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III. IL MARE DI BEHRING

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Le isole Aleutine formano una lunga catena che separa il Grand’Oceano dal mare di Behring. Si dipartono dalla penisola di Alaska, il punto più avanzato della costa americana verso occidente, e descrivendo un immenso semicerchio vanno a congiungersi colla costa asiatica, lasciando fra di esse degli stretti numerosissimi, ora piccoli ed ora grandi, spesso ingombri di scogIietti e di banchi che rendono la navigazione assai difficile.

Dirne il numero esatto è impossibile anche oggi, poichè molte sono appena conosciute e molte altre non lo sono affatto. Ad ogni modo sono moltissime e talune di rispettabile grandezza, quali la Behring, Atton, Unalaska, Unimak, ecc. La popolazione di tutto l’arcipelago si crede non superi le 6000 anime.

Per lo più dette isole sono montagnose con alcuni vulcani che vomitano quasi sempre fumo e le spiaggie alte assai rendono l’approdo difficile, anche perchè cinte da numerosi frangenti contro i quali, da una parte e dall’altra, si rompono con orribile frastuono le onde del Grand’Oceano e quelle del mare di Behring.

Su quelle rupi non crescono che degli intristiti abeti, delle piccole quercie, dei salici nani, e nelle valli riparate dai gelidi soffi del vento settentrionale, delle fitte e alte erbe. Ma se la flora è così misera la fauna invece è ricca, infatti innumerevoli sono le volpi, le renne e anche le foche. Non poche lontre, quantunque accanitamente cacciate dagli agenti della compagnia russo-americana, vivono presso le sponde, e anche le balene di quando in quando vi fanno la loro comparsa.

Prima del 1741 queste isole erano a tutti sconosciute. Il celebre navigatore danese Vito Behring fu il primo a scoprirne alcune, il suo compagno Tchirikof ne scopriva altre nel 1742, e Billings e Saritchef negli anni 1793 e 1795 visitavano le restanti. È però probabile che talune non siano ancora state percorse da alcun europeo od americano

L’isola avvistata dal «Danebrog» era Unimak, la più occidentale dell’arcipelago, situata a 54° 30’ di latitudine nord e 167° di longitudine ovest. Si distinguevano chiaramente le sue tre montagne, la prima colla cima irregolarissima, la seconda in forma di cono e alta assai, vomitante un fumo nerissimo e la terza, chiamata dagli indigeni Kaighinak, mozzata. Quantunque si fosse in piena estate, sulle cime scintillavano con magico effetto i ghiacci non ancor disciolti dal sole.

– Entriamo nello stretto o giriamo di fuori? – chiese mastro Widdeak al capitano, che osservava l’isola.

– Il passo di Isanotzkoi ci è troppo famigliare perchè non si tenti il passaggio. Così potremo vedere se il capodolio si è arenato sulle coste della penisola d’Alaska.

Mastro Widdeak tornò al timone e diresse la nave verso Io stretto accennato che divide l’isola di Unimak dall’Alaska. Ben presto si trovò a poche gomene dalle sponde della prima, dove virò di bordo veleggiando parallelamente ad esse.

L’isola sembrava completamente deserta, quantunque l’abitino un cento o centocinquanta aleutini. Non si vedeva alcuna capanna e nemmeno un battello fra i piccoli «fiords». Anche i terreni apparivano aridissimi: solamente dei piccoli abeti rizzavano verso il cielo il loro verde fogliame e poche erbe si scorgevano in fondo alle vallette.

Le sponde dappertutto erano alte, dirupate e sparse qua e là di massi di basalto, forse colà lanciati dal vulcano fumante durante la terribile eruzione del 1820.

Alle 2 del pomeriggio il «Danebrog» entrava lentamente nello stretto di lsanotzkoi percorso da forti ondate, le quali andavano a rompersi con estrema furia contro le sponde dell’isola.

Colà volteggiavano numerosissime bande di gabbiani dalle piume bianchissime ma tinte leggermente di rosa sotto l’addome, i piedi neri e il becco giallo, uccelli voracissimi che si tengono quasi sempre presso le isole artiche, ma di una codardia fenomenale, poichè basta un uccello qualsiasi per metterli in fuga. Quantunque la loro carne sia poco pregiata, il tenente Hostrup, appassionatissimo e bravissimo cacciatore, sparò alcune fucilate abbattendone parecchi nel momento che passavano sopra il legno.

Alle 3 fu segnalata una barca indigena che pareva provenisse dalla vicina penisola di Alaska. Era una «baidaire», scialuppa grandissima, scavata nel tronco di un grossissimo albero colà portato senza dubbio dalle correnti marine e montata da una ventina di aleutini, uomini di mediocre statura ma robustissimi di tinta bruna, con viso rotondo, naso schiacciato, occhi piccoli ma espressivi e capelli nerissimi.

Passando presso il «Danebrog» salutarono con alte grida i marinai. Il capitano approfittò per interrogarli circa il capodolio, ma nulla potè sapere, avendo quegli uomini lasciata la penisola di Alaska da due sole ore.

Più tardi fu vista anche una «bodarkie», leggerissimo canotto costruito con pelli di vitello marino e somigliantissimo a quello usato dai groenlandesi. Lo montava un solo uomo munito di un remo a due pale, e pareva venisse da nord. Camminava però così rapidamente che in breve sparve verso est.

– Forse quell’uomo poteva direi qualche cosa – disse Koninson al tenente che guardava distrattamente le coste dell’isola.

– Se avesse scoperto il capodolio io ti dico che non ce l’avrebbe detto, fiociniere – rispose Hostrup.

– E perchè?

– Per spogliarlo lui coi suoi compagni. Un capodolio rappresenta una vera fortuna per questi poveri abitanti che ben sovente soffrono la fame, ma lo troveremo, fiociniere, non temere. Ho guardato poco fa l’acqua e ho scorto delle macchie oleose galleggiare e ciò indica che il nostro cetaceo è passato di qui.

– Mille tuoni! Bisogna seguire queste tracce.

– Le seguiremo Koninson.

– Io pianterò domicilio nella rete della delfiniera per non perderle.

– Niente di meglio.

Alle 9 di sera il «Danebrog», che filava con una discreta velocità, usciva dal canale di Isanotzkoi ed entrava nel mare di Behring, ampia distesa d’acqua compresa fra il 52° e 66° di latitudine nord e il 160° e 200° di longitudine est, cinta al sud dalla lunga catena delle isole Aleutine all’est e al nord-est dalle coste americane e al nord-ovest e ovest dal Kamtsciatka.

La maggiore lunghezza di questo mare che per lo più è coperto di nebbioni e di ghiacci, è da est ad ovest di circa 560 leghe. Tanto sulla costa americana quanto su quella asiatica, forma baie ampie ove non di rado vanno a partorire le balene durante la «stagione dei seni». Sono rimarchevoli a nord-ovest la grande baia, che può chiamarsi anche golfo d’Anadyr, ove si scarica il fiume omonimo, ad ovest quelle di Aliutorskoi e di Kamtsciatka e ad est quelle di Bristol e di Norton. Racchiude pure nel suo seno isole considerevoli, quali Sidov, San Matteo, San Paolo e San Giorgio.

Nel momento che il «Danebrog» entrava in questo vasto e molto pericoloso mare, nessuna vela si scorgeva sull’orizzonte, nè alcun cetaceo. Solamente alcune procellarie, funesti uccelli che non si dilettano che di tempeste, sfioravano le onde, entro le quali di quando in quando si tuffavano per pescare i pesciolini. Tre o quattro vennero a volteggiare attorno alla nave, mostrando le loro penne nerissime.

Il «Danebrog», spinto da un forte vento di sud-sud-ovest, si slanciò verso l’ampia baia di Bristol, dove si scorgevano sui flutti le sostanze oleose che davano all’acqua una tinta più verdastra, ma l’intera notte passò senza che quel dannato capodolio si facesse vedere.

L’indomani, 26 agosto, ancora nulla. Il capitano Weimar cominciò a diventare inquieto e di assai cattivo umore. Gli pareva impossibile che il mostro, con un rampone nei fianchi, avesse potuto percorrere tanta via quantunque si continuassero a scorgere le macchie oleose sui flutti.

Anche il secondo, di solito così flemmatico, era diventato un po’ nervoso. Passeggiava per la coperta fumando la sua eterna pipa con maggior furia e di tratto in tratto lo si udiva brontolare.

Koninson poi, che da ventiquattro ore aveva piantato domicilio nella rete della delfiniera per non perdere di vista le macchie oleose, dormendo colà e facendosi servire pure colà i pasti, era proprio furibondo. Lo si vedeva in continua agitazione, a rischio di sfondare la rete e di quando in quando lo si udiva mandare al diavolo tutti i capodolii degli oceani e. qualchevolta il rampone di Harwey.

Il 27 nulla ancora. Il mattino del 28, a trenta miglia a sud dal capo Rumjenzow, un gabbiere segnalò una nave che si dirigeva verso il sud correndo bordate.

Il capitano Weimar ordinò subito al timoniere di dirigere il «Danebrog» a quella volta per interrogare l’equipaggio.

Mezz’ora dopo si trovava a un solo miglio dalla nave segnalata. Era un bel «brick» di duecentocinquanta o trecento tonnellate, di forme eleganti e quasi carico. A poppa si alzava un fumo nerissimo segno evidente che l’equipaggio procedeva alla fusione di materie grasse.

– Deve essere un baleniere – disse il tenente.

– Weimar fece spiegare la bandiera danese e con una serie di segnali pregò il «brick» di mettersi in panna: il che subito fece. Il «Danebrog» in pochi minuti lo raggiunse mettendosi pure in panna a tre gomene di distanza.

– In che cosa posso esservi utile? – chiese il capitano del «brick», imboccando il portavoce, mentre il suo equipaggio spiegava la bandiera stellata degli Stati Uniti d’America.

– Venite dallo stretto? – chiese Weimar.

– L’avete detto.

– Avete incontrato un capodolio con un rampone al fianco?

– Sì, capitano. L’ho scorto ieri sera dinanzi la baia di Norton.

– Vivo?

– Vivo sì, ma mi parve agli estremi.

– Come va la pesca?

– Ho carico completo. Se volete un buon consiglio uscite dallo stretto e costellate la Giorgia. Troverete balene in gran numero.

– Grazie, capitano.

– Buona fortuna, signore.

Il «brick» spiegò le vele e riprese la corsa verso il sud, mentre il «Danebrog» si dirigeva verso il capo Rumjänzow che doveva apparire fra breve.

La speranza di ritrovare ben presto il capodolio era rinata in tutti i cuori. Koninson per primo aveva abbandonato il suo domicilio per arrampicarsi sulla gran gabbia e parecchi altri marinai l’avevano seguito, anzi alcuni si erano spinti più in alto, fino alle crocette. Persino il flemmatico tenente si era arrampicato sul trinchetto e dalla coffa esplorava il mare con un forte cannocchiale.

Alle 10 del mattino il «Danebrog» girava il capo Rumjänzow ed entrava nella baia di Chactoole, assai aperta e poco sicura, a nord-est della quale, fra il 64° e il 65° di latitudine nord e il 163° e il 164° di longitudine ovest, si apre la baia di Norton, scoperta dal celebre capitano Cook nel 1778.

Le coste apparivano dirupate e altissime, frastagliate, minate, sventrate dall’eterna azione del mare e con piccolissimi «fiords» entro i quali si ingolfavano le onde con grande fragore. Qua e là si vedeva qualche abete, qualche betulla nana, qualche cespuglio e delle cascate d’acqua che balzavano di roccia in roccia con bellissimo effetto.

Il «Danebrog» per qualche tratto navigò in prossimità delle coste, indi mise la prua verso la baia di Norton che raggiunse verso le 4 del pomeriggio dopo aver girato un capo dirupatissimo che cadeva quasi a piombo sul mare.

Quasi subito si udì Koninson dall’alto della gran gabbia gridare:

– Il capodolio a prua!

Tutti gli occhi si volsero verso la direzione accennata. A cinque sole gomene dal «Danebrog», vicinissimo alla costa, galleggiava coi ventre in aria il cetaceo circondato da migliaia e migliaia di uccelli marini che formavano, colle loro discordi grida, un baccano indiavolato.

I pescatori di balene

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