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2. L’ambasciatore inglese

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Mai l’inglese, anche durante le sue cacce in India od in altre regioni dell’Asia, aveva veduto la morte così vicina.

Yanez, fermo a due passi di distanza, teneva sempre puntate le pistole e le sue mani non avevano un tremito.

Un rifiuto, una esitazione, e quattro spari avrebbero echeggiato là dove fino allora aveva vibrato il pianoforte.

– Orsù! – disse Yanez, alzando un po’ le pistole. – Vi decidete sì o no?

Per Giove! Io a quest’ora, preso così fra l’uscio e il muro o, se vi piace meglio, fra la vita e la morte, non avrei esitato.

È vero che un portoghese non è un inglese.

– Insomma che cosa volete da me? – chiese l’uomo dai favoriti rossi.

– Vi faccio osservare che non mi avete chiamato ancora Altezza, milord.

– Io non vi riconosco questo titolo.

– La corona che mia moglie, la rhani, porta sulla fronte, ai confini del Bengala, è abbastanza pesante, signor mio, per farvi rispettare le persone.

Sono un rajah e basta. Ditemi invece chi siete voi. Sono due minuti che attendo la vostra risposta e che aspetto di graziare od uccidere un uomo. —

L’inglese, quantunque facesse degli sforzi supremi per mantenersi tranquillo, impallidiva a vista d’occhio.

– La risposta! – ripeté Yanez.

– Che cosa volete fare di me? Io non lo so ancora.

– Solamente impedirvi di andare a Varauni come ambasciatore dell’Inghilterra, perché quel posto verrà occupato da un’altra persona che io ora non posso nominare.

– E vorreste arrestarmi?

– Certo, milord: vi imbarcherò sul mio yacht, dove sarete trattato con tutti i riguardi possibili.

– E fino a quando?

– Fino a quando piacerà a me.

– È un sequestro di persona.

– Chiamatelo come volete, milord: a me non disturberete con questo i miei sonni.

Ed ora, milord, conducetemi nella vostra cabina e consegnatemi le credenziali per il sultano del Borneo.

– È troppo! – urlò l’inglese.

– Ma obbedendo salvate la vita.

Sbrigatevi: abbiamo annoiato abbastanza queste signore e queste signorine. —

Si era voltato e fatto un cenno.

Subito quattro malesi, robusti come piccoli tori, lo raggiunsero in mezzo alla sala.

– Voi, poi – gridò Yanez volgendosi verso la scorta sempre immobile – al primo tentativo di rivolta fate fuoco. —

Prese un candeliere che si trovava sul pianoforte e spinse avanti l’inglese, il quale ormai non si sentiva più in caso di tentare la menoma resistenza.

– Andiamo! – gli disse.

Attraversarono il salone, aprendosi il passo fra i passeggeri terrorizzati ed impotenti, e sempre seguiti dai quattro malesi raggiunsero il quadro di poppa, dove si trovavano le cabine di prima classe.

Yanez si era messo a leggere i cartellini attaccati alle porte che portavano il nome, cognome e condizione dei viaggiatori.

– Sir William Hardel, ambasciatore inglese – lesse. – È dunque questa la vostra cabina?

– Sì, signor brigante! – rispose l’inglese, furibondo.

– Fareste meglio a chiamarmi Altezza: ve l’ho già detto. Aprite, signor mio. —

Sir William non osò rifiutarsi. Si sentiva addosso i quattro malesi, i quali pareva avessero una voglia pazza di metterlo a pezzi coi loro terribili parangs.

La porta fu aperta ed i sei uomini entrarono in una bellissima e spaziosa cabina ammobiliata con molto lusso e soprattutto con buon gusto.

Yanez che osservava tutto, balzò verso il canterano dove si trovava una pistola; la prese e la passò ai suoi uomini, dicendo al disgraziato ambasciatore:

– Certe volte succedono delle cose che non si possono prevedere, e sono quasi certo che se voi aveste potuto afferrare prima di me quell’arma, me l’avreste scaricata nel petto.

– Le occasioni non mancheranno – rispose sir William.

Mentre i malesi lo attorniavano per impedirgli di fare il menomo atto di ribellione, aprì la sua grossa e splendida valigia di pelle gialla cogli angoli d’acciaio.

– Sono qui le credenziali? – chiese Yanez.

– Sì, bandito.

– Fatemele vedere.

– Sono in quel pacco di carta rossa sigillata.

– Benissimo. —

Il portoghese spezzò i bolli, tolse l’involucro e trasse diversi documenti che scorse rapidamente.

– Sono in perfetta regola, Sir William Hardel. —

Li rimise nel bagaglio, poi volgendosi verso due dei suoi uomini aggiunse:

– Portate tutto ciò a bordo del mio yacht.

– Assassino! – gridò l’inglese. – Mi private perfino delle mie vesti e del mio denaro!

– No, Sir William, lo metto solamente al sicuro.

– Ed ora che cosa volete fare di me?

– Seguirete questi due altri uomini, i quali hanno precedentemente ricevuto tutti gli ordini necessari.

Badate di non tentare la fuga, perché allora avreste da far i conti coi parangs e so io come tagliano.

– Il mio governo non lascerà impunita una simile infamia.

– Certo, Sir Hardel, – rispose Yanez un po’ beffardamente. – Non so per altro chi lo avvertirà.

– I passeggeri della nave o il capitano. Appena saranno giunti a Varani telegraferanno al governatore di Labuan.

– Non sono ancora giunti nella capitale del sultanato. Andiamo, signor ambasciatore, ché io non voglio farmi sorprendere all’alba da qualche cannoniera, quantunque abbia una flottiglia poderosa.

I due malesi ad un cenno del portoghese avevano afferrato strettamente per le braccia il povero Sir, e gli altri portavano la valigia che pareva pesantissima.

Quando tornarono nel gran salone ancora tutti vivi, i passeggeri mandarono un gran sospiro di soddisfazione ed assistettero, al pari dei marinai perfettamente immobili, all’uscita dell’ambasciatore.

Il capitano del piroscafo si avvicinò a Yanez, chiedendogli con voce rabbiosa:

– Che cosa volete ancora da noi?

– Finire il waltzer con quella graziosa signora – rispose il portoghese tranquillamente.

– Ancora? E quando ve ne andrete fuori dai piedi?

– Ah, c’è tempo, capitano. —

S’avvicinò al pianoforte, dove stava sempre seduta la bionda miss e le disse:

– Signorina, per circostanze indipendenti dalla mia volontà ho dovuto interrompere il ballo.

Vorreste riprenderlo? Ah, i waltzer di Strauss sono veramente meravigliosi!

– Quest’uomo è pazzo! – pensò certo il capitano.

Yanez si era voltato bruscamente, col viso scuro, verso il comandante.

– Signor mio, – gli disse – vorreste dirmi come vi chiamate?

– Tanto v’interessa?

– Non si sa mai.

– John Foster: io non ho paura a dirvelo.

– Grazie. —

Trasse di tasca un piccolo libriccino legato in pelle ed oro e scrisse quel nome, poi mosse, sempre pacato, sempre magnifico nella sua grande calma, verso la signora colla quale aveva incominciato il waltzer e che pareva lo aspettasse.

– Volete finirlo… signora?…

– Lucy Wan Harter.

– Ah! Un’olandese?

– Si, Altezza.

– Mi ricorderò di voi.

Il waltzer era incominciato ed i passeggeri, vedendo il terribile uomo slanciarsi fra i vortici della danza e sorridere alla sua dama, dapprima timidamente, poi più animatamente avevano seguito l’esempio ma guardando bene di tenersi lontani dalla coppia che danzava al centro del salone.

Solamente il tenore non si era più fatto udire. Lo spavento doveva aver paralizzati i suoi mezzi vocali.

Il waltzer era terminato e Yanez aveva condotto verso un divano la bella olandese, la quale non cessava di fissarlo intensamente, con quell’olimpica calma che è una specialità dei popoli bagnati dal freddo e tempestoso mare del Nord.

Una profonda ansietà si era impadronita di tutti. Pareva che si chiedessero che cosa voleva ora fare il terribile uomo.

Yanez si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte, poi disse, volgendosi verso i passeggeri:

– Signore e signori: vi accordo dieci minuti per far portare i vostri bagagli in coperta. —

Il capitano, che digrignava i denti presso il pianoforte, si slanciò innanzi colle pugna chiuse chiedendo:

– Che cosa volete fare ora, furfante?

– Mia Altezza desidera vedere una nave saltare in aria – rispose francamente il portoghese.

– La mia?

– È della Compagnia; quindi non è affatto vostra.

– Mi è stata affidata.

– Difendetela, se vi credete abbastanza forte. Io sono un uomo che non rifiuta mai un combattimento.

– Miserabile pirata! Mi avete preso per il collo e cercate ora di strozzarmi.

– La nave, non voi.

– Avete trenta prahos, fatene saltare uno se volete divertirvi, o anche mezza dozzina.

– Oh! Siete spiccio, voi.

– È ora di finirla con questa infame canagliata. —

Yanez trasse un portasigari tempestato di brillanti, levò una sigaretta, l’accese, e dopo d’aver gettato in aria alcune boccate di fumo profumato, disse con voce che non ammetteva replica:

– Quando io avrò finito di fumare questa sigaretta, il piroscafo dovrà essere sgombro delle persone che lo montano.

I macchinisti sono stati tutti arrestati ed ho fatto già collocare presso i forni un barile contenente cento chilogrammi di polvere.

Su via, capitano: fate portare in coperta i bagagli delle signore e dei signori e date ordine che si mettano in mare tutte le scialuppe.

– Bisogna che vi uccida: ricordatevi di John Foster.

– Anzi, mi segnerò il vostro nome. Talvolta gli uomini s’incontrano quando meno credono.

– Ed io spero bene di trovarvi un giorno! – ruggì il capitano al colmo dell’esasperazione.

– Ed io sarò lieto di offrirvi una buona bottiglia di vino portoghese a bordo del mio yacht.

Badate che ho fumato già mezza sigaretta e che i miei malesi cominciano ad impazientirsi.

– Corpo d’un tuono! Obbedisco alla forza brutale d’un bandito!

– Principe! – disse Yanez un po’ beffardamente.

Degli ordini erano stati dati e trasmessi agli uomini che si trovavano in coperta, sorvegliati da altri trenta malesi, perfettamente armati, sbarcati da uno dei trenta grossi prahos.

I passeggeri, terrorizzati dal pensiero che quel terribile uomo facesse da un momento all’altro saltare il piroscafo, salivano confusamente sulla tolda.

Yanez li aveva preceduti coi suoi malesi.

I marinai stavano calando le scialuppe e ritirando dal boccaporto di maestra le valigie dei passeggeri.

Una grande confusione si era manifestata tra quelle cento e cinquanta persone. Tutti si spingevano innanzi per essere i primi a scendere nelle scialuppe.

Solamente la bella dama olandese conservava una calma olimpica.

Yanez, vedendo gli uomini più vigorosi travolgere i più deboli, si slanciò innanzi, seguito da una ventina di malesi.

– Prima i fanciulli! – gridò – poi le signorine, poi le signore e ultimi gli uomini.

Se non mi obbedite, faccio spazzare il ponte da una scarica. —

Sapendo ormai con quale individuo avevano da fare, i passeggeri si fermarono. I malesi d’altronde avevano imbracciate le loro pesanti e corte carabine di mare, pronti a far fuoco al primo segnale del loro capo.

– Calmatevi! – disse Yanez levando un’altra sigaretta. – Non ho ancora dato ordine di accendere la miccia che ho fatto collocare sul barile. Avete tempo di fare i vostri comodi. —

Poi, vedendo passare la bella dama olandese sospinta dagli altri, la trasse dal gruppo.

– Signora, – le disse – dove andate? A Varauni o a Pontianak?

– A Varauni, signore.

– Allora spero di rivedervi presto.

– Anche voi andate nella capitale del Sultanato?

– Lo spero. —

Si tolse da un dito un superbo anello con un magnifico rubino e glielo porse:

– Signora Lucy, – riprese – per avermi fatto divertire.

– Ed io lo terrò carissimo, perché datomi da un uomo che non ha paura di nessuno. —

Le diede il braccio e le fece largo fra i passeggeri che si affollavano addosso alle murate, impazienti di scendere nelle imbarcazioni già tutte messe in acqua.

– Finché io sono qui non v’è alcun pericolo, signori miei, perché non ho alcun desiderio di saltare in aria colle macchine di questa nave.

Lasciate il posto a questa signora! —

La sollevò fra le robuste braccia, passandola sopra il bastingaggio e l’affidò a due marinai che si trovavano sulla piattaforma della scala.

Ciò fatto, il portoghese si appoggiò ad un argano, continuando a fumare e a sorvegliare anche il salvataggio.

I malesi erano sempre intorno a lui per prestargli man forte.

Già a bordo non rimanevano che poche persone, le quali si affrettavano a portare i loro bagagli, quando si mostrò il capitano della nave, che fino allora non si era fatto vedere, occupato probabilmente a mettere in salvo le carte di bordo e la cassa.

– Spero, signore, – gli disse, affrontandolo iratamente, – che noi ci rivedremo.

– E perché no, capitano? – rispose Yanez.

– Non trascinerete continuamente per il mare la vostra flottiglia senza prendere qualche volta terra: guai a voi, se vi trovo in qualche porto!

Sapete come si trattano i pirati?

– Si appiccano – rispose il portoghese, continuando a fumare.

– Ricordatevi del capitano John Foster.

– Ho già marcato il vostro nome. —

Il comandante si morse le pugna, poi volse bruscamente le spalle bestemmiando.

Raggiunse la scala e si fermò ancora un istante per urlare contro Yanez impassibile:

– Ladro! tre volte ladro! —

La risposta fu un’ironica risata.

Le scialuppe ben cariche di passeggeri si allontanavano frettolosamente, tentando di raggiungere l’isola di Mangalum, la quale non distava più d’una quindicina di miglia verso levante.

– È pronto tutto? – gridò Yanez imboccando il porta-voce della sala macchine. – Salite subito ed accendete la miccia. —

Un momento dopo quattro uomini s’arrampicavano lestamente su per la scala di ferro e si slanciavano in coperta.

– Presto, capitano, brucia! – disse uno dei quattro.

– In ritirata!– comandò Yanez.

Lo yacht si trovava sempre ormeggiato contro la scala di babordo ed aveva i fuochi accesi.

I trenta malesi ed il loro capo salirono a bordo.

La sirena lanciò un fischio acuto e la piccola nave s’allontanò passando fra i prahos i quali avevano allargate le loro linee.

Il grosso piroscafo abbandonato a sé stesso, sempre pieno di luce, fluttuava lentamente, scotendo le catene delle àncore.

Yanez aveva fatto arrestare il suo yacht a cinquecento metri e si era collocato a poppa, per non perdere nulla dello spettacolo.

Accanto a lui era comparso un vecchio malese, tutto rugoso, coi capelli completamente bianchi.

– È guerra questa? – chiese Yanez al vecchio.

– Cominciamo bene, signore. Io per altro avrei conservato quella bella nave.

– E che cosa ne avrei potuto fare? In qualunque porto io l’avessi condotta mi avrebbero arrestato, perciò preferisco distruggere tutto.

Mi accusino pure i passeggeri, se lo vorranno: non li temo.

È solamente da quel John Foster che può giungere il pericolo, ma noi saremo a Varauni ben prima di lui se… —

Un lampo accecante squarciò in quel momento la nave, seguìto da un rimbombo assordante.

Il barile era scoppiato e la nave affondava.

Per alcuni istanti una pioggia di rottami cadde sul mare, per un giro larghissimo, poi la massa che beveva acqua in quantità enorme dai suoi fianchi squarciati, affondò da poppa, alzando la prora come una lama mostruosa.

Rimase un momento in quella posizione, poi affondò rapidamente, formando un gran gorgo.

– Assestiamo ora i nostri affari, caro Sambigliong. In questo momento io non ho bisogno della flottiglia che hai assoldata, quindi per ora puoi metterla al sicuro nella baia d’Ambong.

Se le cannoniere inglesi od olandesi la incontrano, non la lasceranno tranquilla ed io ci tengo ad aver sotto mano questi legni.

– E come farete a trasmettermi i vostri ordini?

– Manderai a Varauni il praho di Padar, che è il più leggero e il più rapido e che ha l’aspetto d’un onesto veliero.

Di Mompracem in questo momento non occuparti. Non è ancora suonata l’ora di prenderla d’assalto; e poi agirà ora più la diplomazia che la forza.

– Avete null’altro da dirmi, signor Yanez?

– Cerca di guardarti dalle cannoniere e di non lasciare la barca senza mio ordine.

– E Sandokan?

– Veglia sulle frontiere del Sultanato insieme coi suoi dayachi ed è pronto a varcare le montagne di Cristalli.

Metteremo il Sultano fra due fuochi e giacché gl’inglesi hanno commessa la sciocchezza di cedergli Mompracem, avrà da fare con noi.

Parti, Sambigliong: ho fretta di rivedere Varauni dopo tanti anni. —

Fu calata in mare una scialuppa ed il vecchio fu trasbordato sul veliero più grosso.

I capi, avvertiti degli ordini dati da Yanez, fecero spiegare quanta tela avevano, essendo il vento favorevole e dopo dieci minuti s’allontanavano verso il settentrione per rifugiarsi ad Ambong.

Sul posto non era rimasto che il praho di Padar, un magnifico veliero lungo e sottile come una feluca, che con una buona brezza poteva ridersene anche delle cannoniere-tartarughe che l’Olanda e l’Inghilterra andavano laggiù per impedire, sempre con scarso profitto, la pirateria.

– Forza in macchina! – gridò Yanez.

Lo yacht balzò sulle onde come un puro sangue che per la prima volta sente lo sprone del cavaliere, e si slanciò verso il sud-est, lasciandosi dietro una superba scia fosforescente, in mezzo alla quale le belle meduse, simili a globi di luce elettrica, danzavano.

Il piccolo praho si era pure messo in corsa, scivolando silenziosamente sulle acque illuminate.

– Benissimo! – disse Yanez quando la flottigla non fu più visibile. – Non credevo che i nostri affari cominciassero così bene.

Andiamo a scambiare due parole con quel caro Sir William Hardel.

Sarà certamente di pessimo umore: ho però del thè da offrirgli e si calmerà.-

Prese un canocchiale, che in quel momento un malese aveva portato in coperta e lo puntò verso tutte le direzioni.

Nulla: solo il gran mare d’argento, senza una macchia oscura che potesse far sospettare la presenza d’una cannoniera o d’un incrociatore.

– La fortuna sorride sempre agli antichi pirati di Mompracem – mormorò. – Ma mi sono imbarcato in un’avventura che non so dove finirà, poiché gl’inglesi di Labuan non mancheranno di appoggiare il sultano.

D’altronde che cosa può fare un principe consorte alla corte dei rajah d’Assam? Far saltare sulle mie ginocchia mio figlio per farmi ridere dietro da quei grandi nababbi maleducati e invidiosi?

Surama d’altronde sa che io sono un uomo d’azione, incapace quindi di addormentarmi fra i profumi ed i balli delle bajadere.

Ehi, cuoco, è pronto il thè?

– Si, signor Yanez, – rispose il cuciniere, avanzandosi con un gran vassoio d’argento cesellato e relativo servizio di chicchere, di terrine e di zuccheriere.

– Allora seguimi: andiamo ad addomesticare John Bull. —

Scese la scaletta ed entrò nel quadro, ammobiliato con molto buon gusto ed attraversato il salotto, ampio, spazioso e bene illuminato, aprì la porta d’una cabina segnata col numero 3. Due malesi vegliavano coi parangs in mano e le carabine in ispalla, pronti a mandare all’altro mondo il disgraziato ambasciatore, se avesse tentata la fuga.

– Buon giorno, Sir William, – disse famigliarmente Yanez entrando.

La risposta fu un urlo da belva.

Il portoghese lo guardò con finto stupore.

– I miei uomini vi hanno usata qualche scortesia per ritrovarvi così eccitato? Parlate ed io li farò fucilare.

– È voi che io vorrei far fucilare, canaglia!

– Forse le palle che devono togliermi dalla terra non sono ancora state fuse – rispose Yanez alzando le spalle.

Su via calmatevi, Sir William, e prendete il thè con me, un thè squisito, perché io uso solo quello che i cinesi chiamano polvere di cannone.

– Andate al diavolo! – urlò l’inglese.

– Vi calmerà i nervi: voi, come inglese, lo dovete sapere meglio di tutti gli altri.

– Bevetevelo voi, il vostro thè; e poi io non mi fido.

– Mi credereste capace di avvelenarvi?

– Dopo quello che avete fatto, io vi credo capace di assassinare freddamente un gentiluomo.

– Voi non mi conoscete.

– Molti anni or sono s’è parlato a lungo su questi mari di due audaci malandrini, che si facevano chiamare, uno la Tigre della Malesia e l’altro il signor Yanez de Gomera.

– Io non sono mai stato né l’uno, né l’altro.

– Eppure dal capitano del piroscafo ho udito pronunciare il vostro nome e Domeneddio mi ha dato due buoni orecchi per udire.

– Perfino troppo larghi! – stava per aggiungere Yanez insolentemente.

Ma si trattenne a tempo per non far uscire completamente dai gangheri il discendente di John Bull.

Prese una sedia e si sedette dinanzi al tavolino, su cui fumava il thè, spandendo un delizioso profumo.

– Sir William, fatemi compagnia – disse il portoghese.

L’ambasciatore, che fiutava avidamente l’aroma della bevanda preferita dagli inglesi, increspando di quando in quando il naso come un gatto in collera, non seppe più resistere alla tentazione.

– Berrete anche voi con me? – chiese.

– Sarò anzi il primo, se ciò non vi farà dispiacere. Così sarete completamente al sicuro da un avvelenamento che io non ho mai sognato. —

L’inglese, che non poteva più resistere, prese a sua volta una sedia e si mise in faccia a Yanez con un gomito appoggiato sul tavolino.

Prese la tazza che il portoghese gli porgeva e la vuotò tutta d’un fiato, a rischio di bruciarsi la gola.

La bevanda cinese produsse in quel momento sull’ambasciatore l’effetto contrario di calmare i suoi nervi, poiché si rizzò di colpo picchiando un terribile pugno sul tavolo e urlando:

– Ed ora mi spiegherete che cosa volete fare di me, malandrino!

– Vi ho già detto dieci volte che io sono un rajah indiano. Come chiamo voi Sir, chiamate me Altezza.

– Quando sarete appiccato.

– Allora aspetterete un bel po’, Sir William.

– Ho della pazienza da vendere.

– Aspettereste troppo, Sir.

– Insomma volete dirmi perché mi avete fatto rapire da quel piroscafo? Che intenzioni avete voi a mio riguardo? —

Yanez aprì tranquillamente il suo astuccio, sempre pieno di sigarette e lo porse all’inglese, dicendogli:

– Dopo il thè una buona sigaretta fa bene.

– E vi sarà dentro probabilmente qualche narcotico.

– Scegliete a vostro piacimento la mia e la vostra: così sarete perfettamente sicuro.

– Se fossi un cattolico, vi crederei il diavolo – disse Sir William dopo d’aver aspirato qualche boccata.

– Non ho tanto onore – rispose Yanez ridendo.

– Allora spiegatevi.

– Subito, signor ambasciatore.

Come vi ho detto io sono un rajah indiano e non sono mai stato capace di poter ottenere nemmeno un semplice console, che vegliasse sull’andamento del mio Stato.

Avendo appreso, per una strana combinazione, che l’Inghilterra mandava nientemeno che un ambasciatore a quell’imbecille di Sultano, vi ho portato via.

– E che cosa farete di me?

– Vi condurrò in India, dove vi offrirò un posto principesco alla mia corte, con dodicimila rupie all’anno.

Siete contento, Sir William?

– Credo ben poco alle vostre parole.

– Allora non parliamone più.

– Io so che mi trovo prigioniero, mentre dovrei esser libero.

– Mi avete detto poco fa che avete della pazienza da vendere: aspettate dunque, Sir William.

– Che cosa? Qualche morte violenta?

Yanez si era alzato.

Dai sabordi bene sprangati di ferri entravano le prime luci dell’alba.

– Sir William, – disse – sarà meglio che prendiate un poco di riposo. Spero di rivedervi più tardi. —

Si toccò colla destra l’orlo del sombrero, senza che l’inglese si degnasse di rispondere ed uscì dalla cabina, mentre i due malesi riprendevano il loro posto dinanzi alla porta.

La riconquista di Monpracem

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