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CAPITOLO VII
Venezia, Treviso, Vicenza, Curtatone e Montanara, Goito, Peschiera, Rivoli – Sfortunata giornata di Custoza – Armistizio di Salasco

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Il 21 marzo Venezia quasi senza spargimento di sangue si liberava dal giogo straniero.

Il governo civile e militare austriaco era dichiarato decaduto ed una convenzione era firmata per la quale il reggimento Kinski e tutte le altre truppe, Croati, Artiglieria, Marina ecc. ecc. si ritiravano, imbarcandosi per Trieste. Manin e Tommaseo, liberati dal carcere politico, venivano portati alla sede del governo in trionfo.

Il popolo veneziano proclamava la repubblica e il governo prendeva provvedimenti per una pronta ed efficace difesa contro il ritorno dello straniero.

Padova, Treviso, Vicenza e tutte le città del Veneto proclamavano il governo provvisorio, e così facevano le città del Friuli.

La mattina del 24 marzo 1848 ebbe luogo a Roma un'imponente dimostrazione popolare che chiedeva armi e la guerra all'Austria.

Questa ottenne effetto immediato, perchè nel giorno stesso fu affidata al generale Ferrari la organizzazione del Corpo dei Volontari e Ferrari non perdette tempo; difatti alle cinque del mattino del 26 marzo partiva da Roma la prima legione Romana di circa mille uomini; e solo due giorni dopo partiva anche, e bene organizzato, il primo reggimento volontari forte di altri milleduecento uomini. Queste truppe per la via di Ancona giungevano a Bologna il 16 e 18 aprile; e non più in numero di 2200 combattenti, ma di circa 8000 uomini, pieni di ardimentoso entusiasmo per la libertà della patria.

Il mattino del 27 di marzo Carlo Alberto assumeva in Alessandria il comando supremo dell'esercito e il 29 entrava in Pavia, ove era accolto con grande gioia dai cittadini. Agl'inviati di Milano si esprimeva in sensi di vera devozione alla causa dell'unità italiana e manifestava il deliberato proposito di volere liberata l'Italia dallo straniero.

Procedeva quindi innanzi coi suoi figli fino a Lodi e vi piantava il suo quartier generale, da dove emanava i seguenti proclami:

"Italiani della Lombardia, della Venezia, di Piacenza e Reggio!

"Chiamato da quei vostri concittadini nelle cui mani una ben meritata fiducia ha riposto la temporanea direzione della cosa pubblica, e sopratutto spinto visibilmente dalla mano di Dio, il quale, condonando alle tante sciagure sofferte da questa nostra Italia, le colpe antiche di lei, ha voluto ora suscitarla a nuova gloriosissima vita, io vengo tra voi alla testa del mio esercito, secondando così i più intimi impulsi del mio cuore; io vengo tra voi non curando di prestabilire alcun patto: vengo solo per compiere la grand'opera, dal vostro stupendo valore così felicemente incominciata.

"Italiani! In breve la nostra patria sarà sgombra dallo straniero. E benedetta le mille volte la Provvidenza Divina, la quale volle serbarmi a così bel giorno, la quale volle che la mia spada potesse adoperarsi a procacciare il trionfo della più santa di tutte le cause.

"Italiani! La nostra vittoria è certa: le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno tra voi quella sicurezza che vi permetterà di attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il voto della nazione potrà esprimersi veracemente e liberamente; in quest'ora solenne vi muovano sopratutto la carità della patria e l'abborrimento delle antiche divisioni, delle antiche discordie, le quali apersero le porte d'Italia allo straniero; invocate dall'Alto le celesti ispirazioni; e che l'Angelico Spirito di Pio IX scorra sopra di voi; Italia sarà!

"Dal nostro Quartier Generale in Lodi, 31 marzo 1848.

Carlo Alberto

Il Ministro della Guerra, Franzini.

"Soldati!

"Passammo il Ticino e finalmente i nostri piedi premono la sacra terra Lombarda! Ben è ragione che io lodi la somma alacrità, colla quale, non curando le fatiche di una marcia forzata, percorreste nello spazio di 72 ore più di cento miglia.

"Molti di voi, accorsi dagli estremi confini dello Stato, appena poteste raggiungere le vostre bandiere in Pavia; ma or non è tempo di pensare al riposo: di questo godremo dopo la vittoria.

"Soldati! Grande e sublime è la missione a cui la Divina Provvidenza ha voluto ne' suoi alti decreti chiamarci. Noi dobbiamo liberare questa nostra comune patria, questa sacra terra italiana dalla presenza dello straniero, che da più secoli la conculca e l'opprime: ogni età avvenire invidierà alla nostra i nobilissimi allori che Iddio ci promette; tra pochi giorni, anzi tra poche ore, noi ci troveremo a fronte del nemico; per vincere basterà che ripensiate alle glorie vostre di otto secoli, e gl'immortali fatti del popolo Milanese; basterà vi ricordiate che siete soldati italiani.

Viva l'Italia!

Dal nostro Quartier Generale in Lodi, 31 marzo 1848.

Carlo Alberto

Il Ministro della Guerra, Franzini"

E quasi a dimostrare il sentimento concorde di popolo e di Re nel volere liberata l'Italia dallo straniero, in Ancona veniva pubblicato il seguente bando:

"Cittadini!

"Al suono delle campane a stormo, che eccitò l'insurrezione nelle Lombarde città contro l'odiato straniero e ne fa ora trionfalmente inseguire la fuga e disperdere gli avanzi, si mesce già il vivo fuoco degli accorsi drappelli italiani e il tuono possente del cannone di Carlo Alberto. Da ogni città, da ogni borgo, da ogni siepe esce un animoso combattente della santa guerra d'Italia. La croce corona la tricolore bandiera, e Cristo ne ha fatto l'indivisibile segno della nostra vittoria. I lunghi secoli del dolore e del lutto si riscattano con brevi e invidiabili perigli; le macchie, già abolite, d'inerzia e d'indifferenza si redimono con un'eternità d'impareggiabile gloria.

"Chi, alla voce d'Italia, di questa patria sublime, ode più gli affetti di padre, di marito, di figlio? Chi getta ancora uno sguardo sugli averi e sulla ricchezza se non per farne un sagrificio alla patria?

"Via il lusso, via gli ornamenti; il ferro! il ferro! nessuna gioia fuorchè nelle ferite largamente aperte nei petti nemici; nessun desiderio fuorchè del sangue copiosamente sparso per l'Italia; nessuna gloria fuorchè nella sua redenzione. La nostra avanguardia è partita. I nostri prodi ci aprono la via. Quale ragione, qual pretesto ai forti, ai valenti per rimanere? Che dolcezza in queste mura, che beltà nella vita, quando nei campi di Lombardia si muore per l'indipendenza italiana?

"Chi non invidia a sè stesso questa nobile fortuna di morire per l'Italia? Chi ricusa la celeste voluttà di vendicare la sua vendetta? Chi non s'infiamma all'alto pensiero di concorrere ad eseguire il decreto di Dio, il decreto della rigenerazione italiana? In questo punto si fonda la nostra nazionalità, si conquista la libertà nostra, si edifica una gloria immortale! Deh! ciò non sia senza noi! Deh! si accorra alla guerra della redenzione! Felice chi lascerà la vita per lei! Felice chi tornerà vittorioso, e udrà dirsi ammirando e piangendo di tenerezza: questi fu soldato dell'indipendenza d'Italia!

Ancona, 30 marzo 1848".

Da Lodi il Re mosse per Cremona, ove tenne Consiglio di guerra per deliberare sulle operazioni militari.

L'esercito procedeva verso il fiume Oglio e arrivatovi il generale Bava faceva restaurare il ponte di Marcaria.

Il Re si trasferiva a Bozzolo.

Il giorno 6 aprile il generale Bava si avanzava verso il fiume e giunto verso le 9 in prossimità di Goito ordinava ad un battaglione di bersaglieri di assalire i cacciatori austriaci che occupavano i colli; i nostri mossero impetuosi all'assalto e gli austriaci, abbandonate le posizioni, si ripararono entro Goito. Ordinata in schiera d'assalto la brigata Regina, e sopraggiunti i reggimenti della brigata Aosta, il generale Bava mosse contro Goito preceduto dai bersaglieri comandati dal generale Alessandro Lamarmora; questi appoggiati dall'artiglieria che battevano le case per cacciarne gli austriaci spalleggiati da due compagnie delle Real Navi, superati arditamente gli asserragliamenti costruiti dai nemici, penetravano nel paese; gli austriaci, parte rimasero prigionieri, parte corsero al ponte per difenderlo; i nostri bersaglieri e i Real Navi inseguono, passano a tutta corsa il ponte e, scesi sulla sinistra del fiume, s'impadroniscono di un cannone che il nemico nella precipitosa fuga non riesce a salvare.

Il combattimento durò tre ore, le nostre truppe che vi presero parte, sopratutto bersaglieri e Real Navi, mostrarono gran valore; ebbero due ufficiali e sei soldati morti, cinque ufficiali feriti fra i quali il Colonnello Lamarmora e il Maggiore Maccarani comandante le truppe Real Navi e trentacinque soldati. Si distinsero il Generale D'Arvillars, il Capitano Griffini e Domenico Resta.

Il giorno appresso il generale De Sonnaz con un ardito colpo di mano sloggiava gli austriaci da Monzambano ed alle 5 pomeridiane i Piemontesi erano padroni di quelle posizioni. Contemporaneamente il Colonnello comandante il reggimento Savoia entrava in Borghetto alla destra di Monzambano in faccia a Valeggio, ove i nostri entravano il giorno appresso.

A questi combattimenti seguirono quelli di Pastrengo e di Santa Lucia.

I nostri guidati dal Generale De Sonnaz, cacciati gli austriaci dai colli di Costiera, Cassetta e Fratelli furono, in breve ai piedi di Pastrengo. Ma il Duca di Savoia, che colle brigate Cuneo e Regina si era avanzato alla testa di tutti, si trovò arrestato dal melmoso letto di quei piccoli torrenti che si scaricano più in basso nel fiume Tione. Fu dovuta rallentare la marcia, finalmente, superato l'ostacolo ed animati della presenza del Re e del Duca, s'avventano alla lotta, che fu aspra perchè gli austriaci difesero palmo a palmo il terreno; alle 3 e mezzo i nostri erano padroni di Pastrengo. Il Re in quel giorno superò tutti in valore e corse gravissimo pericolo; intollerante d'indugi aveva precorso la fanteria con la sola scorta di un drappello di carabinieri. Un corpo di Tirolesi, in agguato per ritardare la marcia dei Piemontesi, fece una scarica a bruciapelo contro il piccolo drappello e se il Colonnello Sanfront non fosse arrivato in tempo coi suoi squadroni di carabinieri, il Re, che aveva tratto la spada in atto di slanciarsi contro il numeroso nemico, si sarebbe trovato a mal partito.

Il 6 maggio i Piemontesi con tre divisioni mossero in ricognizione su Verona; la brigata Regina sotto gli ordini del generale D'Arvillars si avanzava sulla strada di Sona, incontrava il nemico e impegnava un assai vivo combattimento, che ebbe esito fortunato per i nostri perchè il nemico si ritirava sotto le mura di Verona; però durante il combattimento la brigata Aosta, per seguire il Re, sempre primo ai rischi, avendo accelerato il passo si trovò sola di fronte alla nemica e formidabile posizione di S. Lucia, seguita a grandissima distanza dalla brigata Guardie.

Gli Austriaci occupavano il Campanile e le case, e, del Cimitero cinto di mura munite di feritoie, ne avevano formato una vera fortezza, e un fuoco micidiale colpiva i nostri; il valoroso generale Sommariva secondando l'ardore del Re e dei suoi soldati assale energicamente il villaggio; il generale Bava fa piazzare in buona posizione l'artiglieria, la quale apre vivo fuoco contro il campanile, le case e il Cimitero; sotto le mura del villaggio si accende un aspro conflitto nel quale trova morte il prode colonnello Caccia del 5o reggimento; a fianco del generale Sommariva cadeva mortalmente ferito il tenente Beston Balbis suo aiutante, il colonnello Manassero del 6o reggimento era gravemente ferito ed a lui vicino moriva il tenente Gandolfo di lui aiutante e tanti e tanti altri; ma i valorosi Valdostani non si arrestano; chè anzi il desiderio di vendicare i caduti li spingeva a più fiera lotta. Giungeva finalmente la brigata Guardie, che al fragore del cannone aveva accelerato la sua corsa; e allora il Generale Bava valendosi del sopraggiunto rinforzo si pone alla testa di questo, slancia le sue brave truppe sul merlato muro, e queste sprezzando il pericolo, animate dalla presenza dei condottieri, superano tutte le difficoltà, s'impadroniscono del baluardo seminando morti e facendo prigionieri.

Dopo il combattimento di S. Lucia, tanto glorioso per le armi Piemontesi, essendo giunto il parco da Alessandria, il Re ordinava che si cingesse d'assedio Peschiera. La direzione dell'assedio fu affidata al Duca di Genova, il quale aveva sotto i suoi ordini il generale Chiodo del Genio e il generale Rossi dell'artiglieria; ai lavori d'assedio e a cingere la piazza furono destinate le brigate Piemonte e Pinerolo con Federici generale di divisione, Bes e Manno brigadieri.

Il giorno 19 aprile le truppe Romane di linea e volontari, alle quali eransi uniti il battaglione volontari di Ancona ed altri delle Marche, la Legione Romagnola di Ferrara, passavano il Po, e si mettevano in marcia verso Montebelluno. Il generale Durando Comandante in capo di queste truppe colla prima divisione trovavasi già ad Ostiglia.

Il 25 d'aprile nei dintorni di Schio ebbe luogo un combattimento fra le nostre truppe e un corpo di Austriaci che durò per quattro ore; l'attacco fu vivo, ma i bravi nostri giovani volontari seppero così bene resistere alle prime prove del fuoco da costringere il nemico a ritirarsi con perdite non lievi.

Anche nei giorni seguenti ebbero luogo vari scontri sempre favorevoli alle nostre armi.

Il giorno 8 maggio il generale Ferrari, che aveva concentrato le sue forze di volontari e regolari a Montebelluno, ebbe avviso dai suoi posti avanzati dell'avvicinarsi del nemico.

Il generale, lasciata una parte delle truppe a guardare il paese, mosse col resto delle sue forze per la via di Cornuda, ove giunto alle ore 5 pom. fece prendere ai suoi posizione sulle colline circostanti, mentre mandava grosse pattuglie a perlustrare sulla strada dalla quale si attendeva il nemico. Poco prima del tramonto la compagnia dei bersaglieri del Po, che stava appostata sulla collina di destra, incominciava il fuoco contro l'avanguardia nemica che di poco precedeva il grosso delle truppe, per cui ben presto il fuoco fu acceso su tutta la linea; questo durava da un'ora circa e cessava da parte del nemico che suonò a raccolta. Era certo che questo aveva voluto limitare la sua azione ad una ricognizione, e sicuro che l'indomani sarebbe stato attaccato da forze superiori il generale Ferrari dispose di ritirarsi dalle posizioni avanzate che occupava colle sue giovani truppe e di disporre una nuova linea di avamposti al di là di Cornuda. Mandava subito avviso al Durando, che si trovava colla sua divisione nella vicina Bassano, della presenza del nemico, affinchè come generale in capo avesse prese le sue disposizioni.

Alle 5 di mattino del 9 maggio il nemico si mosse all'assalto delle posizioni occupate dai nostri i quali sostennero l'urto senza cedere un palmo di terreno, mantenendo un fuoco assai ben nutrito fino alle 4 pomeridiane in attesa dell'arrivo del Durando.

Intanto il nemico ingrossava sempre più tanto che a sera la truppa del Ferrari si trovava ad avere di fronte l'intera divisione del Nugent che occupava con nuovi battaglioni tutte le posizioni di fronte con spiegamento di altri battaglioni a destra e a sinistra tendenti all'avviluppamento dei nostri; intendimento che non sfuggì al Ferrari, il quale ordinava alle sue truppe un movimento di ritirata e di concentramento più indietro di Cornuda per proseguire poi per Montebelluno onde congiungersi colle truppe che vi aveva lasciato di presidio. Giunto a Montebelluno ordinava la partenza per Treviso dandone avviso al generale Durando.

Nel combattimento del 9 si distinsero il marchese Patrizi comandante la 2a Sezione composta di perugini e di marchigiani che si comportarono da eroi; combatterono da prodi veterani i bersaglieri romani comandati dal Tittoni ed il 1o battaglione della 3a sezione composta di romagnoli; ebbe il cavallo ucciso e riportò ferita il maggiore Diamilla-Muller aiutante di campo del generale Ferrari mentre conduceva al fuoco due compagnie.

Il mancato appoggio del Durando fu inesplicabile.

Alle pressanti premure del generale Ferrari egli rispondeva così:

Crespano, 9 maggio 48.

Generale,

"Vengo correndo".

"Durando"

Ma non si vide!

Il generale Ferrari presa posizione a Treviso ordinava una ricognizione – volle dirigerlo di persona il generale Guidotti il quale spintosi avanti alla testa dei suoi, ebbe trapassato il cuore da una palla tedesca.

Verso mezzogiorno si ebbe notizia che il nemico in forti masse si avvicinava a gran passi da tre parti su Treviso. Il bravo generale Ferrari si spinse con una forte ricognizione verso il Piave. Venuto a contatto col nemico ingaggiava il combattimento di tiragliori, facendo piazzare intanto la debole sua artiglieria. Al contrattacco del nemico, che aveva spiegato forze imponenti, e al fuoco delle sue artiglierie che fulminavano, la colonna avanzata composta di truppe di linea non resse, balenò prima, poi, presa da panico, si sbandava abbandonando al nemico un cannone e non arrestandosi che a Treviso. Non giovò l'intrepido e valoroso esempio del generale di fronte al fuoco: fu vana la voce degli ufficiali che tentarono di richiamarli al dovere e di fare argine alla fuga; nulla valse e la rotta, di quella truppa fu completa. I volontari marchigiani, romagnoli, umbri, romani rimasero al loro posto ma non poterono riparare al disastro: questi si misero sotto gli ordini del colonnello Galletti e del Sante per riannodarsi alle truppe del generale in capo Durando, avendo il generale Ferrari abbandonato il comando, offeso della condotta del Durando che gli aveva fatto mancare il promessogli soccorso.

Nei combattimenti di Cornuda e di Treviso, sostenuti con valore dalle forze di linea e di volontari comandate dal generale Ferrari si distinsero:

Patrizi Filippo, Galletti Bartolomeo, Diamilla-Muller Demetrio, Stefanoni Carlo, Ruspoli Bartolomeo, Tittoni Angelo, Pianciani Luigi, Del Grande Natale, Montecchi Mattia, Gariboldi Alessandro, Ceccarini Luigi, De Angelis Pietro, Federici Romolo, Savini Francesco, Gazzani Adriano, Silli Giuseppe, Chiavarelli Antonio.

Il generale Durando col grosso dei suoi si trovava a Padova con posti avanzati a Vicenza.

Il 20 maggio gli Austriaci, forti di 6000 uomini oltre l'artiglieria, assalivano i posti avanzati di Vicenza sviluppando la loro azione di artiglieria e di ben nutrito fuoco di fucileria contro le barricate di Porta S. Lucia, di Porta Padova e di Porta S. Bartolo, ma dopo 4 ore di combattimento il nemico fu da ogni parte brillantemente respinto.

In questo combattimento, sostenuto con molto valore, i nostri ebbero a soffrire non poche perdite e lo stesso generale Antonini vi rimase gravemente ferito.

Il giorno 23 gli Austriaci con maggiori forze ritornarono ad assalire Vicenza; il combattimento durò accanito tutto il giorno e fu ripreso la mattina del 24, mentre nella notte del 23 al 24 gli Austriaci bombardarono la città che non diè segni di allarme. I nostri fecero prodigi di valore; colla punta della baionetta fugarono il nemico che perdeva due cannoni e lasciava in nostre mani 154 prigionieri; gli Austriaci ebbero più di mille feriti.

Fu una giornata gloriosa per le armi italiane.

Contemporaneamente gli Austriaci attaccavano i nostri nelle posizioni del Caffaro-Lodrone-Bagolino, ma anche da quella parte furono bravamente respinti.

Il giorno 8 giugno da informatori il generale Durando fu avvisato del nuovo avanzarsi del nemico, ma mal si seppe del numero e della direzione. Si diceva che non raggiungeva i 20,000 uomini ed erano diretti al Piave per congiungersi ad altro corpo ivi concentrato. Ma il giorno 9 si ebbe notizia che aveva tagliata la strada ferrata e gittati tre ponti sul Bacchiglione; ormai il sospetto di essere attaccati diveniva certezza e quindi con ogni maggiore alacrità si diede opera ai lavori di difesa, si distribuirono le forze di 11,000 uomini nelle posizioni le più importanti. Verso sera si ebbero precise informazioni che tutto l'esercito Austriaco con Radetzky alla testa e con 80 cannoni stava per rovesciarsi su Vicenza.

Alle 4 di mattina del giorno 10 incominciò l'attacco al Monte Berico posizione importantissima che domina Vicenza. Per disposizione del generale Durando, le posizioni di Castel Rambaldo e di Bellaguarda presidiate dagli Svizzeri dovevano essere abbandonate se attaccate da forze preponderanti per concentrarsi con una forte difesa al Colle su cui sta la Villa Ambelicopoli; e così fu fatto. Abbandonato dai nostri il colle di Bellaguarda gli Austriaci pensarono subito di piantarvi una batteria, ma colpiti con grande precisione dalla batteria del Colle Ambelicopoli batterono in ritirata. Fino alle 10 del mattino l'attacco fu debole perchè gli Austriaci lavoravano per fortificarsi nelle posizioni conquistate nel piantarvi batterie che avrebbero ben presto vomitato quel turbine di fuoco che doveva avviluppare la città e piombare sui colli. Ad un dato momento il nemico spiegava tutte le sue forze attaccando contemporaneamente il Monte Berico, i Colli e le porte di Padova, di S. Lucia, e di S. Bartolo.

Alla difesa della posizione Ambelicopoli stava la batteria Lentulus, rafforzata da un battaglione di corpi pontificii, di un battaglione di svizzeri e dalle compagnie di Mosti di Ferrara e Fusinato di Schio e del Tirolo italiano. Fu un accanito scambiarsi di palle, di granate, di razzi e di fucilate con esito micidialissimo. Alle 2 pomeridiane il Marchese d'Azeglio comandava un attacco alla baionetta contro i nemici occupanti la collina opposta; il combattimento a corpo a corpo fu accanito, micidiale sopratutto per i nostri che avevano di fronte forze quattro volte superiori; vi rimasero feriti lo stesso d'Azeglio e il colonnello Cialdini, e l'esito infelice fu la causa della perdita della nostra posizione al Monte Berico: i nostri costretti a ritirarsi furono inseguiti da cinquemila cacciatori ed Ungheresi senza che la nostra batteria potesse arrestarli con fuoco a mitraglia per non colpire i fratelli inseguiti d'appresso; giunti gli Austriaci a passo di corsa fino ai nostri, come una valanga li rovesciarono giù dal Monte; tentarono ancora i bravi italiani di fare resistenza sul Monte della Madonna e per i portici, ma tutto inutile, che dovettero ripararsi in città.

Perduto il Monte Berico la sorte di Vicenza era decisa, ma è pur vero che la resistenza poteva prolungarsi.

Erano le 8 di sera e ad onta del fulminare delle artiglierie e degli stutzen nessuna delle barricate aveva ceduto, tutte difese fino all'eroismo dal battaglione volontari e dalla legione Romana, dalla legione Romagnola, dal battaglione Anconitano e dalle truppe delle Marche; di questo parere di ulteriore resistenza erano i Vicentini che quando videro sulla torre inalberata la bandiera bianca, la presero a fucilate.

Fu firmata una capitolazione che salvava la città e i cittadini da ogni rappresaglia; ai parlamentari nostri, l'Austriaco disse: "che non si poteva negare una onorifica capitolazione a chi si era difeso tanto eroicamente".

Certo è che le truppe regolari e volontari fecero tutti il loro dovere e si batterono con accanimento e valore, e la stessa capitolazione lo dimostrava perchè le truppe poterono ritirarsi con armi e bagaglio ed onori di guerra, senza alcuna scorta, colla semplice promessa che non avrebbero preso le armi per tre mesi.

Si distinsero il Pasi, il Ceccarini, il Calandrelli, il Casanova, il Marchese Ruspoli, l'Albani, i capitani Ornani, Gigli, Andreucci, ed i tenenti Schellini e Andreani.

Vi lasciarono la vita il Maggiore Conte Gentiloni, il colonnello Del Grande, Francesco Maria Canestri; rimasero feriti Massimo d'Azeglio, il Colonnello Enrico Cialdini, il Comandante l'Artiglieria Lentulus, il Maggiore Morelli, il Morigliani, il Minghetti, il Corandeni, capitani, il Beaufort, e il Bandini tenenti.

Vinti separatamente, le truppe Romane e i volontari, delle Marche, del Ferrarese, delle Romagne e delle Venete provincie e del Friuli, comandate dal Durando, dal Ferrari, dal Zambianchi, dal Mosti, dal Fusinato, il Maresciallo Radetzky era ormai libero di portare tutte le sue forze rafforzate e ringagliardite contro l'esercito Piemontese di cui aveva provato il valore e che solo gli rimaneva di fronte.

Disgraziatamente queste truppe, il cui ammontare non superavano i 60 mila uomini, erano ordinate in una estensione di terreno larghissimo, da occupare una linea di circa cento chilometri attraversati da un fiume – Rivoli, le rive del Mincio da Peschiera a Goito, i pressi di Mantova, Governolo, Villafranca ne erano le estremità, Roverbella il centro.

Il Maresciallo Austriaco volle tentare un colpo decisivo, salvare Peschiera dall'imminente caduta e piombare addosso all'esercito Piemontese sperando di trovarlo debole a motivo della estensione della lunga linea di posizioni che teneva occupate. Formava quindi il piano di forzare la destra del Mincio per Rivalta, le Grazie e Curtatone contando di trovarvi debole resistenza, sorprendere alle spalle le truppe Piemontesi e sospingerle sotto le fortezze del quadrilatero.

Formato questo piano il 27 di maggio usciva da Verona con 30 mila uomini che diresse per Mantova, la notte del 28 si attendò sotto quella fortezza da dove trasse con se altri 15 mila uomini del Nugent; aveva con se 45 mila combattenti con corrispondente artiglieria e li divise in tre corpi di 15 mila ognuno.

Alle 10 del mattino del 29 maggio attaccava contemporaneamente l'ala sinistra dell'esercito Piemontese girandolo per Rivoli, Affi, Lozise ed il Campo Toscano di guardia alla destra; fra Mozzacane e Povegliano eravi un altro corpo di 15 mila uomini minacciante il centro, qualora i Piemontesi avessero incautamente appoggiato a destra e a sinistra per rafforzare i deboli estremi.

L'attacco di Lozise riuscì sfavorevole agli Austriaci; essi furono ricacciati al di là dell'Adige dal generale De Sonnaz e vi lasciarono sul terreno oltre 500 feriti e numerosi prigionieri.

A Curtatone e a Montanara erano 5 mila Toscani con pochi Napolitani a guardia del Mincio comandati dal valentissimo generale Laugier, di questo pugno d'uomini il Maresciallo Austriaco coi suoi 15 mila che loro mandava contro credeva di averne ben presto ragione.

Lanciava quindi contro questa estrema punta un numero di truppe, con ordine di disfarli senz'altro, varcare il Mincio, prendere alle spalle i Piemontesi, sgominarli e fare punta su Peschiera.

Senonchè i Toscani ricevettero il formidabile urto come tanti eroi della vecchia guardia, entusiasmati dall'esempio del loro generale che moltiplicandosi si trovava ove più fiera era la mischia.

Gli artiglieri rispondono coi loro otto cannoni alle furiose scariche nemiche, molti muoiono da eroi sui loro pezzi, ma vengono tosto rimpiazzati da altri animosi, dal molino e dalla casa del Lago, della quale i Toscani avevano fatto una fortezza aprendovi feritoie e fulminavano gli assalitori; il battaglione degli studenti si slancia con impetuosa carica sulla sinistra del nemico, lo rompe e lo mette in fuga.

Il combattimento durò fino alla sera; un pugno d'uomini che il Radetzky credeva di sterminare in brev'ora, seppe con impareggiabile valore tenergli testa sebbene decimato. Alla sera, sfiniti, dovettero ritirarsi su Goito e Castelluccio.

In quel fiero combattimento nel quale i bravi Toscani combatterono contro forze tre volte superiori, maggiormente si distinse l'artiglieria comandata dal bravo tenente Nicolini, che vi rimase ferito; gli artiglieri morirono tutti sui loro pezzi, meno uno l'Elbano Gaspari che, aiutato dal bravo Capitano Camminati riusciva a salvare i pezzi che avevano fatto strage di nemici tutto il giorno; anche il Capitano Malenchini cooperò potentemente colla sua compagnia a trarli in salvo; tutti si comportarono con eroico contegno e sopratutto il battaglione universitario comandato dal valoroso Maggiore Mossotti.

Al combattimento prese parte il Montanelli; questi temendo che il forte numero degli Austriaci potesse avere ragione del piccolo corpo dei Toscani disse al Malenchini, Capitano dei bersaglieri:

– "Moriamo qui tutti piuttosto che arrenderci" mentre così diceva venivano colpiti a morte Pietro Parra e Paolo Crespi; Malenchini si trovava vicino a quest'ultimo, volle soccorrerlo, accorse e lo prese nelle sue braccia "dammi un bacio amico" gli disse il moribondo Crespi "e torna a fare il tuo dovere".

Fra i tanti feriti vi era il Colonnello Campia e il tenente Colonnello dello Stato Maggiore Chigi che dovette soffrire l'amputazione della mano sinistra.

Nel mattino del 30, accortosi Carlo Alberto che la Colonna nemica del centro erasi ritirata durante la notte a Mantova, trovò necessario di dare appoggio alla destra del Mincio a garantire le ritirate delle truppe Toscane su Volta, e tener fermo sull'alto Mincio lungo le forti ed elevate posizioni che da Valleggio distendonsi fino a Castiglione; e fu una provvida misura.

Il nemico fatte passare le sue truppe alla destra del Mincio, le distese da Rivalta a Gazzaldo e già si trovava a Goito quando giunsero le truppe Piemontesi.

Ben notevole era la differenza delle due forze; i Piemontesi non superavano i 19 mila uomini e 45 pezzi di artiglieria, l'Austriaco era di 28 mila uomini e 60 cannoni; ma questa sproporzione fu tosto vinta dall'ardimento e sommo valore dei Piemontesi.

In sei ore di eroico combattimento dalle 2 pomeridiane alle 8, l'inimico fu sconfitto; lo sbaragliarono nelle sue colonne, e lo misero in piena fuga, inseguito fin sotto Mantova.

Fu una vittoria veramente gloriosa. Il Re fu sempre esposto in mezzo alle palle, ed ebbe sfiorato un orecchio; il duca di Savoia fu ferito ad una coscia. Il numero dei morti e feriti austriaci fu grande e molti furono i prigionieri; fra questi è morto il principe Bentheim, ed è rimasto prigioniero il generale principe Hohenloche.

Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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