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6. Una pesca emozionante

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Erano appena suonate le due, quando S. A. Selim-Bargasci-Amparlang giungeva a bordo dello yacht nella solita scialuppa colorita di rosso e coi bordi d’oro.

Era accompagnato da due ministri, dal suo segretario particolare e da una piccola scorta formata da sei rajaputi tutti d’aspetto brigantesco, con barbe immense e baffi irsuti che salivano fin quasi ai turbanti.

Yanez era già a bordo colla bella olandese, che voleva sottrarre a qualunque costo alle vendette di John Foster, e fu pronto a ricevere il Sultano sulla scala, con un profondissimo inchino e un amabile sorriso.

– Altezza, – disse – siete ormai mio prigioniero. —

Il Sultano l’aveva guardato con inquietudine, facendo una dietro l’altra tre o quattro smorfie. Il portoghese, che se n’era accorto, fu pronto a soggiungere:

– Faremo una magnifica gita al largo, Altezza, e spero che faremo buona caccia lungo le coste di Balaba.

– Come? Vorreste spingervi fino là, milord?

– E perché no?

– E se ci assalgono?

– Ci difenderemo. Farò anzi issare sull’albero la vostra bandiera, per far comprendere a quelle canaglie che la lezione viene solamente da voi.

– Che uomo siete voi?

– Un uomo, Altezza, – rispose il portoghese sorridendo.

Volete che salpiamo? Intanto vi farò visitare il mio yacht.

– Lo desideravo assai – disse il Sultano.

– Perché?

– Per chiarire un punto molto oscuro.

– Volete dire?

– Mi hanno detto che voi avete qui un prigioniero.

– Chi è stato?

– Ve lo dirò più tardi.

– Io ho dunque dei nemici accaniti nella vostra capitale?

– Veramente non si amava vedere, dagli altri stati, un ambasciatore inglese. Non ve ne occupate. Siete sotto la mia protezione. —

Yanez ebbe un sorriso ironico.

– O tu sotto la mia? – mormorò.

– Volete farmi vedere il vostro yacht, milord?

– Subito, Altezza. Aspettate che dia il comando di salpare e di riattivare i fuochi, poiché spingerò la mia nave alla massima velocità. —

Lanciò a destra ed a sinistra alcuni ordini, secchi, taglienti, subito eseguiti dall’equipaggio che, quantunque composto di malesi e di dayachi, manovrava come quello d’un vascello da guerra.

– Altezza, venite – disse. – Vi offrirò qualche bottiglia di quel vino bianco che assaggiaste ieri sera.

– E che tornerò a gustare – rispose il Sultano.

Dopo aver percorsa tutta la tolda, scesero nel quadro, seguiti dalla signora olandese, dai due ministri e dal segretario.

Tutte le cabine erano spalancate, in modo che se qualcuno vi si fosse trovato prigioniero sarebbe stato subito scoperto.

Il Sultano ammirò il salotto, montato con molto buon gusto, poi si cacciò dentro tutte le cabine, osservando attentamente quanto vi si trovava.

– Una nave magnifica! – disse. – Mi sentirei capace di sfidare con questa anche il rajah delle isole.

– E noi lo sfideremo.

– Eh! eh! Non correte tanto! Una palla di cannone od un colpo di spingarda fa presto a giungere ed allora i miei buoni sudditi rimarrebbero senza il loro Sultano.

– Non accadrà niente di grave, Altezza, – rispose Yanez, mentre il chitmudgar sturava delle bottiglie di champagne. – E poi, se non vi fate temere, un giorno o l’altro i pirati delle isole entreranno nella vostra baia e vi daranno dei grossi fastidi, se non ci sarò io a difendervi.

– Lo so purtroppo – rispose il Sultano, vuotando d’un colpo solo la coppa.

Un fischio in quel momento echeggiò. Lo yacht aveva levato le sue ancore e filava, a tutto vapore, verso la bocca della baia.

– Saliamo in coperta, Altezza, – disse Yanez – e cominciamo la caccia.

Tu, chitmudgar, portaci da bere sul ponte. —

Lasciarono il quadro e montarono la scala del quadro, fermandosi sul ponte di comando.

La baia si presentava in tutta la sua meravigliosa bellezza, colle sue isolette, coi suoi quartieri malesi, cinesi e dayachi, tuffati in una vera orgia di sole.

Lo yacht procedeva rapidissimo, a tiraggio forzato, sollevando dinanzi alla prora delle vere ondate e lasciandosi dietro la poppa una scia gorgogliante, in mezzo alla quale balzavano di quando in quando dei famelici pesci-cani.

Delle fregate, delle sule, dei rondoni di mare, passavano rapidissimi sopra la piccola nave, mandando grida gioconde.

Di tratto in tratto un albatro, grosso quasi quanto un’aquila, varcava lo yacht, salutando i viaggiatori con dei grugniti sonori che mal si addicevano ad un volatile.

Al largo invece i pesci-volanti sorgevano in truppe, mostrando ai raggi del sole le loro alette variopinte, poi si rituffavano per cadere probabilmente in bocca alle dorate, le quali fanno grandi stragi di quei disgraziati abitanti del mare che nemmeno il volo può sottrarre ad una morte orribile.

Frescava al largo. La brezza di ponente sferzava la superficie del mare, facendolo increspare fino agli estremi limiti dell’orizzonte.

Un’ondata di quando in quando si avanzava colle creste irte di spuma e si rompeva contro la prora dello yacht con un rombo sonoro, imprimendogli una scossa assai brusca che metteva sottosopra tutto ciò che si trovava in coperta.

Yanez aveva fatto portare quattro fucili da caccia, splendide armi inglesi che aveva acquistato a Calcutta e le aveva messe a disposizione dei suoi ospiti, dicendo:

– Signori, la caccia è aperta!

– Non sarà così facile fucilare le rondini marine con questi trabalzi – aveva risposto il Sultano.

– È perché non avete ancora il piede dei marinai. Vi mostrerò io come si può fare una buona caccia anche con mare grosso. —

Un albatros, uno splendido uccellaccio marino che aveva delle ali straordinariamente sviluppate, passava in quel momento sopra la poppa dello yacht.

Yanez, lesto come una saetta, prese uno dei fucili da caccia, mirò qualche istante, poi lasciò partire due colpi.

Il volatile, mitragliato in pieno corpo, agitò disperatamente le ali tentando di sostenersi ancora in aria, poi cadde a capofitto in mare… proprio dentro la bocca d’un enorme pesce-cane.

– Ah! I furfanti divoreranno tutta la nostra selvaggina, milord, – disse il Sultano. – Ritorneremo a Varauni senza nemmeno una semplice rondine marina.

– La gita non è ancora finita, Altezza, – rispose il portoghese. – Prima che il sole tramonti voglio vedere la tolda della mia nave coperta di pennuti.

– Ci tengo io, sapete, agli uccelli di mare e se me li farete assaggiare sarò ben lieto.

– Nel mio palazzo o qui?

– Preferirei qui – rispose il Sultano. – Vi è più libertà.

– Come volete, Altezza! Anch’io ho un cuoco che vale quanto pesa. A voi! Ecco un bel colpo! —

Una fregata passava in quel momento, tenendo le ali perfettamente distese.

Era seguita da uno stormo di rondoni di mare e di petrelli, i quali invano si sforzavano di tenerle dietro.

– Su, Altezza, – disse Yanez. – È il buon momento. —

Il Sultano alzò il fucile e lasciò partire i due colpi.

La fregata rinchiuse le ali, raggrinzò le zampe e piombò a capofitto in bocca ad un altro squalo.

Il Sultano aveva mandato un urlo di rabbia.

– Ma non ci possiamo sbarazzare di quei ghiottoni che sono pronti a divorarci l’arrosto, milord?

– Se voleste, potrei offrirvi una caccia impressionante al pescecane.

– Ah, sì, sì! – gridò il Sultano, battendo le mani come un fanciullo.

Yanez mandò un fischio stridente, che fece balzare Mati colla velocità d’una gazzella.

Gli sussurrò sottovoce alcuni ordini, poi gridò in macchina di arrestare lo yacht.

– Voi me ne regalerete uno, se avrete la fortuna di catturarne – disse il Sultano.

– Sono pessimi, Altezza.

– Pei cinesi, e regalato dal loro buon Sultano, andrà benissimo e non ne rimarranno nemmeno le spine.

È molto tempo che debbo loro un regalo in cambio di un superbo zaffiro.

– Mangino il pesce-cane allora! – disse Yanez, il quale non aveva potuto trattenere un sorriso.

Mati, seguito da sei uomini, era ricomparso sul ponte, portando un ancorotto da pennello, con tre patte, tutto avvolto in una stoffa rossa.

In una branca aveva cacciato ben dentro un pezzo di lardo del peso di sette o otto chilogrammi.

Alla ghirlanda fu fissata una robusta catena, la quale fu poi passata all’argano poppiero per poter estrarre più facilmente il bestione, nel caso, non improbabile, che avesse abboccato.

Come abbiamo detto, la corsa era stata interrotta e lo yacht ondeggiava dolcemente in mezzo ad un’acqua così trasparente da dare le vertigini.

Nei mari dell’India e della Sonda, quando non soffia vento e l’onda non rimescola il fondo, l’acqua acquista una trasparenza meravigliosa.

Certe volte si possono vedere dei pesci nuotare a cento o centocinquanta metri di profondità.

L’ancorotto fu subito calato a tribordo della nave, mentre altri marinai si armavano di scuri e di parangs.

Il Sultano, il suo seguito, la bella olandese e Yanez si erano curvati sulla murata, ansiosi di assistere a quella straordinaria caccia.

L’ancorotto si vedeva benissimo, essendo stato immerso ad una profondità di venti metri.

Il suo rivestimento rosso doveva richiamare prontamente l’attenzione delle ingorde tigri del mare.

– Questi si chiamano divertimenti milord – disse il Sultano. – Se io avessi un ministro come voi, sarei l’uomo più felice del Borneo.

– Se vorrete, Altezza, oltre a delle crociere, noi faremo anche delle partite di caccia. Le tigri non devono mancare fra i boschi dei monti del Cristallo.

– Purtroppo, milord.

– Andremo a scovarle e ornerete colle loro pelli le vostre splendide verande.

– Ho nelle vene sangue arabo e malese, potete quindi immaginarvi come io ami la caccia. Gli è che i miei ministri hanno paura a seguirmi. —

In quel momento una grande ombra sorse dalle profondità del mare e salì verticalmente in direzione dell’ancorotto. Ma al momento di urtarvi contro, si era lasciata ricadere, agitando debolmente le pinne e la coda.

– Che ritorni? – chiese il Sultano.

– La voracità vincerà il pericolo – rispose Yanez. – Abbiate un po’ di pazienza, Altezza. Non ci vuole fretta per prendere questi bestioni. Là, vedete? Ecco l’ombra che risale. —

Il pesce-cane infatti risaliva a poco a poco, attratto irresistibilmente da quel pezzo di lardo che costituiva infatti un buon boccone.

Passò qualche minuto, poi lo squalo, che discendeva sempre attraverso alle acque trasparenti a malincuore, sempre colla testa in aria e gli occhi fissi sull’ancorotto, riprese lo slancio, portandosi all’altezza dell’ancorotto.

– Che nessuno parli – disse Yanez. – Lasciatelo fare. —

Si trattava d’un superbo charcarias, lungo sette metri, con una bocca così vasta da poter contenere un uomo ripiegato.

Ma doveva essere una vecchia pelle, perché invece di correre subito all’assalto del pezzo di lardo, si mise a descrivere intorno all’ancorotto degli ampi giri, che a poco a poco, ma molto lentamente, si restringevano.

Tutti quegli stracci rossi, ond’era avvolto l’ancorotto, dovevano dargli l’illusione di aver da fare con un bel pezzo di carne ancora sanguinante.

Come tutti i mostri della sua specie, diffidava, e quando stava per abboccare, sia che si spaventasse delle ombre degli uomini saliti sulle murate o del fondo dello yacht, con un brusco slancio si allontanava.

Ma la fenomenale voracità di quei terribili abitanti del mare doveva vincere la prudenza.

Un altro bestione era giunto ed allora il primo, temendo che volesse portargli via la colazione, si slanciò innanzi, aprì la sua immensa bocca semi-circolare ed inghiottì d’un colpo l’ancorotto, il lardo ed un bel tratto di catena.

Un grido altissimo si era alzato fra i malesi ed i dayachi dello yacht.

– È preso! È preso!

Lo squalo aveva dato indietro, tentando di troncare con un colpo di denti la catena, poi era rimasto quasi immobile.

La riconquista di Monpracem

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