Читать книгу I pescatori di balene - Эмилио Сальгари - Страница 8
VIII. I PRIMI GHIACCI
ОглавлениеPochi minuti dopo il «Danebrog» che, come si disse, aveva già spiegato le vele, abbordava la balena che era tornata a galla e presso la quale si erano già ormeggiate te le due baleniere.
Il gigante galleggiava in mezzo ad un ampio cerchio di sangue uscitole dalle numerose ferite apertegli dai ramponi e dalle lancie e sul suo ventre avevano già preso posto gli uccelli marini sempre pronti ad accorrere dove sanno che c’è da rimpinzarsi. Ve n’erano delle migliaia giunti da tutte le parti dell’orizzonte e specialmente dalla costa americana che non distava più di sette miglia.
Lo smembramento cominciò subito. Il capitano, seguito da un forte drappello di marinai armati di pale taglienti, entrò nella bocca della balena, dopo averle strappato il labbro inferiore, onde estrarle la lingua che è lunga non meno di otto metri e per raccogliere i fanoni i quali sono in numero di settecento, della lunghezza di cinque metri, un po’ curvi, stretti gli uni agli altri per lo più neri ma talvolta anche variegati. Pendono dalla mascella superiore e sono riuniti da una sostanza glutinosa, attaccaticcia assai, la quale disseccandosi forma su di essi una specie di vernice lucida e liscia.
Terminate queste due importanti operazioni, i marinai posero mano alla dipanazione di quell’enorme massa che pesava non meno di novantamila chilogrammi e che era avvolta da un grossissimo strato di grasso.
Ben presto i fornelli ricominciarono a funzionare empiendo l’aria di un fumo nerissimo e fetente e la coperta del legno offerse il riluttante aspetto che abbiamo già descritto nello smenbramento del capodolio. Questa volta però fiocinieri e marinai lavoravano con maggior alacrità, essendo impazientissimi di rimettersi alla vela. Quegli uomini che da parecchi anni navigavano in quei freddi mari, quantunque la temperatura fosse, cosa insolita, ancora mite, presentivano l’avvicinarsi dell’inverno e d’un inverno rigidissimo
Già il sole non lanciava più, alla mezzanotte i suoi splendidi raggi su quei mari e su quelle terre. Da alcuni giorni, fra le 10 e le 11 della notte tramontava e per alcune ore si teneva celato sotto l’orizzonte. E già gli uccelli marini erano diventati meno numerosi e ad ogni istante grandi bande fuggivano verso il sud in cerca di un clima più mite. I ghiacci non erano ancora apparsi, ma i marinai se non li vedevano, li sentivano.
Il capitano aveva notato e presentito tutto ciò prima dell’equipaggio e perciò stimolava i lavoranti, non avendo tuttavia ritardato a spingersi più innanzi per completare il carico.
Prima che il sole tramontasse una terza parte del cetaceo era stata già dipanata e parecchie tonnellate d’olio erano state calate nella stiva.
Quella notte, per la prima volta, il freddo scese tre gradi sotto zero e l’acqua gettata sulla tolda poco prima dello spuntare del giorno, gelò.
Il 18 e il 19 settembre lo smembramento fu continuato con tanta alacrità che alle 10 pomeridiane l’ultimo pezzo di grasso veniva ritirato a bordo. Il capitano fece tosto spiegare le vele e il «Danebrog» abbandonò il gigantesco carcame agli uccelli marini, mettendo la prua ad est ove si scorgevano sempre, ed in grandissima quantità, le macchie oleose galleggiare sull’acqua.
La sera era magnifica. Il sole splendeva superbamente calando lentamente verso l’orizzonte, dove erravano alcune nuvolette dalla tinta di fuoco, e il mare era liscio come uno specchio, senza la più piccola ruga.
In lontananza, verso sud, giganteggiavano le dirupate coste americane coi loro abeti e i loro pini piantati sulle vette; verso nord una coppia di delfini gladiatori scherzava, mostrando ora le code e ora l’oscuro dorso; verso ovest una gran frotta di oche bernine filava in silenzio e rapidissimamente verso regioni più calde.
L’aria era mite e aveva una mollezza che rammentava una delle più belle notti d’autunno dei climi temperati, rinfrescata di quando in quando da un venticello che spirava da ovest.
Il «Danebrog», con tutte le sue vele spiegate, per alcune miglia filò verso est, poi piegò verso la costa americana ove si dirigevano le macchie oleose.
Nulla accadde durante la notte, ma poco dopo il sorgere del sole fu fatta una scoperta che turbò gli animi e fece aggrottare la fronte al capitano Weimar che era appena salito sulla tolda.
Era una montagna di ghiaccio, un «iceberg» che scendeva lentamente verso sud spinto dalle correnti e dal vento che da alcune ore soffiava da nord.
– Brutto incontro! – disse Koninson al tenente, che era salito sulla murata per meglio osservare l’«iceberg».
– Era ora! – rispose con voce tranquilla il signor Hostrup. – Non siamo più in estate.
– Non dico di no, tenente, ma se a questa montagna ne tenessero dietro altre cento o duecento, come avanzeremo noi?
– Il «Danebrog» ha un solido sperone e non teme i ghiacci.
– Ditemi, tenente, le montagne di ghiaccio si spingono molto verso sud?
– Molto, Koninson. Io ne vidi alcune a parecchie centinaia di miglia dalle isole Aleutine, in pieno oceano Pacifico, altre a sud del Banco di Terranova o sulle coste del grande Impero russo e perfino presso le sponde della Norvegia. Anzi mi ricordo che una nave in viaggio dalla Scozia a Brema fu schiacciata da un «iceberg» che era sceso nel mare del Nord.
– Tanto scendono!
– E scenderanno sempre più. Se tu vivrai un secolo ne vedrai alcuni anche sulle coste della Danimarca e fors’anche della Prussia.
– E perchè, signore?
– Perchè la linea dei ghiacci ogni anno guadagna spazio.
– Dunque il freddo cresce nelle regioni polari?
– Sì, Koninson. Alcuni mari, che alcuni secoli or sono erano navigabili, ora sono ingombri dai ghiacci e alcune terre, un tempo fertili, oggi sono ridotte a deserti di neve. Vuoi degli esempi?
– Gettateli fuori, signor Hostrup.
– Nel IX secolo, alcuni Scandinavi che avevano fondato delle colonie in Groenlandia e in Islanda, sbarcavano su una costa ove cresceva la vite, e perciò chiamarono quella terra Vinland. Sai come si chiama oggi quel paese?
– No, signor Hostrup.
– Si chiama Labrador.
– Come, nel IX secolo nel Labrador cresceva la vite!
– Si, fiociniere. E cosa è oggi il Labrador?
– Un deserto di neve ove la vite non crescerebbe nemmeno accanto alla stufa. Per Bacco, che discesa hanno fatto i ghiacci!
– Un altro esempio, Koninson. Quattrocento anni fa gli Islandesi trafficavano liberamente, in pieno inverno, coi Groenlandesi. Oggi d’inverno non si arrischiano più a navigare in quel tratto di mare per non venire stritolati dai ghiacci.
– È strano! – disse Koninson.
– Vuoi ora un terzo esempio? Quaranta o cinquant’anni fa, sulle coste dell’America settentrionale e sulle vicine isole, vivevano in grande numero i buoi muschiati, grossi e bellissimi ruminanti dal pelo lunghissimo e dalle grandi corna. Sai perchè oggi questi ruminanti sono scomparsi?
– Perchè, tenente?
– Perchè il freddo è sceso a distruggere le praterie e questa è cosa quasi recente. Io ho conosciuto un capitano il quale cinquant’anni fa cacciava le balene, durante l’inverno, nella baia di Melville. Chi è l’audace baleniere che oggi ardisce entrare d’inverno in quella baia?
– E nell’oceano antartico, la linea dei ghiacci si spinge pure sempre più innanzi?
– Più che nell’oceano artico, Koninson. Colà si trovano dei ghiacci sopra il 50° parallelo e talvolta anche sopra il 45°, specialmente nel tratto di mare compreso fra l’America del Sud e l’Australia.
– Che ciò dipenda dal raffreddarsi del nostro globo?
– Certamente. Ecco l’«iceberg»; guarda come è bello!
La montagna di ghiaccio era allora vicinissima al «Danebrog». Aveva la forma di una piramide, un’altezza di oltre cento metri e una base di trecento. I raggi del sole, riflettendosi sulle mille faccettine, la rendevano così sfolgorante che a guardarla gli occhi provavano un acuto dolore.
Sulla cima di quel colosso, che il vento del nord spingeva verso la costa americana, alcuni uccelli marini avevano piantato i loro nidi e mandavano acute strida.
Tutto l’equipaggio del «Danebrog», quantunque abituato a simili incontri, era salito in coperta a contemplare quel primo apportatore del freddo che, colpito in pieno dal sole, scintillava come fosse un enorme diamante.
– Bello! – disse Koninson.
– Ma pericoloso – aggiunse il tenente.
Ad un tratto dalla sommità di quella montagna caddero dei frammenti di ghiaccio che produssero sull’acqua un rumore analogo a quello delle goccie d’acqua. Subito gli uccelli se ne volarono via mandando strida di spavento.
– L’«iceberg» si rovescia!– gridò mastro Widdeak. – Attento all’onda, timoniere!
La montagna di ghiaccio, rosa alla base dall’acqua, stava per perdere il suo equilibrio. Fu veduta oscillare da destra a sinistra per alcuni istanti, poi tutto d’un colpo la sua vetta tracciò nell’aria una grande curva e l’intera massa piombò nel mare con un cupo rimbombo. Sparve tutta, poi una grande punta azzurra emerse fra un vortice di spuma, dapprima lentamente, indi con un balzo repentino e ricadde sollevando un’ondata che fece piegare sul babordo il «Danebrog», correndo poi ad infrangersi con indescrivibile violenza contro la costa americana.
Per alcuni minuti la montagna, che presentava una punta assai aguzza, ondeggiò spaventosamente, ora tuffandosi e ora risalendo, poi a poco a poco riprese l’equilibrio e si allontanò verso sud sempre scintillante, sempre superba, sempre gigantesca.
Quello stesso giorno di fronte alla baia Smith, altri due «icebergs», ma di dimensioni più piccole, furono incontrati dal «Danebrog» che navigava sempre in vista della costa americana, dietro le macchie oleose che apparivano ancora numerosissime.
Il 21 la temperatura discese bruscamente a 7° sotto zero e il vento crebbe di violenza diventando così freddo che i marinai furono costretti a indossare le vesti d’inverno.
Verso il mezzodì il «Danebrog» entrava fra due lunghissime file di «hummoks», piccoli ghiacci di pochi metri di altezza, staccati senza dubbio da qualche campo di ghiaccio o da qualche grande «iceberg».
Erano cinque o seicento, arrotondati gli uni, aguzzi gli altri, o scabri, o lisci, o screpolati, che si urtavano rumorosamente frangendosi e che ad ogni istante perdevano l’equilibrio prendendo nuove forme. Il sole, battendovi sopra, dava ad alcuni l’apparenza di zaffiri, ad altri di smeraldi, ametiste e diamanti di grande splendore.
II «Danebrog» non provò gran fatica ad aprirsi il passo col suo solido sperone di acciaio e spinto da un buon vento se li lasciò ben presto tutti a poppa. Ma tre miglia più innanzi nuovi ghiacci apparvero, più solidi, più grandi e più numerosi dei primi. Li capitanava un gigantesco «iceberg» ai cui piedi nuotavano alcuni narvali, grandi pesci armati da un dente lungo assai e molto aguzzo.
A rendere ancor più difficile la navigazione, scese dalla costa americana un nebbione fittissimo, il quale in pochi istanti coprì il mare celando agli occhi dei marinai i ghiacci.
– Hum! – mormorò il capitano che era diventato inquieto. – Se non procediamo cauti, corriamo pericolo di rompere una costola al «Danebrog».
Fece prendere terzaruoli su quasi tutte le vele per diminuire la velocità della nave, e mise alcuni uomini a prua con dei solidi buttafuori per respingere i ghiacci che potevano danneggiare il bompresso.
Alle 5 del pomeriggio il nebbione era diventato così fitto che il timoniere non distingueva più l’albero di trinchetto, e i gabbieri dalle coffe a gran fatica discernevano la coperta del bastimento.
Una viva inquietudine si impadronì dell’equipaggio. Ognuno temeva l’incontro improvviso di qualche «iceberg» che forse in quei momenti navigava a poche gomene e fors’anche a sole poche braccia.
Di quando in quando agli orecchi degli uomini di guardia giungevano dei forti cozzi, degli scricchiolii e dei colpi sordi come di ghiacci che, perduto l’equilibrio, capitombolano e delle forti ondate venivano ad infrangersi contro i fianchi del «Danebrog» il quale procedeva alla cieca.
Alle 10, dopo il tramonto del sole, a bordo non ci si vedeva più in là di cinque passi.
– La cosa diventa seria assai! – disse Koninson al tenente. – Non si sa più dove si va.
– Questo nebbione non durerà molto, fiociniere – rispose il signor Hostrup. – Appena il sole risorgerà lo dileguerà, io vedrai.
– Ma prima di domani mattina…
– Taci!…
– Che avete udito?
– Qualche gran ghiaccio naviga presso di noi, Koninson. Non odi questo gridìo?
Il fiociniere tese gli orecchi trattenendo il respiro. Attraverso la fitta cortina di vapori udì distintamente un acuto gridìo che lentamente si avvicinava, indi un sordo muggito, come il rompersi di una grande ondata contro una costa.
– Oh! Oh! – esclamò.
– Vedi nulla? – chiese il tenente.
– Nulla, signore, ma sento la presenza di un «iceberg». Gli uccelli marini non si riuniscono in gran numero che attorno ad una balena morta o a un grande ghiaccio.
– Attenzione, timoniere! – gridò il tenente. – E voi, ragazzi, pronti ai bracci delle manovre.
Il capitano, che stava a poppa accanto al timoniere, accorse a prua. Quasi nel medesimo istante a poche braccia dallo sperone apparve un debole chiarore.
– Un «iceberg»? – chiese Weimar.
– Sì, capitano! – rispose il tenente. – E se non m’inganno deve essere colossale.
– Barra a babordo tutta, mastro Widdeakl – gridò il capitano.
A prua si udirono alcuni cozzi violenti seguiti da forti crepitii, poi un’onda di considerevole altezza venne a spezzarsi contro lo sperone. Un centinaio di uccelli marini fendette il nebbione e calò sulla nave, credendola forse, fra quell’oscurità, il corpo di una balena.
– I buttafuori! I buttafuori! – gridò Weimar salendo sul bompresso per meglio vedere.
Dieci marinai muniti di solidi spuntoni accorsero per respingere l’assalto del formidabile nemico che li minacciava, ma d’improvviso furono rovesciati sulla coperta. Un urto violentissimo era avvenuto a prua e il «Danebrog» era stato respinto.
Un grido di spavento sfuggì da quasi tutti i petti. Un «iceberg» alto almeno cento metri era sorto dinanzi alla nave dondolandosi spaventosamente.
– Tutti a prua, perdio! – urlò il capitano che non aveva perduto il suo sangue freddo.
I marinai, risollevatisi prontamente, si slanciarono colà e spinsero fuori gli spuntoni, alcuni dei quali si spezzarono contro l’«iceberg» che continuava a oscillare formando alla sua base delle forti ondate.