Читать книгу La città del re lebbroso - Эмилио Сальгари - Страница 9
Capitolo IX. Sul Menam
ОглавлениеA mezzodì, dopo aver pranzato in compagnia, Lakon-tay ed il dottore a piedi e Len-Pra in palanchino lasciarono la phe, avviandosi verso il fiume.
Premeva loro abbandonare la città prima che quei misteriosi nemici rinnovassero contro il dottore l’attentato che per poco non aveva avuto terribili e irreparabili conseguenze.
Nella mattinata avevano tutto preparato per quel lungo viaggio, che poteva durare moltissimi mesi, in regioni assolutamente selvagge e popolate da tribù bellicose, poco ben disposte verso gli stranieri in generale e verso i Siamesi in particolare.
Il balon, ossia la grande scialuppa del generale, era stata fatta venire dal cantiere dove era stata inviata in riparazione qualche settimana prima, e Feng, che aveva ricevuto tutte le istruzioni, l’aveva equipaggiata con gente scelta e robusta e fornita di tutto il necessario occorrente per quella pericolosa spedizione: viveri, armi, vesti di ricambio, coperte, tende ed altre cose ancora, suggerite dal dottore che non era nuovo ai lunghi viaggi.
Roberto aveva indossato un nuovo costume di leggera flanella bianca, si era strette le gambe entro alte uose di cuoio per difenderle dai morsi dei serpenti, numerosi non meno che nell’India e nelle foreste Siamesi, e riparato il capo da un casco di midolla di bambù coperto di tela, leggero e ottimo riparo contro i colpi di sole.
Lakon-tay, che apprezzava la praticità dei vestiti europei, aveva rinunciato senza rimpianti alle sue camicie, alle sue fasce di seta ricamate e alle sue babbucce dalla punta rialzata, assolutamente inefficaci a riparare i piedi dalle erbe dure e talvolta taglienti delle foreste, per indossare un costume simile a quello del dottore.
Ad una cosa sola non aveva rinunciato: all’alto cappello conico in forma di pagoda, col cerchio d’oro, distintivo del suo grado, e forse aveva fatto bene, contando appunto su quel distintivo datogli dal re per farsi rispettare e anche temere.
Len-Pra invece indossava una graziosa casacchina di seta fiorata a ricami d’oro, stretta alla cintura da un’alta fascia, calzoncini di seta azzurra non così ampi come usano le nobili Siamesi, aveva sostituito alle scarpette degli stivali altissimi, di pelle gialla, e si era messa in capo un ampio cappello di paglia a forma di fungo, ornato d’un piccolo gallone dorato.
Prima di lasciare la phe, Lakon-tay aveva mandato il suo maggiordomo al palazzo reale con un messaggio per Phra-Bard, in cui lo avvertiva che, obbedendo ai suoi ordini, partiva per le regioni settentrionali del regno, alla ricerca del desiderato driving-hook.
Stavano per giungere sulla riva del fiume, dove il balon li aspettava, quando notarono presso la bellissima barca uno sconosciuto che stava chiacchierando coi battellieri.
Non pareva che fosse un siamese, quantunque ne indossasse il costume; aveva la pelle più fosca, la faccia più larga con una certa espressione di selvaggia ferocia, ed era forse più tarchiato e più robusto.
«Chi sarà quell’uomo che sta interrogando i vostri battellieri?» chiese il dottore, che, dopo l’aggressione notturna, era diventato eccessivamente sospettoso. «Non sarà uno dei vostri, suppongo.»
«Qualche curioso,» rispose il generale.
«Sapete perché vi ho fatto questa domanda?»
«No davvero, dottore.»
«Perché gli uomini che ieri sera mi hanno aggredito, avevano tutti quella taglia e quelle spalle così massicce.»
«Quel curioso mi sembra un malese.»
«Ebbene, se gli assalitori che tentarono di assassinarmi non erano Malesi, certo però che rassomigliavano.»
«Mi mettete addosso dei sospetti, dottore,» disse Lakon-tay. «Ora sapremo chi è quell’uomo.»
Lo sconosciuto, vedendo avvicinarsi il palanchino, cercò di allontanarsi dal balon, ma il generale con una mossa abile e pronta gli sbarrò la via, impedendogli di risalire la riva.
«Chi sei tu e che cosa volevi dai miei battellieri?» gli chiese con voce quasi minacciosa.
Lo sconosciuto, che dal tipo s’indovinava per malese, razza che si è largamente diffusa in tutti i reami indocinesi, guardò il generale con una certa sorpresa, poi rispose:
«Chiedevo se vi era un posto per me, mio signore. Sono un povero battelliere che cerca lavoro.»
«Interrogavi i miei uomini su altre cose, mi parve.»
«Chiedevo loro se andavano lontano.»
«Per incarico di qualcuno forse?» chiese il dottore.
Il malese lanciò sull’europeo uno sguardo fosco, poi alzò le spalle dicendo:
«Non so, frengi (europeo), che cosa tu voglia dire.»
Ciò detto, con un salto che dimostrava in quell’uomo un’agilità da scimmia, balzò sulla riva, allontanandosi rapidamente.
«Lasciate che vada a farsi impiccare altrove,» disse Roberto, vedendo il generale fare atto di inseguirlo.
Feng, che si trovava nel balon, era accorso.
«Che cosa chiedeva quel malese ai nostri uomini?» chiese Lakon-tay al fedele Stiengo.
«Cercava di interrogarli per sapere dove eravamo diretti, signore,» rispose.
«Glielo hanno detto?»
«No, perché ho tenuto nascosto a tutti lo scopo del nostro viaggio.»
«Sii prudente, mio bravo Feng,» disse il generale. «Non occupiamoci più di quell’uomo ed imbarchiamoci.»
Aiutarono a scendere Len-Pra, conducendola sotto il baldacchino di seta che si ergeva nel centro del balon, si sedettero accanto a lei sui soffici cuscini di seta cremisi e diedero il segnale della partenza.
Tosto le dieci pagaie, manovrate da dieci robusti garzoni, si tuffarono nell’acqua ed il balon si staccò dalla riva rimontando la corrente del maestoso Menam.
Nelle loro barche i Siamesi sfoggiano un lusso inaudito, e tanta è la loro passione per quei mezzi di trasporto, che non vi è famiglia, per quanto povera, che non abbia la sua imbarcazione.
Avendo nel loro paese degli alberi immensi, si servono dei tronchi di quelle piante per costruire i loro balon, i quali sovente hanno più di cento piedi di lunghezza. Sono però anche abili costruttori di navi, assai leggere, molto lunghe e strette ed eccellenti velieri, da preferirsi alle pesanti e tozze giunche dei Cinesi e dei Tonchinesi.
Il balon di Lakon-tay non aveva che cinquanta piedi di lunghezza, con una larghezza di dieci ed era stato scavato nel tronco d’un albero di tek, legno quasi incorruttibile e che può durare perfino un secolo, rimanendo sempre immerso. I costruttori gli avevano dato forme elegantissime e l’avevano, col ferro e col fuoco, reso leggerissimo senza comprometterne la solidità.
La prora, altissima ed affilata, reggeva una mostruosa testa di drago dipinta in rosso e giallo; i bordi erano scolpiti artisticamente e dorati; la poppa, un po’ meno alta della prua, era munita d’una specie di sedile imbottito, su cui stava il timoniere armato d’un lungo remo che doveva servire da timone.
Nel centro s’alzava un bellissimo cup, specie di baldacchino di seta a frange d’oro, sorretto da quattro eleganti colonnine dorate, e arredato con soffici cuscini pure di seta, bastanti per quattro persone e volendo anche per sei, e sui quali i padroni potevano anche coricarsi comodamente.