di un popolo da assai tempo calpestato ed oppresso.
Il Comitato Generale ottenuta la meravigliosa vittoria col concorso e il sagrifizio di tutta la cittadinanza, sentì la necessità, sino alla convocazione del Parlamento, di costituire un governo provvisorio e con un proclama divideva le incombenze governative e nominava i cittadini che doveano esercitarle come appresso:
Presidente del Comitato generale sig. Ruggero Settimo, Segretario generale sig. Mariano Stabile.
1 °Comitato – Guerra e Marina – presidente il principe di Pantellaria, Vice presidente il barone Pietro Riso, Segretario sig. Francesco Crispi.
2 °Comitato – Finanze – presidente il Marchese di Torrearsa, vice presidente il conte Sommatino, Segretario sig. Francesco Anca.
3 °Comitato – giustizia, culto, sicurezza pubblica interna – Presidente sig. Pasquale Calvi, vice presidente il sac. Gregorio Ugdulena, Segretario sig. Vincenzo Errante.
4 °Comitato, Amministrazione civile, istruzione pubblica e commercio, presidente il principe di Scordia, vice presidente il barone Casimiro Pisani, segretario il cav. Vito Beltrami.
Componenti dei quattro Comitati. Guerra e Marina, i signori barone Andrea Bivona, Rosario Bagnasco, Pasquale Bruno, Ignazio Calona, Salvatore Castiglia, Giambattista Cianciolo, Emanuele Caruso, Damiano Lo Cascio, Giacinto Carini, Sebastiano Corteggiani, Ascanio Enea, Enrico Fardella, principe Grammonte, cav. Antonio Jacono, Giuseppe La Masa, Giacomo Longo, Domenico Minelli, Pasquale Miloro, Filippo Napoli, Faija Giovanni, Naselli Flores, Giuseppe Oddo, Andrea Ondes Reggio, Agatino Ondes Reggio, Vincenzo Orsini Giordano, Salvatore Porcelli, Rosolino Pilo Giaemi, Mario Palizzolo, principe Ottavio Ramacca, Tommaso Santoro, Francesco Vergara, Guglielmo Velasco.
Finanze – i signori conte Aceto, duca Monteleone, duca Serradifalco, Francesco Stabile, Giovanni Villa Riso, Benedetto Venturelli, Francesco Trigona, Paternostro Francesco.
Giustizia, culto e sicurezza interna – i signori Vincenzo Caccioppo, Giovanni del Castillo Sant'Onofrio, Angelo Marocco, march. Ignazio Pilo, Paolo Paternò, Francesco Ugdolena.
Amministrazione civile, istruzione pubblica e commercio – i signori Salesio Balsano, Francesco Burgio, Villafiorita, duca Gualtieri, conte Manzone, Paternò di Sessa, Federico Napoli, march. Spedalotto, Luigi Scalia, duca della Verdura.
La Città di Catania non degenera figlia della Sicilia, appena ebbe novella della gloriosa rivoluzione della magnanima Palermo corse alle armi al grido di Viva Palermo – Viva la Sicilia. Il popolo espugnò valorosamente tutti i posti occupati dalle truppe compreso il forte S. Agata. L'entusiasmo, il coraggio e la magnanimità dei cittadini risparmiò la vita ai miserabili mercenari che ardirono tirare sulla città e con le grida della vittoria e del perdono confuse quelle genti col rimorso di essersi battuti per la causa nefasta della tirannide.
Alla voce di Palermo e di Catania tutti i paesi della Sicilia risposero secondando il movimento rivoluzionario armando numerose bande pronte a combattere per la difesa della patria.
Ed ora toccava a Messina.
Ecco quel che scrivevano i delegati del Comitato di Messina a Ruggero Settimo presidente del Comitato Generale di Palermo.
"Sia gloria ai prodi che combattono per la Sicilia.
"Messina attende lo avviso da Palermo. Se deve perire morrà; ma con le armi alla mano e con il voto dell'indipendenza nel cuore.
"Sappiate intanto che la guarnigione è forte di 4000 soldati – 300 cannoni sono pronti a vomitare l'esterminio sulla città. Ma Messina sprezza il pericolo – ne facciano fede la brillante pugna del 1o settembre e la imponente dimostrazione del 6 gennaio. Messina quantunque si mostri disarmata è col fatto in rivoluzione – il suo aspetto è minaccioso, imponente; però Messina come al tempo dei Vespri desidera di gareggiare con Palermo solo nella virtù. Se per la causa comune vuolsi il sacrificio di lei essa è pronta a patirlo e ardimentosa si getterà nella voragine. Quantunque i prodi del settembre siano profughi, altri figli ella ha pronti al cimento; quantunque fu disarmata pugnerà con le mani. Se l'attuale stato minaccioso della città, i fatti già consumati, e la diversione dei 4,000 soldati bastano per aiuto alla causa comune, essa starà pronta e minacciosa; se altro vuolsi da lei, si dica. Messina è città "Siciliana" e solamente "Siciliana". Viva Palermo è il grido del popolo. Dite e sarà fatto il voler vostro. Indipendenza e libertà è il solo voto di Messina".
Ma il contegno ardimentoso, provocante del popolo messinese non piaceva ai regi. Comandava in Messina il generale Nunziante, che un giorno, credendo d'intimorire la popolazione, volle far mostra di tutte le truppe che aveva al suo comando stendendole lungo la via Ferdinando. Un abatino si staccò dal popolo che s'era addensato tanto da impedire i movimenti dei soldati, s'avvicinò al generale e gli disse: "Sono queste tutte le vostre truppe? Non ci toccherà neppure un boccone a testa". Al generale che aveva voluto scendere in piazza non restava che caricare la folla e rompere l'assembramento per tenere alto il prestigio militare, invece ordinava di rientrare nei quartieri, il che si fece fra gli urli e i fischi della popolazione. L'abatino era Felice Perciabosco che fu patriota e dei dimenticati.
Da quel momento non ebbero più tregua le provocazioni, le risse fra popolo e truppe borboniche e la sommossa divenne generale. Il bombardamento della città non faceva che inasprire gli animi dei cittadini, i quali, armatisi con armi fornite dai bastimenti, che erano nel porto e con altre mandate da Palermo, si divisero in tre schiere sotto il comando di Antonio Pracomi, di Paolo Restuccia, e di Domenico Landi, decisi di vincere o di morire e senz'altro si diè mano ai più arditi assalti.
Il 22 febbraio il forte Real Basso, Porta Saracena, Santa Chiara, i bastioni di Don Blasco, le barricate di Porto Franco, e l'Arsenale cadevano in mano delle forze cittadine. Aiutati dall'ardire eroico dei bravi cannonieri palermitani il valoroso popolo messinese si avventava furioso all'attacco. Non valse ad arrestarlo il fuoco micidiale del forte S. Salvatore e della Cittadella, traenti bombe e mitraglia contro gli assalitori; tutti questi luoghi difesi dalle truppe borboniche dovettero cedere all'imponenza del furore cittadino, mentre i nemici della patria, atterriti e sbaragliati, correvano a gambe levate a cercare rifugio nella Cittadella, unico punto ormai di loro salvezza. Da per tutto il popolo vittorioso inalberava la bandiera a tre colori. In questi eroici fatti si distinsero assai Longo, Porcella e Scalia.
Diedero esempio di patriottismo altri bravi messinesi e fra altri l'infaticabile Salvatore Bensaia; espugnato il forte Real Basso, si slanciava in altre parti dove ardeva la pugna acclamato dal popolo, quando il figlio suo Giuseppe, salito sull'espugnato baluardo per piantarvi il tricolore vessillo, veniva colpito a morte. – Portata la notizia al padre, al primo annunzio ne rimase tramortito – ma riavutosi gagliardamente gridò al popolo: "Cittadini mio figlio è morto gloriosamente per la salute della patria, io non debbo piangere la sua morte": al cittadino Valadi portarono la notizia che i suoi figli erano feriti all'attacco del forte di porta reale: l'infausto annunzio non sgomentò il patriota: preso il fucile disse: "vado io a rimpiazzare i miei figli". Giulio Colondre, ginevrino, che si unì nel combattere al popolo messinese, riportava grave ferita ad un braccio che ferro chirurgo dovette amputare – ai cittadini accorsi a confortarlo, con tutta serenità diceva: "Signori di questo mio braccio io fo dono alla Città di Messina". Moriva Tommaso Arena e rimaneva ferito anche Nicola Bensaia.
Ai soldati borbonici ridotti nella cittadella non restava altro sfogo che di lanciare ogni giorno delle bombe sulla città, ma i cittadini ne avevano fatta ormai l'abitudine, tanto che accudivano ai loro affari senza punto badarvi.
Il 24 aprile una fregata a vapore napoletana portava a Messina, incaricati di trattare l'armistizio, i commissari Plutino e Lo Presti, calabresi; il Comitato Messinese incaricava per suoi rappresentanti i cittadini Piraino, Ribotti e Natoli, ai quali, prima di altre trattative, era dato il mandato dello sgombro della Cittadella.
Così la Sicilia, che aveva dichiarato decaduto il Re delle due Sicilie, era liberata da tutte le truppe borboniche.
A Palermo veniva istituita la Guardia Nazionale affidandone l'incarico al Comandante generale Barone Riso.
Collaboratori
Duca di Monteleone, Marchese Casimiro Drago, Leopoldo Pizzuto, Conte Lucio Tasca, Cav. Luigi Gravina, Andrea Mangeruva – Tommaso Abbate Segr.
La rivoluzione della Sicilia del 1848 sarà ricordata come uno dei più meravigliosi fatti storici. Il prodigio operato da Palermo gli ha guadagnato il rispetto e l'ammirazione generale.
Le notizie delle Calabrie erano da per tutto favorevoli al movimento insurrezionale.
A Cosenza, centro delle operazioni, nido di uomini generosi, il cui suolo, santificato più volte dal sangue di tanti martiri ed ove rosseggia tuttora di quello dei fratelli Bandiera e compagni, tutte le cure erano rivolte ad un unico scopo, distruzione della tirannia. A Nicastro come in altri punti della Calabria si riunivano uomini armati per dare la caccia ai borbonici, correre serrati a Reggio al grido di viva la libertà.
Nelle provincie di Catanzaro, di Abruzzo, di Salerno, di Lecce, di Campobasso e di Avellino, si apprestavano armi ed armati. Che più? Napoli insorgeva massacrando Svizzeri e spie borboniche.
L'ora della libertà pareva suonata da un punto all'altro d'Italia! Sventuratamente non fu di lunga durata; mancò un'unica direzione e la concordia.
Dal Ministero di Guerra e Marina veniva emanato il seguente ordine del giorno:
Gloria e lode ai nostri fratelli di Calabria. Un avviso telegrafico giunto ieri da Messina alle ore 23-1/2 così avvisa:
Dal piano della Corona ci viene con espresso avvisata la disfatta delle truppe borboniche per parte dei naturali di Catanzaro e la morte del Nunziante; l'azione ebbe luogo presso il fiume Angitola nel giorno di ieri.
Ci consola, o Cittadini, vedere eseguita con tanta giustizia l'ira del Cielo.
Attendiamoci di sentire altre vittorie, acciò si giungesse al santo scopo di liberare gli afflitti fratelli del Continente dal duro giogo d'un barbaro.
Palermo, 30 giugno 1848.
Il Maresciallo di Campo, Ministro della Guerra
Giuseppe Paternò