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4. L’attacco alla cannoniera

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Da tre giorni Yanez si godeva gli ozi di Varauni, dividendo il suo tempo fra la corte, dove il Sultano non mancava mai di far danzare qualche centinaio di bajadere fatte venire dall’India con grandi spese, e fra le feste.

Nel suo palazzotto aveva dato già ricevimenti, invitando anche i pochi europei che si trovavano nella capitale del Sultanato, quantunque potessero costituire per lui un pericolo.

Già trovava che tutto andava per il meglio, che il Sultano era abbastanza grazioso, che i vini della corte erano eccellenti, quando una notizia fulminea interruppe la sua vita beata.

Aveva già dato ordine, la mattina del quarto giorno, che lo yacht accendesse i fuochi per fare una escursione intorno alla vasta baia, quando vide entrare nel suo gabinetto da lavoro Padar, il mastro del piccolo praho da corsa, che aveva da qualche tempo inviato verso Mangalum, perché l’informasse della sorte toccata ai naufraghi.

Quantunque fosse un uomo non facile ad impressionarsi, il mastro appariva in preda ad una vivissima agitazione.

– Ebbene, che cosa c’è? – chiese Yanez, riaccendendo la sigaretta che aveva lasciata spegnere. – Sta per cadere la luna o il sole?

– State per essere sorpreso e dentro il porto, capitano, – rispose il mastro.

– Da chi?

– Una cannoniera olandese ha incontrato le scialuppe dei naufraghi e le rimorchia qui.

– Per Giove! —

Il portoghese gettò via la sigaretta, e si mise a camminare a grandi passi per il gabinetto.

– Fuma lo yacht? – chiese a Padar.

– Le sue macchine sono accese.

– Qui bisogna tentare un colpo di testa disperato. Una cannoniera non è già un incrociatore e coi miei grossi pezzi da caccia non dubito di metterla presto fuori combattimento.

È lontana?

– Non sarà qui prima d’un paio d’ore.

– Allora salviamo subito lo yacht. Troverò poi qualche scusa per persuadere quell’imbecille di Sultano che io dovevo difendermi.

Una storia! Chi me la dà?… L’ho bell’è trovata.

Andiamo, Padar, perché qui si corre il pericolo di naufragare tutti. —

Si mise in testa l’elmo di tela, prese le sue famose pistole e lasciò il palazzotto, seguito dal mastro e da una mezza dozzina di malesi, equipaggiati perfettamente per la guerra e che indossavano il pittoresco costume dei cipay indiani.

Essendo giorno di mercato, le vie attigue al porto erano quasi deserte, così Yanez e la sua scorta poterono imbarcarsi senza quasi essere stati notati.

Lo yacht era sotto pressione e dietro di lui stava ancorato il praho di Padar, il quale poteva, colle sue due grosse spingarde ed i suoi trenta uomini d’equipaggio, dare molto filo da torcere ai salvatori dei naufraghi.

Yanez, come sempre, aveva fatto rapidamente il suo piano: inseguire al largo ed offrire agli olandesi, senza nessuna testimonianza, una vera battaglia.

Si sentiva forte coi suoi due cannoni da caccia che lanciavano una palla a mille e cinquecento metri, distanza allora sconosciuta fra le flotte anglo-indiane. E poi sapeva di poter contare assolutamente sui suoi malesi ed i suoi dayachi. Al primo comando, nessuno si sarebbe rifiutato di montare all’abbordaggio coi parangs in pugno.

Lo yacht, che filava a tutto vapore, passò a cento braccia dalla cannoniera, quasi sfidandola, poi si slanciò innanzi, seguìto dal praho da corsa.

Vedendolo passare, i passeggeri che affollavano le scialuppe a rimorchio della cannoniera, erano saltati in piedi, agitando forsennatamente le mani e lanciando clamori minacciosi:

– Eccolo, il pirata!

– Fate fuoco su di lui, se avete del sangue nelle vene.

– Montate all’abbordaggio ed impiccate tutte quelle canaglie all’alberatura dello yacht.

– Su via, se avete del fegato! —

La cannoniera si era bruscamente arrestata, poi aveva compiuto un mezzo giro verso tribordo e siccome, per un caso straordinario, non aveva tutte le sue macchine completamente sgangherate, il suo equipaggio tagliò gli ormeggi delle scialuppe e si mise valorosamente in caccia.

Aveva per altro dinanzi a sé un vero corridore del mare, capace di farsi inseguire fino a Calcutta senza permetterle di sparare una sola volta il suo pezzo poppiero.

Yanez, sempre tranquillo, sempre calmo, era salito sul ponte di comando ed aveva lanciato in macchina un ordine:

– A tiraggio forzato, finché potrete resistere. Posso contare su di voi?

– Sì! – aveva risposto il capo-macchinista.

– A me, Mati! —

Il gigantesco dayaco sorse come un diavolo a sorpresa dal boccaporto del quadro e si slanciò verso il portoghese, chiedendogli:

– Che cosa desiderate, signor Yanez?

– Sei sempre sicuro del tiro dei tuoi pezzi?

– Scommetterei di portare via con una palla la sigaretta che in questo momento sta fumando il capitano.

– È una pipa.

– Niente di meglio, signor Yanez. Nello spezzarsi farà più fracasso.

Ma non rispondo dei baffi.

– Non occuparti di quelli. A Varauni vi sono ancora dei bravi barbieri indù che glieli rimetteranno a posto.

– Allora non chiedo altro. Mi date carta bianca?

– Sì, ma più tardi, quando avremo fatto correre la cannoniera al largo. Abbassa la bandiera inglese ed innalza sul picco la gloriosa bandiera delle invincibili tigri di Mompracem. —

Il vessillo inglese cadde, svolazzando sul quadro, mentre al suo posto veniva innalzata una bandiera tutta rossa che portava nel mezzo una testa di tigre.

I malesi dell’equipaggio salutarono quel vessillo, che ricordava le loro glorie passate, con un urlo altissimo.

Guai se Yanez in quel momento li avesse scagliati all’abbordaggio!

I figli delle vecchie tigri, incanutiti fra il fumo delle artiglierie e lo strepitar dell’acciaio, non avevano tralignato.

La cannoniera, abbandonate le sei scialuppe ai loro remi, aveva cominciato a forzare le macchine.

Invece di carbone doveva bruciare qualche altra sostanza più ardente, poiché dopo cinquecento passi aveva cominciato a guadagnare via.

Il fumo che il vento spingeva fino sullo yacht era fortemente impregnato d’alcool.

Per accelerare la corsa gli olandesi gettavano dentro i forni casse di ginepro, con grande disperazione dei macchinisti che avrebbero preferito vuotarle nel loro sacco, anziché innaffiare il carbone.

A quattrocento metri la cannoniera sparò un colpo in bianco per invitare la nave fuggiasca ad arrestarsi, sotto minaccia di subire un bombardamento in piena regola.

Mati si era avvicinato a Yanez, il quale passeggiava tranquillamente sul quadro colla sua eterna sigaretta fra le labbra.

Ma doveva essere un po’ preoccupato, perché l’aveva lasciata spegnere.

– Signor Yanez, che cosa dobbiamo fare? – gli chiese.

– Salutarli colla bandiera delle tigri di Mompracem.

– Ci prenderanno a palle.

– E con palle risponderemo. Va’ a collocarti al pezzo da caccia di poppa. Quando sarà giunto il momento verrò io a rettificare la mira. Caccia dentro una buona granata da trentadue pollici e mandala fra le tambure di quel vecchio corvaccio di mare. Lo arresteremo in piena volata.

– E gli uomini?

– Tutti in coperta dietro ai bastingaggi. In qualche modo devono aiutarci.

Ah, vi è anche il praho di Padar. Colle sue spingarde potrà spazzare la tolda ad una buona distanza. Va’ Mati: si preparano a demolire il nostro yacht. —

Il malese si gettò giù dal ponte di comando e si portò dietro al pezzo poppiero, un magnifico pezzo da trentasei di buon calibro.

Intanto i malesi ed i dayachi che formavano l’equipaggio, si erano gettati dietro le murate, passando le canne delle carabine sulle brande arrotolate sul bastingaggio.

Erano tutti calmi e tranquilli come se si trattasse, non già di una battaglia disperata, ove il più debole era fatalmente condannato a soccombere, ma come se si preparassero a dei semplici tiri di combattimento in alto mare.

Ognuno aveva portato presso di sé la terribile sciabola bornese, che valeva molto meglio di tutte le sciabole d’abbordaggio in uso nella marina europea ed americana.

Yanez accese un’altra sigaretta, si fece versare dal suo chitmudgar un buon bicchiere d’harak siamese, poi passò rapidamente in rivista i suoi uomini.

– Gli artiglieri ai pezzi! – disse colla sua voce sonora ed incisiva. – La battaglia sta per cominciare.

Cercate di coprire innanzi tutto il praho di Padar, perché non voglio assolutamente che venga affondato. —

Dieci macassaresi, che passavano pei migliori artiglieri delle isole della Sonda, erano balzati sui due pezzi, guidati da due quartiermastri. Padar aveva già puntato il pezzo da trentasei, mirando la coperta della cannoniera.

Yanez, che era un cannoniere di grande fama come era abilissimo bersagliere, rettificò di qualche punto la mira, poi disse:

– Vediamo Mati che cosa sai fare ora. Hai a tua disposizione due pezzi ben più grossi di quelli che porta la cannoniera. —

Il cannoniere stava per obbedire, quando due fragorose detonazioni risonarono al largo, ripercuotendosi entro gli avvallamenti delle onde.

Gli olandesi avevano prevenuto i malesi, sparando un colpo sullo yacht ed un altro sul praho di Padar, il quale faceva sforzi disperati per non rimanere indietro e farsi catturare.

Il tiro era bensì troppo alto, poiché la prima palla passava fra le antenne della piccola nave a vapore, spezzando semplicemente un pennone, la seconda aveva attraversato le due vele del praho, toccando qualche corda delle manovre fisse.

– A te, Mati! – disse Yanez. – Approfitta! —

Il mastro si curvò sul pezzo, rettificò ancora di qualche linea la mira, sotto la sorveglianza del portoghese, e scatenò un uragano di ferro e di fuoco.

La granata attraversò il praho che si frapponeva fra lo yacht e la cannoniera e cadde sul ponte di quest’ultima, disperdendo per un momento gli uomini che si erano raccolti intorno ai pezzi.

– Lesto, Mati! – disse Yanez. – Non addormentarti sui tuoi allori.

Qui si tratta di distruggere o di venire distrutti, poiché se quella cannoniera riesce ad approdare a Varauni, noi verremo presto o tardi appiccati come pirati.

Facciamo sparire i testimoni che ingombrano.

– Ed i naufraghi non ci accuseranno egualmente?

– Lascia che me la cavi io col Sultano. Sotto le mie mani farò di lui quello che vorrò.

Spara, per Giove! —

Mati corse sul castello di prora, dove il pezzo, montato su un perno gigante, poteva sparare in tutte le direzioni e fece nuovamente fuoco lanciando una granata fra le tambura di babordo, le cui pale furono sgangherate assieme con le ferramenta.

Anche il praho era entrato in linea di combattimento, scagliando sulla cannoniera, ormai quasi immobilizzata, nembi di mitraglia.

La battaglia si era impegnata d’ambe le parti con grande ardore.

Gli olandesi, quantunque costretti ad arrestarsi, non avevano cessato il fuoco. Una ventina d’uomini di fanteria marina appoggiava i pezzi a colpi di carabina, prendendosela col praho di Padar che non era difficile mettere fuori di combattimento, quantunque l’abile mastro, approfittando d’una fresca brezza di ponente, si fosse assai allontanato, mettendosi sotto la protezione dello yacht.

I colpi spesseggiavano da una parte e dall’altra, scotendo fortemente le tre piccole navi.

Turbini di fumo biancastro, attraversati da lunghe lingue di fuoco, li avvolgevano, rendendoli in certi momenti quasi invisibili.

Yanez, vedendo che l’affare diventava serio, aveva assunto il comando del pezzo di poppa e ogni mezzo minuto scagliava, alla linea di galleggiamento dell’olandese, dei grossi proiettili.

Ormai si trattava di vita o di morte ed i malesi ed i dayachi non davano indietro dinanzi al fuoco della cannoniera, quantunque parecchi cadessero sul ponte uccisi o storpiati.

Le loro carabine appoggiavano vigorosamente i due pezzi dello yacht e le due spingarde del praho, decimando rapidamente gli artiglieri ed i fucilieri olandesi, troppo inferiori di numero per sostenere una battaglia contro i figli delle vecchie tigri di Mompracem.

La fine si avvicinava.

Yanez aveva assunta la direzione dei due pezzi e sfondava con grossi proiettili conici di buon ferro i madieri dell’avversaria, aprendole delle vie d’acqua.

Gli olandesi, quantunque crudelmente decimati, resistevano disperatamente, sapendo che non avrebbero trovato quartiere da uomini che avevano inalberato il vessillo di Mompracem.

Il loro fuoco per altro diventava di momento in momento meno intenso.

Uno dei loro pezzi era stato imbroccato con matematica precisione e non serviva più a nulla, mentre l’altro, troppo scaldato dalla frequenza delle scariche, tirava male.

Tuttavia non ammainavano la bandiera del loro paese, che pareva avessero inchiodata sul picco per impedire di scorrere, perché già sapevano che non avrebbero trovata mercè.

Yanez, sempre calmo, sempre impassibile, aiutato da Mati, raddoppiava i tiri, lanciando sul povero legno una tempesta di ferro.

Specie sui suoi fianchi batteva poderosamente per aprirvi delle vie d’acqua.

I madieri infatti, sotto l’urto dei proiettili, si spaccavano, aprendo delle falle quasi a fior d’acqua.

Ad ogni scarica la povera cannoniera sussultava e si agitava, come se fosse presa dal male della tarantola.

Ad un tratto si udì una sorda detonazione.

– Che cosa è successo? – chiese Mati a Yanez.

– L’acqua ha invaso le macchine e le ha fatte esplodere.

– E quella gente?

– Ci hanno assaliti senza che noi avessimo loro fatto alcun male. S’affoghino tutti.

– E dopo?

– Al dopo ci penserò io, Mati, – rispose il portoghese con un sorriso, gettandosi bruscamente da parte, mentre un pezzo di murata veniva sfondato.

Alzò la voce:

– Padar! Raddoppia il fuoco! Spazza via tutto! —

La cannoniera offriva uno spettacolo spaventevole. Il suo albero delle segnalazioni era caduto insieme con le griselle e le sartie, e dai boccaporti spalancati irrompevano grandi nuvole di fumo biancastro, prodotte ormai non più dai pezzi, bensì dalle macchine.

Per quattro o cinque minuti ancora i due legni tempestarono il legno avversario, spazzandolo da poppa a prora, poi la cannoniera subì un altro scoppio che le disarticolò i corbetti ed il fasciame.

Cominciava a bere a garganella.

Attraverso i fori aperti dalle palle, l’acqua si precipitava in grande quantità, invadendo la stiva.

Lo yacht ed il praho avevano sospeso il fuoco.

Gli olandesi invece, prima di sommergersi consumavano le loro ultime cartucce.

Per un po’ fu un sibilar di palle sopra lo yacht ed il veliero di Padar, poi la moschetteria bruscamente cessò.

La cannoniera, sventrata dalla doppia esplosione delle sue macchine, affondava, girando lentamente su se stessa.

In altre circostanze certamente Yanez non avrebbe assistito impassibile alla fine di quei valorosi, che piuttosto di calare la bandiera, preferivano farsi ingoiare dal mare.

La testimonianza di quegli uomini era troppo pericolosa. Meglio sopprimerli pur con dispiacere, per la salvezza generale.

La cannoniera continuava a girare su se stessa, barcollando come se avesse troppo bevuto.

Ad un tratto si rovesciò violentemente su un fianco e si capovolse di colpo, scomparendo entro un gran gorgo spumeggiante.

– Se avessi avuto i mezzi di poterli salvare, tutto avrei forse tentato – disse Yanez il quale appariva assai commosso e turbato. – Infine si tratta dell’esistenza di tutti ed il grandioso piano ideato da Sandokan di prendere il Sultano fra due fuochi sarebbe terminato prima del principio.

D’altronde, io non li ho cercati, non sono stato il primo ad assalire. —

Fece colle mani portavoce e gridò con quanta voce aveva in gola:

– Padar! Accosta! —

Il piccolo praho, che era sfuggito miracolosamente al fuoco della cannoniera, spiccò una bordata ed andò ad ormeggiarsi sotto la scala.

– Monta! – gridò Yanez.

Il mastro salì lestamente a bordo, mentre il portoghese scendeva nel quadro, dove l’ambasciatore inglese continuava ad urlare come un forsennato.

– Pirati! Mascalzoni! Chi mandate a fondo? Aprite o la grande Inghilterra saprà trarre una vendetta esemplare. —

Yanez impugnò una pistola ed aprì la porta della cabina, dicendo: – Signor ambasciatore, preparatevi a fare un viaggio.

– Per dove, miserabile? – urlò l’inglese, mettendosi in guardia di boxe.

– Per la baja di Gaya, per ora.

– Io non ho affari in quei paesi, mio caro pirataccio.

– Non m’interessa affatto.

– E se mi rifiutassi?

– Vi farei imbarcare colla forza, signor ambasciatore.

– Siete un americano, voi?

– Perché?

– Perché quella brava gente d’oltre Atlantico non ha mai avuto scrupoli.

– Non sono affatto uno yankee, signor mio.

– Agite bensì come quelle brave persone.

– Certo, quando si tratta di salvare sessanta uomini che sono stati affidati a me.

– E che cosa avete fatto ora, canaglia?

– Ben poca cosa – rispose Yanez. – Una cannoniera mi dava fastidio, ed io l’ho affondata. Ero nel mio diritto.

– Il diritto dei pirati!

– Lasciate andare le parole, Sir.

– Che cosa volete che vada a fare dunque al Borneo?

– La vostra patria è sempre stata una grande divoratrice di terre. Lassù vi sono delle terre vergini da conquistare.

Inalberate la bandiera rossa e vedrete gl’indigeni accorrere a frotte a baciarla.

– Voi vi burlate di me.

– Io? No, Sir: non sono mai stato serio come ora.

– E che cosa pretendereste?

– D’imbarcarvi, vi ho detto: siete sordo?

– Sento magnificamente, mia cara canaglia!

– Ah, la prendete su questo tono? Mati! —

Il maestro dello yacht che doveva aver già ricevuto degli ordini, irruppe entro la cabina, accompagnato da quattro robusti malesi, i quali non tardarono a rendere all’impotenza l’irascibile figlio di John Bull.

– Imbarcatelo! – comandò Yanez.

Padar sa già che cosa deve fare di questo brav’uomo, che a Varauni potrebbe procurarmi delle grandi noie che io non desidero affatto. —

L’inglese, malgrado la sua disperata resistenza, fu chiuso e legato dentro un’amaca e portato di peso sul ponte dello yacht.

– Canaglia! – urlava o meglio ruggiva. – La grande Inghilterra mi vendicherà. —

Quella minaccia non aveva prodotto alcun effetto sui malesi e sui dayachi, i quali si sentivano troppo sicuri sotto un capo che si chiamava Yanez.

L’inglese fu calato sul praho e portato in una cabina di fondo.

– Padar! – gridò Yanez. – Sai che cosa devi fare.

Ti aspetto presto a Varauni. Allarga! —

Il piccolo veliero rovesciò le sue vele al vento e si allontanò rapidissimo, mentre lo yacht riprendeva la sua corsa verso la capitale del Sultanato.

La riconquista di Monpracem

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