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Emilio Salgari
IL CORSARO NERO
CAPITOLO IV. UN DUELLO FRA QUATTRO MURA

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Maracaybo, quantunque non avesse una popolazione superiore alle diecimila anime, in quell’epoca era una delle piú importanti città che la Spagna possedesse sulle coste del Golfo del Messico.

Situata in una splendida posizione, all’estremità meridionale del Golfo di Maracaybo, dinanzi allo stretto che mette nell’ampio lago omonimo, che internasi per molte leghe nel continente, era diventata rapidamente importantissima, e serviva d’emporio a tutte le produzioni del Venezuela.

Gli spagnuoli l’avevano munita di un forte poderoso, armato d’un gran numero di cannoni e sulle due isole, che la difendevano dal lato del golfo, avevano messe guarnigioni fortissime, temendo sempre un’improvvisa irruzione dei formidabili filibustieri della Tortue.

Belle abitazioni erano state erette dai primi avventurieri che avevano posto piede su quelle sponde ed anche non pochi palazzi si vedevano, costruiti da architetti venuti dalla Spagna per cercare fortuna nel nuovo mondo; abbondavano soprattutto i pubblici ritrovi, dove si radunavano i ricchi proprietari di miniere, e dove, in tutte le stagioni, danzavasi il fandango od il bolero.

Quando il Corsaro ed i suoi compagni, Carmaux ed il negro, entrarono in Maracaybo indisturbati, le vie erano ancora popolate e le taverne dove spacciavansi vini d’oltre Atlantico erano affollate, poiché gli spagnuoli, anche nelle loro colonie, non avevano rinunciato a sorbirsi un ottimo bicchiere della natia Malaga o Xéres. Il Corsaro aveva rallentato il passo. Col feltro calato sugli occhi, avvolto nel suo mantello, quantunque la sera fosse calda, colla sinistra appoggiata fieramente sulla guardia della spada, osservava attentamente le vie e le case, come se avesse voluto imprimersele nella mente.

Giunti sulla Plaza de Granada che formava il centro della città, s’arrestò sull’angolo di una casa, appoggiandosi contro il muro, come se una improvvisa debolezza avesse colto quel fiero scorridore del golfo.

La piazza offriva uno spettacolo cosí lugubre, da fare fremere l’uomo piú impassibile della terra.

Da quindici forche, innalzate in semicerchio dinanzi ad un palazzo sul quale ondeggiava la bandiera spagnuola, pendevano quindici cadaveri umani.

Erano tutti scalzi, colle vesti a brandelli, eccettuato uno che indossava un costume dal colore del fuoco e che calzava alti stivali da mare.

Sopra quelle quindici forche, numerosi gruppi di zopilotes e di urubu, piccoli avvoltoi dalle penne tutte nere, incaricati della pulizia delle città dell’America centrale, pareva che non attendessero la putrefazione di quei disgraziati per gettarsi su quelle povere carni.

Carmaux si era avvicinato al Corsaro, dicendogli con voce commossa:

– Ecco i compagni.

– Sí, – rispose il Corsaro, con voce sorda. – Reclamano vendetta e l’avranno presto.

Si staccò dal muro facendo uno sforzo violento, chinò il capo sul petto come se avesse voluto celare la terribile emozione che aveva sconvolto i suoi lineamenti e s’allontanò a rapidi passi, entrando in una posada, specie d’albergo, dove abitualmente si radunano i nottambuli per vuotare con loro comodo parecchi boccali di vino.

Trovato un tavolo vuoto si sedette, o meglio si lasciò cadere su di una scranna, senza alzare il capo, mentre Carmaux urlava:

– Un boccale del tuo migliore Xeres, oste briccone!… Bada che sia autentico o non rispondo dei tuoi orecchi… L’aria del golfo mi ha fatta venire una tale sete, da asciugare tutta la tua cantina!…

Quelle parole, pronunciate in puro biscaglino, fecero accorrere piú che in fretta il trattore, con un fiasco di quell’eccellente vino.

Carmaux empí tre tazze, ma il Corsaro era cosí immerso nei suoi tetri pensieri, che non pensò di toccare la sua.

– Per mille pescicani, – borbottò Carmaux, urtando il negro. – Il padrone è in piena tempesta ed io non vorrei trovarmi nei panni degli spagnuoli. Bell’audacia, in fede mia, venire qui; ma già, lui non ha paura.

Si guardò intorno con una certa curiosità non esente da una vaga paura ed i suoi occhi s’incontrarono con quelli di cinque o sei individui armati di navaje smisurate, i quali lo guardavano con particolare attenzione.

– Pare che mi ascoltassero, – diss’egli al negro. – Chi sono costoro?…

– Baschi al servizio del Governatore.

– Compatrioti militanti sotto altre bandiere. Bah! Se credono di spaventarmi colle loro navaje, s’ingannano.

Quegl’individui frattanto avevano gettate le sigarette che stavano fumando e dopo essersi bagnata la gola con alcune tazze di Malaga, si erano messi a chiacchierare con voce cosí alta da farsi udire perfettamente da Carmaux.

– Avete veduti gli appiccati?… – aveva chiesto uno.

– Sono andato a vederli anche questa sera, – aveva risposto un altro. – È sempre un bello spettacolo che offrono quelle canaglie!… Ce n’è uno che fa scoppiare dalle risa, con quella lingua che gli esce dalla bocca mezzo palmo.

– Ed il Corsaro Rosso? – chiese un terzo. – Gli hanno messo in bocca perfino una sigaretta onde renderlo piú ridicolo.

– Ed io voglio porgli in mano un ombrello onde domani si ripari dal sole. Lo vedremo…

Un pugno formidabile, picchiato sul tavolo e che fece traballare le tazze gl’interruppe la frase.

Carmaux, impotente a frenarsi, prima ancora che il Corsaro Nero avesse pensato a trattenerlo, si era alzato di balzo ed aveva lasciato andare sulla tavola vicina quel formidabile pugno.

– Rayos de dios! – tuonò. – Bella prodezza deridere i morti; il bello è deridere i vivi, miei cari caballeros!…

I cinque bevitori, stupiti da quell’improvviso scoppio di rabbia dello sconosciuto, si erano alzati precipitosamente, tenendo la destra sulle navaje, poi uno di loro, il piú ardito senza dubbio, gli chiese con cipiglio:

– Chi siete voi, caballero?

– Un buon biscaglino che rispetta i morti, ma che sa bucare il ventre anche ai vivi.

I cinque bevitori a quella risposta, che poteva prendersi per una spacconata, si misero a ridere, facendo andare maggiormente in bestia il filibustiere.

– Ah!… È cosí? – disse questi, pallido d’ira.

Guardò il Corsaro, che non si era mosso come se quell’alterco non lo riguardasse, poi allungando una mano verso colui che lo aveva interrogato, lo respinse furiosamente urlandogli contro:

– Il lupo di mare mangerà il lupicino di terra!…

L’uomo respinto era caduto addosso ad un tavolo, ma si era prontamente rimesso in gambe, levandosi rapidamente dalla cintura la navaja, che aprí con un colpo secco. Stava senz’altro per scagliarsi contro Carmaux e passarlo da parte a parte, quando il negro, che fino allora era rimasto semplice spettatore, ad un cenno del Corsaro balzò fra i due litiganti, brandendo minacciosamente una pesante sedia di legno e di ferro.

– Fermo o t’accoppo!… – gridò all’uomo armato.

Vedendo quel gigante dalla pelle nera come il carbone la cui potente muscolatura pareva pronta a scattare, i cinque baschi erano indietreggiati, per non farsi stritolare da quella sedia che descriveva in aria delle curve minacciose.

Quindici o venti bevitori che si trovavano in una stanza attigua, udendo quel baccano, si erano affrettati ad accorrere, preceduti da un omaccio armato di uno spadone, un vero tipo di bravaccio, coll’ampio cappello piumato inclinato su di un orecchio ed il petto racchiuso entro una vecchia corazza di pelle di Cordova.

– Che cosa succede qui? – disse ruvidamente quell’uomo, sguainando il brando, con una mossa tragica.

– Succedono, mio caro caballero, – disse Carmaux, inchinandosi in modo buffo, – certe cose che non vi riguardano affatto.

– Eh!… per tutti i Santi… – gridò il bravaccio con cipiglio. – Si vede che voi non conoscete don Gamaraley Miranda, conte di Badajoz, nobile di Camargua, e visconte di…

– Di casa del diavolo, – disse il Corsaro Nero, alzandosi bruscamente e guardando fisso il bravaccio. – E cosí, caballero, conte, marchese, duca, eccetera?…

Il signor di Gamara e d’altri luoghi ancora arrossí come una peonia, poi impallidí, dicendo con voce rauca:

– Per tutte le streghe dell’inferno!… Non so chi mi tenga dal mandarvi all’altro mondo a tenere compagnia a quel cane di Corsaro Rosso che fa cosí bella mostra sulla Plaza de Granada ed ai suoi quattordici birbanti.

Questa volta fu il Corsaro che impallidí orribilmente. Con un gesto trattenne Carmaux che stava per scagliarsi contro l’avventuriero, si sbarazzò del mantello e del cappello e con un rapido gesto snudò la spada, dicendo con voce fremente:

– Il cane sei tu e chi andrà a tenere compagnia agli appiccati sarà la tua anima dannata.

Fece cenno agli spettatori di fare largo e si mise di fronte all’avversario, ponendosi in guardia con una eleganza e con una sicurezza da sconcertare l’avversario.

– A noi, conte di casa del diavolo – disse coi denti stretti. – Fra poco qui vi sarà un morto.

L’avventuriero si era messo in guardia, ma ad un tratto si rialzò, dicendo:

– Un momento, caballero. Quando s’incrocia il ferro si ha il diritto di conoscere il nome dell’avversario.

– Sono piú nobile di te, ti basta?…

– No, è il nome che voglio sapere.

– Lo vuoi?… Sia, ma peggio per te, poiché non lo dirai piú a nessuno.

Gli si avvicinò e gli mormorò alcune parole in un orecchio.

L’avventuriero aveva mandato un grido di stupore e fors’anche di spavento e aveva fatto due passi indietro come se avesse voluto rifugiarsi fra gli spettatori e tradire il segreto; ma il Corsaro Nero aveva cominciato ad incalzarlo vivamente, costringendolo a difendersi.

I bevitori avevano formato un ampio circolo attorno ai duellanti. Il negro e Carmaux erano in prima linea, però non sembravano affatto preoccupati dell’esito di quello scontro, specialmente l’ultimo che sapeva di quanto era capace il fiero corsaro. L’avventuriero, fino dai primi colpi, si era accorto d’aver dinanzi un avversario formidabile, deciso ad ucciderlo al primo colpo falso, e ricorreva a tutte le risorse della scherma per parare le botte che grandinavano.

Quell’uomo non era però uno spadaccino da disprezzarsi. Alto di statura, grosso e robustissimo, dal polso fermo e dal braccio vigoroso, doveva opporre una lunga resistenza e si capiva che non era facile a stancarsi.

Il Corsaro tuttavia, snello, agile, dalla mano pronta, non gli dava un istante di tregua, come se temesse che approfittasse della minima sosta per tradirlo.

La sua spada lo minacciava sempre, costringendolo a continue parate. La punta scintillante balenava dappertutto, batteva forte il ferro dell’avventuriero, facendo sprizzare scintille, e andava a fondo con una velocità cosí fulminea da sconcertare l’avversario.

Dopo due minuti l’avventuriero, non ostante il suo vigore poco meno che erculeo, cominciava a sbuffare ed a rompere. Si sentiva imbarazzato a rispondere a tutte le botte del Corsaro e non conservava piú la calma primiera. Sentiva che la pelle correva un gran pericolo e che avrebbe finito davvero coll’andare a tenere poco allegra compagnia agli appiccati della Plaza de Granada.

Il Corsaro invece pareva che avesse appena sfoderata la spada. Balzava innanzi con un’agilità da giaguaro, incalzando sempre con crescente vigore l’avventuriero. Solamente i suoi sguardi, animati da un cupo fuoco, tradivano la collera della sua anima. Quegli occhi non si staccavano un solo istante da quelli dell’avversario, come se volessero affascinarlo e turbarlo. Il cerchio degli spettatori si era aperto per lasciare campo all’avventuriero, il quale retrocedeva sempre, avvicinandosi alla parete opposta.

Carmaux, sempre in prima fila, cominciava a ridere, prevedendo presto lo scioglimento di quel terribile scontro.

Ad un tratto l’avventuriero si trovò addosso al muro. Impallidí orribilmente e grosse gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte.

– Basta… – rantolò, con voce affannosa.

– No, – gli disse il Corsaro, con accento sinistro. – Il mio segreto deve morire con te.

L’avversario tentò un colpo disperato. Si rannicchiò piú che poté, poi si scagliò innanzi, vibrando tre o quattro stoccate una dietro l’altra.

Il Corsaro, fermo come una rupe, le aveva parate con eguale rapidità.

– Ora t’inchioderò sulla parete, – gli disse.

L’avventuriero, pazzo di spavento, comprendendo ormai di essere perduto, si mise a urlare.

– Aiuto!… Egli è il Co…

Non finí. La spada del Corsaro gli era entrata nel petto, inchiodandolo nella parete e spegnendogli la frase.

Un getto di sangue gli uscí dalle labbra macchiandogli la corazza di pelle che non era stata sufficiente a ripararlo da quel tremendo colpo di spada, sbarrò spaventosamente gli occhi, guardando l’avversario con un ultimo lampo di terrore, poi stramazzò pesantemente al suolo, spezzando in due la lama che lo tratteneva al muro.

– Se n’è andato, – disse Carmaux, con un accento beffardo.

Si curvò sul cadavere, gli strappò di mano la spada e porgendola al capitano che guardava con occhio tetro l’avventuriero, gli disse:

– Giacché l’altra si è spezzata, prendete questa. Per bacco!… È una vera lama di Toledo, ve lo assicuro, signore.

Il Corsaro prese la spada del vinto senza dir verbo, andò a prendere il cappello, gettò sul tavolo un doblone d’oro e uscí dalla posada seguito da Carmaux e dal negro, senza che gli altri avessero osato trattenerlo.

Il Corsaro Nero

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