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Emilio Salgari
IL CORSARO NERO
CAPITOLO II. UNA SPEDIZIONE AUDACE

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Carmaux si era affrettato ad obbedire, sapendo che col formidabile Corsaro era pericoloso indugiare.

Wan Stiller lo attendeva dinanzi al boccaporto, in compagnia del mastro d’equipaggio e d’alcuni filibustieri, i quali lo interrogavano sulla disgraziata fine del Corsaro Rosso e del suo equipaggio, manifestando terribili propositi di vendetta contro gli spagnuoli di Maracaybo e soprattutto contro il governatore. Quando l’amburghese apprese che si doveva preparare il canotto per fare ritorno alla costa, dalla quale si erano allontanati precipitosamente per un vero miracolo, non poté nascondere il suo stupore e la sua apprensione.

– Tornare ancora laggiú!… – esclamò. – Ci lasceremo la pelle, Carmaux.

– Bah!… Non ci andremo soli questa volta.

– Chi ci accompagnerà dunque?

– Il Corsaro Nero.

– Allora non ho piú timori. Quel diavolo d’uomo vale cento filibustieri.

– Ma verrà solo.

– Non conta, Carmaux; con lui non vi è da temere. E rientreremo in Maracaybo?…

– Sí, mio caro, e saremo bravi se condurremo a buon fine l’impresa. Ehi, mastro, fà gettare nel canotto tre fucili, delle munizioni, un paio di sciabole d’arrembaggio per noi due, e qualche cosa da mettere sotto i denti. Non si sa mai ciò che può succedere e quando potremo tornare.

– È già fatto, – rispose il mastro. – Non mi sono dimenticato nemmeno il tabacco.

– Grazie, amico. Tu sei la perla dei mastri.

– Eccolo, – disse in quell’istante Wan Stiller.

Il Corsaro era comparso sul ponte. Indossava ancora il suo funebre costume, ma si era appesa al fianco una lunga spada, ed alla cintura un paio di grosse pistole ed uno di quegli acuti pugnali spagnuoli chiamati misericordie. Sul braccio portava un ampio ferraiuolo, nero come il vestito.

S’avvicinò all’uomo che stava sul ponte di comando e che doveva essere il comandante in seconda, scambiò con lui alcune parole, poi disse brevemente ai due filibustieri:

– Partiamo.

– Siamo pronti – rispose Carmaux.

Scesero tutti e tre nel canotto che era stato condotto sotto la poppa e già provvisto d’armi e di viveri. Il Corsaro si avvolse nel suo ferraiuolo e si sedette a prora, mentre i filibustieri, afferrati i remi, ricominciarono con grande lena la faticosa manovra.

La nave filibustiera aveva subito spento i fanali di posizione e, orientate le vele, si era messa a seguire il canotto, correndo bordate, onde non precederlo. Probabilmente il comandante in seconda voleva scortare il suo capo fin presso la costa per proteggerlo nel caso d’una sorpresa.

Il Corsaro, semisdraiato a prora, col capo appoggiato ad un braccio, stava silenzioso, ma il suo sguardo, acuto come quello di un’aquila, percorreva attentamente il fosco orizzonte, come se cercasse discernere la costa americana che le tenebre nascondevano.

Di tratto in tratto volgeva il capo verso la sua nave che sempre lo seguiva, ad una distanza di sette od otto gomene, poi tornava a guardare verso il sud.

Wan Stiller e Carmaux intanto arrancavano di gran lena, facendo volare, sui neri flutti, il sottile e svelto canotto. Né l’uno né l’altro parevano preoccupati di ritornare verso quella costa, popolata dai loro implacabili nemici, tanta era la fiducia che avevano nell’audacia e nella valentia del formidabile Corsaro, il cui solo nome bastava a spargere il terrore in tutte le città marittime del grande golfo messicano. Il mare interno di Maracaybo, essendo liscio come se fosse di olio, permetteva alla veloce imbarcazione di avanzare senza troppo affaticare i due rematori. Non essendovi in quel luogo, racchiuso fra due capi che lo proteggono dalle larghe ondate del Grande Golfo, coste ripide, non vi sono flutti di fondo, sicché è rado che l’acqua là entro si sconvolga.

I due filibustieri arrancavano da un’ora, quando il Corsaro Nero, che fino allora aveva mantenuto una immobilità quasi assoluta, si alzò bruscamente in piedi, come se volesse abbracciare collo sguardo maggiore orizzonte.

Un lume, che non si poteva confondere con una stella, brillava a fior d’acqua, verso il sud-ovest, ad intervalli d’un minuto.

– Maracaybo, – disse il Corsaro, con accento cupo, che tradiva un impeto di sordo furore.

– Sí, – rispose Carmaux, che si era voltato.

– Quanto distiamo?

– Forse tre miglia, capitano.

– Allora a mezzanotte noi vi saremo.

– Sí.

– Vi è qualche crociera?

– Quella dei doganieri.

– È necessario evitarla.

– Conosciamo un posto ove potremo sbarcare tranquilli e nascondere il canotto fra i paletuvieri.

– Avanti.

– Una parola, capitano.

– Parla.

– Sarebbe meglio che la nostra nave non si avvicinasse di piú.

– Ha già virato e ci aspetterà al largo, – rispose il Corsaro.

Stette silenzioso alcuni istanti, poi riprese:

– È vero che vi è una squadra nel lago?

– Sí, comandante, quella dell’ammiraglio Toledo che veglia su Maracaybo e Gibraltar.

– Ah!… Hanno paura? Ma l’Olonese è alla Tortue e fra noi due la manderemo a picco. Pazienza alcuni giorni ancora, poi Wan Guld saprà di che cosa saremo capaci noi. —

Si ravvolse di nuovo nel suo mantello, si calò il feltro sugli occhi, poi tornò a sedersi, tenendo gli sguardi fissi su quel punto luminoso che indicava il faro del porto. Il canotto riprese la corsa; non manteneva però piú la prora verso l’imboccatura di Maracaybo, volendo evitare la crociera delle guardie doganali, le quali non avrebbero mancato di fermarlo e di arrestare le persone che lo montavano.

Mezz’ora dopo, la costa del golfo era perfettamente visibile, non essendo lontana piú di tre o quattro gomene. La spiaggia scendeva in mare dolcemente, tutta ingombra di paletuvieri, piante che crescono per lo piú alla foce dei corsi d’acqua e che producono delle febbri terribili e che sono la causa del vomito prieto ossia della temuta febbre gialla.

Piú oltre si vedeva spiccare, sul fondo stellato del cielo, una cupa vegetazione, la quale lanciava in aria enormi ciuffi di foglie piumate, di dimensioni gigantesche.

Carmaux e Wan Stiller avevano rallentata la vogata e si erano voltati per vedere la costa. Non s’avanzavano che con grandi precauzioni, procurando di non fare rumore e guardando attentamente in tutte le direzioni, come se temessero qualche sorpresa.

Il Corsaro Nero non si era invece mosso, però aveva posto dinanzi a sé i tre fucili imbarcati dal mastro, per salutare, con una scarica, la prima scialuppa che avesse osato avvicinarsi.

Doveva essere la mezzanotte quando il canotto si arenava in mezzo ai paletuvieri, cacciandosi piú di mezzo fra le piante e le contorte radici.

Il Corsaro si era alzato. Ispezionò rapidamente la costa, poi balzò agilmente a terra, legando l’imbarcazione ad un ramo.

– Lasciate i fucili – disse a Wan Stiller ed a Carmaux. – Avete le pistole?

– Sí, capitano, – rispose l’amburghese.

– Sapete dove siamo?

– A dieci o dodici miglia da Maracaybo.

– È situata dietro questo bosco la città?

– Sul margine di questa macchia gigantesca.

– Potremo entrare questa notte?…

– È impossibile capitano. Il bosco è foltissimo e non potremo attraversarlo prima di domani mattina.

– Sicché saremo costretti ad attendere fino a domani sera?

– Se non volete arrischiarvi di entrare in Maracaybo di giorno, bisognerà rassegnarsi ad aspettare.

– Mostrarci in città di giorno sarebbe un’imprudenza, – rispose il Corsaro, come parlando fra sé stesso. – Se avessi qui la mia nave pronta ad appoggiarci ed a raccoglierci, l’oserei, ma la Folgore incrocia ora nelle acque del gran golfo. -

Rimase alcuni istanti immobile e silenzioso, come se fosse immerso in profondi pensieri, quindi riprese:

– E mio fratello, potremo trovarlo ancora?

– Rimarrà esposto sulla Plaza de Granada tre giorni, – disse Carmaux. – Ve lo dissi già.

– Allora abbiamo tempo. Avete conoscenze in Maracaibo?

– Sí, un negro, quello che ci offrí il canotto per fuggire. Abita sul margine di questa foresta in una capanna isolata.

– Non ci tradirà?

– Rispondiamo di lui.

– In cammino.

Salirono la sponda, Carmaux dinanzi, il Corsaro in mezzo e Wan Stiller in coda e si cacciarono in mezzo all’oscura boscaglia procedendo cautamente, cogli orecchi tesi e le mani sui calci delle pistole, potendo cadere da un istante all’altro in un agguato.

La foresta si rizzava dinanzi a loro, tenebrosa come una immensa caverna. Tronchi d’ogni forma e dimensione si ergevano verso l’alto, sostenendo foglie smisurate, le quali impedivano assolutamente di scorgere la volta stellata.

Festoni di liane cadevano dappertutto, intrecciandosi in mille guise, salendo e scendendo dai tronchi delle palme e correndo da destra a sinistra, mentre al suolo strisciavano, attorcigliate le une alle altre, radici smisurate, le quali ostacolavano non poco la marcia dei tre filibustieri, costringendoli a fare dei lunghi giri per trovare un passaggio, o a mettere mano alle sciabole d’arrembaggio per reciderle.

Dei vaghi bagliori, come di grossi punti luminosi, che proiettavano ad intervalli dei veri sprazzi di luce, correvano in mezzo a quelle migliaia di tronchi, danzavano ora a livello del suolo ed ora in mezzo al fogliame. Si spegnevano bruscamente, poi si riaccendevano e formavano delle vere onde luminose di una incomparabile bellezza, che aveva qualche cosa di fantastico.

Erano le grosse lucciole dell’America Meridionale, le vaga lume che tramandano una luce cosí vivida da permettere di leggere le scritture piú minute anche alla distanza di qualche metro e che rinchiuse in un vasetto di cristallo in tre o quattro, bastano ad illuminare una stanza; e le lampyris occidental o perilampo, altri bellissimi insetti fosforescenti che si trovano in grandissimi sciami nelle foreste della Guiana e dell’Equatore.

I tre filibustieri, sempre nel piú profondo silenzio, continuavano la marcia, non lasciando le loro precauzioni, poiché oltre gli uomini, avevano da temere anche gli abitanti delle foreste, i sanguinari giaguari e soprattutto i serpenti, specialmente gli jaracarà, rettili velenosissimi, che sono difficili a scorgersi anche di giorno essendo la loro pelle del colore delle foglie secche.

Dovevano aver percorso due miglia, quando Carmaux, che si trovava sempre dinanzi, essendo il piú pratico dei luoghi, s’arrestò bruscamente armando con precipitazione una delle sue pistole.

– Un giaguaro od un uomo? – chiese il Corsaro, senza la minima apprensione.

– Può essere stato un giaguaro, ma anche una spia, – rispose Carmaux. – In questo paese non si è mai certi di vedere l’indomani.

– Dov’è passato?

– A venti passi da me.

Il Corsaro si curvò verso terra ed ascoltò attentamente, trattenendo il respiro. Un leggero scrosciare di foglie giunse fino a lui; era però cosí debole che solamente un orecchio molto esercitato ed acuto poteva udirlo.

– Può essere un animale, – rispose rialzandosi. – Bah!… Noi non siamo uomini da spaventarci. Impugnate le sciabole e seguitemi.

Girò intorno al tronco di un albero enorme che torreggiava in mezzo alle palme, poi sostò in mezzo ad un gruppo di foglie giganti scrutando le tenebre.

Lo scrosciare delle foglie secche era cessato, tuttavia al suo orecchio giunse un tintinnio metallico e poco dopo un colpo secco come se il cane d’un fucile venisse alzato.

– Fermi! Qui vi è qualcuno che ci spia e che aspetta il momento opportuno per farci fuoco addosso.

– Che ci abbiano veduti sbarcare? – borbottò Carmaux, con inquietudine. – Questi spagnuoli hanno spie dappertutto.

Il Corsaro aveva impugnata colla destra la spada e colla sinistra una pistola e cercava di girare quell’ammasso di foglie, senza produrre il minimo rumore. Ad un tratto Carmaux e Wan Stiller lo videro slanciarsi innanzi e piombare, con un solo salto, addosso ad una forma umana, che si era improvvisamente alzata in mezzo ad un cespuglio.

L’assalto del Corsaro era stato cosi improvviso ed impetuoso che l’uomo che si teneva imboscato era andato a gambe levate, percosso in pieno viso dalla guardia della spada.

Carmaux e Wan Stiller si erano subito precipitati su di lui, e mentre il primo s’affrettava a raccogliere il fucile che l’uomo imboscato aveva lasciato cadere, senza avere avuto il tempo di scaricarlo, l’altro puntava la pistola dicendo:

– Se ti muovi sei un uomo spacciato.

– È uno dei nostri nemici, – disse il Corsaro che si era curvato.

– Un soldato di quel dannato Wan Guld, – rispose Wan Stiller. – Che cosa faceva imboscato in questo luogo? Sarei curioso di saperlo.

Lo spagnuolo, che era stato stordito dalla guardia della spada del Corsaro, cominciava a riaversi, accennando ad alzarsi.

– Carrai! – borbottò con un tremito nella voce. – Che sia caduto tra le mani del diavolo?

– L’hai indovinato, – disse Carmaux. – Giacché a voi piace chiamare cosí noi filibustieri.

Lo spagnuolo provò un brivido cosí forte, che Carmaux se ne accorse.

– Non aver tanta paura, per ora, – gli disse, ridendo. – Risparmiala per piú tardi, per quando danzerai nel vuoto un fandango disordinato con un bel pezzo di solida canapa stretto alla gola.

Poi volgendosi verso il Corsaro, che guardava in silenzio il prigioniero, gli chiese:

– Devo finirlo con un colpo di pistola?

– No, – rispose il capitano.

– Preferite appiccarlo ai rami di quell’albero?

– Nemmeno.

– Forse è uno di quelli che hanno appiccato i Fratelli della Costa ed il Corsaro Rosso, mio capitano.

A quel ricordo un lampo terribile balenò negli occhi del Corsaro Nero, ma subito si spense.

– Non voglio che muoia, – disse con voce sorda. – Può esserci piú utile d’un appiccato.

– Allora leghiamolo per bene, – dissero i due filibustieri.

Si levarono le fasce di lana rossa che portavano ai fianchi e strinsero le braccia del prigioniero, senza che questi osasse fare resistenza.

– Ora vediamo un pò chi sei, – diesse Carmaux.

Accese un pezzo di miccia da cannone che teneva in tasca e l’accostò al viso dello spagnuolo.

Quel povero diavolo, caduto nelle mani dei formidabili corsari della Tortue, era un uomo di appena trent’anni, lungo e magro come il suo compatriota Don Chisciotte, con un viso angoloso, coperto da una barba rossiccia e due occhi grigi, dilatati dallo spavento.

Indossava una casacca di pelle gialla con qualche rabesco, corti e larghi calzoni a righe nere e rosse e calzava lunghi stivali di pelle nera. Sul capo invece portava un elmetto d’acciaio adorno di una vecchia piuma, la quale non aveva piú che rade barbe e dalla cintura gli pendeva una lunga spada, la cui guaina era assai irruginita alle sue estremità.

– Per Belzebú mio patrono!… – esclamò Carmaux, ridendo. – Se il Governatore di Maracaybo ha di questi prodi vuol dire che non li nutre di certo con capponi, poiché è piú magro di un’aringa affumicata. Credo, capitano, che valga la pena d’appiccarlo.

– Non ho detto d’appiccarlo – rispose il Corsaro.

Poi toccando il prigioniero con la punta della spada gli disse:

– Ora parlerai se ti preme la pelle.

– La pelle è già perduta – rispose lo spagnuolo. – Non si esce vivi dalle vostre mani e quando io avessi narrato a voi quanto vorreste sapere, non sarei certo di rivedere egualmente l’indomani.

– Lo spagnuolo ha del coraggio, – disse Wan Stiller.

– E la sua risposta vale la sua grazia, – aggiunse il Corsaro. – Via, parlerai?

– No, – rispose il prigioniero.

– Ti ho promesso salva la vita.

– E chi vi crederà?

– Chi?… Ma sai chi sono io?

– Un filibustiere.

– Sí, ma che si chiama il Corsaro Nero.

– Per la nostra Signora di Guadalupa! – esclamò lo spagnuolo, diventando livido. – Il Corsaro Nero qui!… Siete venuto per sterminarci tutti e vendicare il vostro fratello, il Corsaro Rosso?

– Sí, se non parlerai, – rispose il filibustiere con voce cupa. – Vi sterminerò tutti e di Maracaybo non rimarrà pietra su pietra!

– Por todos santos!… Voi qui? – ripeté il prigioniero, che non si era ancora rimesso dalla sorpresa.

– Parla!…

– Sono morto; è quindi inutile.

– Il Corsaro Nero è un gentiluomo, sappilo, ed un gentiluomo non ha mai mancato alla parola data, – rispose il capitano con voce solenne.

– Allora interrogatemi.

Il Corsaro Nero

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