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Vecchie idee a braccetto da separare.

La politica prima di noi ha vissuto sempre di luoghi comuni o meglio ancora di idee a braccetto che camminavano stupidamente sempre legate da una illusoria parentela che in realtà non esiste.

Quando si dice: monarchia, si pensa immediatamente all'esercito, alla guerra, alla patria, al patriottismo. E questo è ammissibile. Ma è assurdo che dicendo, per esempio, le parole patria, patriottismo, guerra, esercito entusiasta, si debba pensare forzatamente alla idea di monarchia reazionaria.

Quando si dice: nazionalismo, si pensa immediatamente a spirito conservatore, a imperialismo rapace e sistematico, a spirito tradizionale e reazionario, a repressione poliziesca, a militarismo, ad aristocrazia blasonata, a clericalismo.

Idee a braccetto da separare brutalmente.

Quando si dice: democrazia, si pensa immediatamente a spirito imbelle, umanitario, pacifista, pietista, quietista, rinunciatario, anticoloniale, umile, internazionalista, e senza orgoglio di razza o negatore delle razze.

Idee a braccetto da separare brutalmente. [pg!38]

Quando si dice: rivoluzione, si pensa immediatamente ad antipatriottismo, a internazionalismo e a pacifismo.

Idee a braccetto da separare brutalmente.

Quando si dice: educazione sportiva, slancio, coraggio, audacia, forza muscolare, mania del record, si pensa immediatamente alla monarchia imperialista o clericale.

Idee a braccetto da separare brutalmente.

Quando si parla di giustizia, di eguaglianza, di libertà, diritti del proletariato, dei contadini e dei nullabbienti e della lotta contro il parassitismo, si pensa immediatamente all'antipatriottismo, all'internazionalismo pacifista, al marxismo, al collettivismo.

Idee a braccetto da separare brutalmente.

Il regno di questi luoghi comuni legati assurdamente insieme per l'eternità ha fatto sì che una delle frasi del primo manifesto futurista pubblicato 11 anni fa, la quale glorifica insieme il patriottismo e il gesto distruttore dei libertarî, sembrò alle mentalità politiche una pazzia o un puro scherzo.

Tutti trovavano assurdo o buffo che l'idea libertaria andasse per la prima volta a braccetto con l'idea di patria. Come mai la parola patriottismo non era quel giorno accompagnata dalla sua amica monarchia d'ordine e reazionaria?

Come mai l'idea: gesto distruttore dei libertarî non era quel giorno accompagnata dalla sua inseparabile amica: antipatriottismo?

Stupore enorme nei cervelli così detti politici, i [pg!39] quali si nutrono di luoghi comuni e di ideologie libresche, nella loro assoluta incapacità di interpretare la vita, le razze, le folle, gli individui.

Ma il loro stupore ingigantì maggiormente quando nel maggio glorioso del 1915 videro ad un tratto nelle piazze burrascose di Milano e di Roma passeggiare di nuovo la coppia strana: Gesto distruttore dei libertarî e Patriottismo, con dei nomi nuovi come Mussolini, Corridoni, Corradini, Garibaldi, Marinetti, al grido unico di: Guerra o Rivoluzione.

Noi oggi separiamo l'idea di Patria dall'idea di Monarchia reazionaria e clericale. Uniamo l'idea di Patria con l'idea di Progresso audace e di democrazia rivoluzionaria, antipoliziesca.

Ma occorre separare brutalmente una ben più grave unione cretina: quella di queste due idee a braccetto oggi in molti giornali italiani e d'Europa: Società delle Nazioni e Pacificazione della volontà vendicativa dei vinti.

E queste altre idee a braccetto: Concessioni ai popoli inferiori e senza civiltà e Conservazione della Pace.

Idee a braccetto assurde.

Per sostenere le forze della Intesa nella grande conflagrazione fu necessario unire l'idea di guerra con l'idea di ultima guerra. E l'idea di vittoria con l'idea di vittoria senza vincitori e senza vinti.

Si pensava vagamente ad una Pace di compromesso, ma si lottava ferocemente per abbattere il nemico. [pg!40]

Come mai si poteva sperare che questo nemico una volta abbattuto pacificasse immediatamente il suo cuore senza covare un desiderio accanito di vendetta?

L'idea di vittoria completa si era stranamente sposata con la idea di una Germania felice di essere stravinta. E l'idea di una Intesa vittoriosa si era stranamente sposata con la idea di una Intesa quasi mortificata di aver vinto.

I nostri contradittori gridano alla truffa, la chiamano anzi la truffa all'europea. Come! ci gridano: la conflagrazione non servirà dunque a stabilire una Pace eterna? Presto! presto! ad ogni costo, fondiamo la Società delle Nazioni per impedire la possibilità di una nuova guerra. Nella loro Società delle Nazioni bisognerebbe far sedere intorno all'unico tavolo pacifero i vincitori che erano stati aggrediti e non avevano voluto la guerra, i vinti che l'avevano brigantescamente ordita, i neutri che l'avevano vigliaccamente contemplata dal balcone, i neonati sani e i neonati rachitici con alcuni popoli marci decrepiti.

Ma bisognerebbe anche che tutti lasciassero fuori dalla porta i loro caratteri tipici: logico orgoglio del vincitore, desiderio logico di vendicarsi nel vinto; sano appetito di neonato forte, nevrosi di neonato morituro, subdole cocciutaggini di vecchio decrepito, ecc.

La Vita crea, domina e plasma le ideologie. Ogni idea politica è un organismo vivo. I partiti politici sono quasi sempre destinati a diventare dei grandi cadaveri gloriosi. [pg!41]

I partiti che ebbero un grande passato sono quelli che mancano oggi di vitalità. Legge futurista. I repubblicani sono oggi ridotti ad un impotente dottrinarismo che si contenta di invocare l'ombra di Mazzini. In realtà Mazzini è vivo come Cavour è vivo, mentre Cappa e Comandini sono dei morti, come Salandra è un morto.

Partendo da queste nostre concezioni futuriste, il futurista Volt dimostra precisamente come non si possa oggi invocare una tradizione, poichè questa tradizione è assolutamente antinazionale:

«La nostra grande vittoria è un fatto assolutamente nuovo nella storia d'Italia. Di fronte alla monumentale imbecillaggine degli «assidui» che ingombrano le colonne dei quotidiani con proposte di archi di trionfo, colonne Vendôme, aquile e trofei da carnevale archeologico, giova oggi più che mai ripetere che la grandezza italiana non ha nulla a che fare con quelle antiche grandezze. Noi non dobbiamo nulla al passato. Unica fra le potenze d'Europa, l'Italia è una nazione che manca di tradizioni nazionali. Viceversa, l'Italia abbonda di tradizioni regionali, anazionali o addirittura antinazionali. Noi esamineremo queste tradizioni nefaste attraverso le varie classi, i vari strati della società italiana.

1. Esercito. L'argomento è troppo delicato perchè se ne possa parlare oggi.

2. Clero. Si può discutere sulla opportunità di rinfocolare il dissidio fra Chiesa e Stato, ma in ogni modo, questo dissidio esiste, almeno allo stato [pg!42] latente ed è vano negarlo. La ragione di questo dissidio sta appunto nelle tradizioni antinazionali che tenacemente sopravvivono nello organismo della Chiesa Italiana. Vi sono bensì molti cattolici che sono al tempo stesso buoni patrioti ed è da augurarsi che aumentino: ma essi rappresentano nel senso del clericalismo tradizionale una forza rivoluzionaria.

3. Aristocrazia. I figli dell'aristocrazia italiana hanno fatto il loro dovere sui campi di battaglia nè più nè meno che i figli del popolo e della borghesia, ma nel suo complesso non si può dire che l'aristocrazia si sia messa alla testa della nostra guerra nazionale. Dalle sguaiate denigrazioni di alcuni «figli di preti» al blando ostruzionismo dei blasonati ammiratori del demagogo di Dronero, il neutralismo ha fatta larga presa nella classe nobiliare. Ciò si deve all'assenza di tradizioni nazionali nell'albero genealogico delle più antiche famiglie italiane. Queste tradizioni non potevano esserci, per la semplice ragione che l'Italia, come stato unitario, non ha un passato qualsiasi. Bene o male, siamo una nazione di «parvenus». Coloro dunque che nell'aristocrazia italiana si sono «ralliés» al nuovo regime, aderendo entusiasticamente alla nostra ultima guerra d'indipendenza, hanno dovuto per ciò stesso futuristicamente rinnegare le ombre borboniche o austriacanti dei loro antenati. E sono entrati nella vita.

4. Borghesia. Ciò che costituisce la gloria della nuova classe dirigente, la borghesia, è la potenza [pg!43] produttiva del lavoro. Ma la recente fioritura delle nostre industrie e del commercio, non si riannoda in alcun modo al passato. L'industria italiana si è modellata sull'esempio dell'industria forestiera; nessuna traccia resta fra noi dell'attività commerciale dei Comuni medioevali e delle gloriose Repubbliche marinare.

Ciò che di tradizionale resta nella nostra vita economica è solamente un elemento negativo, un ingombro, una palla di piombo legata al piede! Misoneismo, «routine», abitudini sedentarie, orrore delle innovazioni tecniche, mancanza di iniziativa, paura del rischio, micromania, contentamento del piccolo e non sudato guadagno, ecco l'eredità che il nostro «grande passato» lasciò alle industrie ed al commercio italiano. È in forza della tradizione, che il contadino si rifiuta di adoperare le nuove macchine agricole, che il banchiere ha paura di dare il suo sussidio alle nuove industrie, che l'industriale si guarda bene di allargare la cerchia delle proprie operazioni. Tutto ciò che di buono è stato fatto nel campo economico, è stato uno schiaffo di più alle così dette «sante memorie». L'Italia non potrà divenire una grande potenza economica, se non riuscirà a sbarazzarsi totalmente del peso della sua tradizione.

5. Proletariato. Nella mente dei più il disfattismo popolare è strettamente associato alla idea di rivoluzione. Niente di più falso. Il disfattismo non è che l'eredità di dieci secoli di servitù nazionale. Esiste, nella plebe italiana, e specialmente [pg!44] nelle campagne, una antichissima tradizione antigovernativa, anti-militarista, anti-nazionale, anteriore al socialismo, e che il socialismo non fece che sfruttare abilmente, come la sfruttarono i sanfedisti al tempo non tanto lontano della «guerra del brigantaggio».

Lo spirito che anima certe «leghe» di Romagna è identico nella sostanza allo spirito della mafia siciliana e della camorra napoletana. Il socialismo non ha fatto che sovrapporre la sua etichetta rossa su di una vecchia merce avariata. Del resto basta avere ascoltato certe canzonaccie, rampollate da chi sa quali bassifondi del disfattismo popolare, per sentire come nulla di nuovo, di ardito, nulla di idealmente rivoluzionario vi sia in un tale stato di animo.

È l'uomo primitivo timido e selvatico, che nello stato moderno non vede che il Consiglio di leva e l'esattore delle imposte, il «Moloch» divoratore di uomini e di beni; è il bruto originario, attaccato come una talpa alla miseria della propria tana, che la guerra ha strappato alle querimonie domestiche e alle angustie del mestiere quotidiano, lanciandolo verso il rischio, l'avventura, l'ignoto, rinnovandolo e facendo di lui, suo malgrado, un uomo. Contro quest'opera della guerra, contro questa vera e grande rivoluzione spirituale del popolo italiano, si oppone, sorda e tenace, la resistenza della tradizione. A noi la scelta! La guerra ha posto un dilemma fra il passato e l'avvenire. Da una parte, tutte le forze antinazionali [pg!45] del passato, che si ragrupparono sotto le ambigue insegne del neutralismo. Dall'altra l'Italia. Il grano e il loglio da ardere. La vita contro la morte. Essere futurista, significa avere optato per la vita. Combattere il passatismo, significa combattere una tradizione antinazionale che ha la sua radice nei secoli. Perchè, in Italia, tradizione è sinonimo di disfatta». [pg!47]

Democrazia futurista: dinamismo politico

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