Читать книгу Novelle e ghiribizzi - Fanfani Pietro - Страница 5

NOVELLA I.[1]

Оглавление

Indice

DON FICCHÍNO.

Don Ficchíno, adulatore e scroccone famoso, accetta due desinari nel giorno medesimo: saputosi, gli è fatto da capo un doppio invito; ma è trattato in modo che va a letto digiuno.

Don Ficchíno, morto pochi anni addietro d'indigestione, fu un pretazzuolo d'una piccola città di Toscana: e gli posero quel soprannome per la grande sua smania di ficcarsi attorno a tutti coloro che avevano nobiltà, ricchezza, o fama di letterati solenni. Fino da abatónzolo il fatto suo era uno spasso: un frucchíno, un lecchíno[2] vi so dir io! Se de' mortorj, se degli angiolíni[3], se delle benedícole dove si leccasse il madonníno[4] ve n'era, lui vi si ficcava dei primi. Cresciuto negli anni, gli uscì di corpo la smania de' móccoli e delle sagrestíe; e si cominciò a ficcare per le case dei signori; e lì, per leccar qualcosa, lusingava ogni lor vanità: si sdrajava sotto i tavolini a sbraciar la cassetta alle signore[5]: faceva sonetti, cantava, sonava; era, vi dico, il cucco di tutte le veglie. Poi gli venne gli áscheri[6] di essere un po' letterato... ma, èramo a piedi![7]... Síe? che importa? Lasciate fare a lui! Si ficcò alle còstole di un letterato valente; e lì striscia, e lì loda, e lì lecca, il letterato gli fece pa[8]; lo resse per le maniche del sajo, affinchè non battesse il musíno in terra; lo fece affiatare con qualche altro letterato: e di lì a poco l'amicone si attentò a far l'autore. Fu un vero attentato! Ne scrisse di quelle che non hanno nè babbo nè mamma, o come dice il popolíno, di quelle di pelle di becco: ma un po' per l'ajuto del protettore; un po' per le dedicatòrie spante; un po' per le lodi che egli svergognatamente chiedeva, e spesso otteneva, dai giornalisti; e un po' perchè cercò di razzolare in materie che fossero di moda, gli riuscì, sempre strisciando, leccando e ficcandosi, di farsi dire qualche parola dolce da due o tre valentuomini, della qual cosa non potete immaginare la gallòria che ne menava, e lo strombettío che ne faceva, e ne faceva fare. E come gli ignoranti sono sempre i più, ed egli bazzicava sempre de' signori, che generalmente sono ignorantissimi, lo cominciarono a chiamar professore, non cessando per altro di divertirsi alle spalle di lui, che era la più riderfacente caricatura dell'universo mondo. Poi volle pubblici ufficj; e qui sì che andò, s'arrabattò, si strisciò, si ficcò, s'incurvò, si prostrò, si scappellò, e ò ò ò ò. Quando c'era il Granduca, faceva giaculatòrie granducali ch'era una delizia: si teneva beato, se poteva parlare, non che altro, con uno staffiere de' Pitti: se poi poteva avere un'udienza, non entrava più nella pelle, e la camicia, come suol dirsi, non gli toccava il sedere: la raccontava, la commentava, e piangeva di gioja. Il Granduca fuggì; e lui, puntuale, s'inchinò a chi l'aveva fatto scappare: diventò un liberalaccio per la pelle; e quasi quasi si spacciava per martire: cercò, insieme con altri, di mettere in mala voce, e di dare uno sgambetto a un suo amico e benefattore: poi lisciò, strisciò, si prostrò, encomiò Vittorio Emanuele co' suoi figliuoli; e chi sa che cosa sarebbe stato capace di fare, se quella benedetta indigestione non lo mandava illuc quo plures abierunt. Sopra tutte le sue cardinali virtù per altro c'era quella di essere un grande uccellatore di desinari; e come tutti lo sapevano, così tutti coloro che apparecchiavano più o meno lautamente, lo invitavano sempre, essendo per essi uno spasso grandissimo il vederlo mangiare con sì raro appetito, e il sentire le ingegnose lodi che sapeva dare al padrone, al cuoco, e a tutte le pietanze ed i vini; le quali lodi erano spesso sotto forma di sonetti o di brindisi, che rallegravano maravigliosamente tutta la brigata. Accadde una volta che fu invitato nello stesso giorno dalle due più ricche famiglie della città, ciascuna delle quali aveva un'ottimo cuoco e una famosa cantina. Don Ficchíno, tra questi due inviti parimente attraenti, stava come il famoso asino degli scolástici, i quali pensavano che posto in mezzo a due profende di fieno parimente fresco e odoroso, sarebbe prima morto di fame che abboccarne una[9]. Leggeva ora l'uno ora l'altro: prendeva la penna per ringraziare; ma non veniva all'atto. Guarda e riguarda, leggi e rileggi, a un tratto fa un salto d'allegrezza, e un sonoro frullo con una mano. Che cosa n'era cagione? La famiglia A., tenace un poco degli usi antichi, pranzava alle 2; l'altra famiglia B. alle 7. «Gua', posso andar qui e là.» E di fatto la mattina della gran giornata, prese un bel bicchiere d'acqua del Tettúccio[10], per disporre lo stomaco; fece una sottilissima colazione, e alle 2 fu a casa A. Il pranzo era eccellente, e Don Ficchíno si mostrò pari alla sua fama. Vedendo andare attorno tanta grazia di Dio, non poteva lasciarla passare, senza intinger nel vassojo: «Chi lo sa, pensava, se a quest'altro desinare ci son tante delizie!» E lì trincava, e ingollava di santa ragione. Alle quattro era già finito il pranzo; e Ficchíno pensò tosto ad accomodar le cose per quell'altro delle 7. Si sdrajò un'oretta sul canapè; fece un pisolíno; e poi, ripicchiatosi tutto[11], andò a fare una bella passeggiatona, piuttosto faticosa: insomma alle 7 fu in grado di porre il piè sotto la tavola da capo; e se al primo pranzo si mostrò, come solevano dir di lui, la prima forchetta di Toscana, in questo secondo non canzonò. La cosa si sparse súbito; e non vi so dire che grasse risate vi si facessero su, e che saporiti e arguti motti si dicessero a propòsito del buon appetito di Don Ficchíno, in quelle conversazioni dove soleva andare. «Gli s'ha a fare una bella celia.—Sì sì: guardiamo se si gastiga la sua ingordigia.» E fatto capannello tra due o tre capi armònici, che altre volte si eran divertiti alle spalle del nostro abatíno, restarono d'accordo in questo, di fargli un altro doppio invito fra qualche giorno; ma in modo che non gli tornasse più voglia di accettarne de' simili. La settimana appresso, eccoti un servitorino in livrea, che picchia alla porta del professore, e lascia un elegante biglietto, col quale il signore e la signora D. lo pregavano di favorirgli a pranzo il giorno di poi alle 2: pranzo d'addio, perchè la sera partivano. Quel pranzo d'addio fece venir l'acquolina in bocca a Ficchíno... Poco dopo un'altra scampanellata. «Chi è?—Una lettera per il signor professore.» Era un altro invito stampato, per un pranzo di giorno natalizio, la sera di poi alle sette e mezzo. Sòlite esitazioni; sòlita risoluzione:—Pranzai due volte l'altro giorno, e stetti benone. Dunque?... Alle due del giorno dopo, un'eletta compagnía di signori e signore era nel palazzo D. Don Ficchíno, secondo l'usanza, trottolava qua e là[12], a chi facendo inchini, chi adulando, con chi sdottoreggiando; ma con l'occhio sempre volto alla sala da pranzo. Finalmente arrivò il sospirato: Signori, è in tavola. A Ficchíno toccò l'onore di accompagnare la signora: ciascuno si mette al sue posto; l'apparecchio ricchissimo promette ogni più fino allettamento della gola; già si distribuivano le scodelle della minestra; quando entra un servitore con una lettera per il padrone. Questi l'apre, e cade abbandonatamente col capo sopra la tavola.—Dio mio! che è stato? grida la signora: e tutti si alzano, chi dicendo una cosa, chi l'altra... Una sventura gravissima era sopraggiunta alla nobile famiglia: il signore e la signora si scusarono alla meglio; il pranzo andò all'aria; e gli invitati, fatte le loro condoglianze, andarono chi qua chi là. A Don Ficchíno seppe proprio male di questo fatto inaspettato; ma, Fortuna, disse dentro di sè, che stasera ci ho quest'altro pranzo! rimetterò le dotte lì. E mezzo sbalordito andò via, cercando di far le sette e mezzo. La prima cosa andò a mangiare un tagliuolo di stiacciat'unta, perchè, avendo, come l'altra volta, preso l'acqua del Tettúccio, e fatta una colazioncína leggiera, si sentiva assai fame: poi una capatína qui, una là[13]: finalmente l'ora tanto aspettata arrivò; e l'amico s'avviò súbito a casa F. portato dal desío e dall'appetito. Eravamo là sul principio del decembre; e il tempo nuvoloso si buttava al crudo, accennando a neve; sicchè non gli parve vero di infilarsi in quella casa, dove sperava riscaldarsi e refocillarsi tutto[14], tanto più che non aveva pensato a coprirsi troppo bene. Egli era dei frequentatori più assidui della conversazione di que' signori, sicchè il portiere lo salutò familiarmente ed il servitore d'anticamera lo annunziò tosto alla signora, la quale era nel suo salottino con altre due amiche. A Don Ficchíno parve un poco strano il veder queste donne così sole, il perchè, dopo le solite riverenze, inchini, e strette di mano: Come mai queste signore così sole?—Gli uomini, rispose la signora, son su nella stanza da fumare: ma ora scenderanno. Sanno che dobbiamo andare al teatro. Al povero Don Ficchíno non rimase sangue nelle vene; e tutto confuso, con atto di gran maraviglia, esclamò: Al teatro!—Già, o non lo sapete che stasera c'è gran cose? venite anche voi.—Grazie, signora... Ma lei... ho forse sbagliato leggendo?... o la stampería?...—Ma che almanaccate, professore?... E il povero professore, levatosi di tasca l'invito, lo mostrò alla signora, la quale trattenendo a stento le risa: Noi non abbiamo mandato tali inviti; qualcheduno ha voluto farvi una celia. L'ira, la vergogna, la fame, si dipinsero stranamente in figura diversa sul volto del povero Ficchíno, il quale, se non fosse stato tanto ridícolo, avrebbe fatto pianger le pietre: A me! a un mio pari!... me la pagheranno... la mia penna!... Intanto eccoti giù tutti coloro che erano stati a pranzo, ed uscivano da fumare, i quali, saputa la cosa, dolenti in vista del mal tiro fatto al professore, sotto i baffi se la ridevano gustosamente.—Signori, ci sono le carrozze—disse un servitore, affacciandosi all'uscio; e tutti si alzarono, e andarono al teatro, dove, più che la commedia, dette materia di spasso la celia fatta a Don Ficchíno, la quale si sparse in un momento per tutti i palchi, e anche per la platea. Ma la celia non finì qui. Il povero professore, con una fame da lupi, fece pensiero d'andare a pigliar qualcosa alla trattoría. Erano già sonate le otto da un pezzo; veniva un nevíschio fitto fitto, con un vento diaccio che pelava: quella città, piccola e pochissimo popolata, nell'inverno dalle sette in là pareva un deserto; e solo rimaneva aperto fino alle dieci il caffè, e quella trattoría, dove qualche rara volta soleva andar Don Ficchíno, il quale era fieramente in úggia al trattore e a' camerieri, come colui ch'era famoso lesinante, e seccatore pertinacissimo. Coloro che avevano ordito la trama pensarono che il professore, rimasto a denti secchi nelle due case, sarebbe andato alla trattoría; e però s'indettarono col padrone, che gli secondò a meraviglia, avendo, come dissi, in úggia Don Ficchíno, un di quegli avventori, com'egli diceva, che è meglio perdergli che trovargli. Bisogna sapere che Don Ficchíno, oltre all'essere spilòrcio e seccatore, era schizzinoso in estremo grado; e il mal odore di una pietanza, o qualche cosa di men che netto che vi fosse dentro, gli dava orribili archeggiamenti di stomaco. Èccotelo alla trattoría: si mette a sedere; picchia nel bicchiere; e al cameriere, che venne súbito:—Che ci avete di buono?—Eh, signor professore, non potrò darle, se non una zuppa e una bistecca.—Bene: porta súbito la zuppa e prepara la bistecca.—Súbito.—Quella zuppa si fece aspettare un pezzo: e lo stomaco del povero Ficchíno latrava rabbiosamente. Finalmente èccola... L'aveva mangiata mezza cogli occhj nel tempo che il cameriere la portava in tavola: appena messa davanti, ne ingolla furiosamente una cucchiajata; un puzzo e un saporaccio orribile! il povero Ficchíno ebbe a dar fuori il primo boccone che gli diede la bália[15].—Geppíno, Geppíno!—Comandi, signor professore.—Ma questa zuppa puzza che mena la saetta.—E Geppíno, annusando:—Puzza? scusi, signor Professore: ma a me non mi pare...—Pòrtala via, e affretta la bistecca.—E Geppíno porta via la zuppa. Dopo un altro pezzo viene la bistecca; e se la zuppa era stata puzzolente, questa era puzzolente e mezzo. Allora Ficchíno montò su tutte le furie: maltrattò padroni e camerieri, e andava via tutto stizzito: ma fu trattenuto, e dovè pagare lo scotto, come se avesse mangiato. Affamato, assiderato, arrabbiato, corse al caffè; stavano per chiudere, e non c'era più nè latte, nè caffè, nè sèmelli o chífelli. Non restava altra speranza che il trovare qualche cosa di avanzato al povero desinare della sua donna di servizio; una montanína appannatotta[16], che Don Ficchíno teneva anche per maestra di lingua e di poesía; e che gli costava poco, avvezza com'era a necci[17] e polenda, suo cibo prediletto quando il padrone non mangiava in casa, che vuol dire quattro o cinque giorni per settimana. Erano le dieci quando Ficchíno tornò a casa; e domandato alla Zelinda se c'era nulla da mangiare, gli rispose che non c'era nulla, se non un po' di polenda, e un rosícchiolo di cacio.—Datemi quello.—E senza fare altre parole, mangiò la polenda con quel poco di cacio, ingollando, come suol dirsi, un boccone di quella e un boccon di veleno[18]: bevve un bicchier di vino, e insaccò nel letto a digerire la bile. Ma non era finita! Quando fu così sulla mezzanotte, che Ficchíno ruminava sempre chi diavolo potesse avergli fatto la celia, meditando vendetta, e la Zelinda se la dormiva placidamente; si ode una grande scampanellata. La serva si desta di sobbalzo, e súbito salta il letto. Ficchíno chiamava, bociando, Non aprite; ma un'altra scampanellata, e poi un'altra più rovinosa.—Affacciatevi, disse allora Ficchíno: potrebbe esserci qualcosa di grave. E la Zelinda si affaccia:—Chi è?—Un plico per il signor professore.—Senta, io non iscendo; lo metta dentro a questo paniere.—E, calato un paniere, lo tirò su con un involto assai grosso, che portò súbito di là al padrone, il quale, fattosi accendere il lume, rimandò a letto la donna, e sbuzzando[19] l'involto, vi trovò un Almanacco del gastrònomo, un pacchettino d'inviti a pranzo per più giorni alla fila nelle prime case della città, e un biglietto di questo tenore;

Caro Don Ficchíno,

«Un pasto buono e un mezzano, mantien l'uomo sano» come sapete; e «chi troppo mangia scoppia». Avendo voi mangiato a strippapelle tanti giorni alle còstole altrui, oggi, impauriti di vedervi scoppiare, vi abbiamo fatto la celia de' due finti inviti, della trattoría e del caffè, mandandovi a letto digiuno. Come però «Chi va a letto senza cena, tutta la notte si dimena», così abbiamo pensato di mandarvi questo Almanacco, dove leggerete descritte le più ghiotte vivande, per una qualche consolazione del forzato digiuno, e della veglia che ne è la conseguenza. Acciocchè poi non crediate che lo abbiamo fatto per ischerno della vostra magnificággine, o per altra cagione che per tenerezza della vostra sanità, vi mandiamo questi inviti a pranzo, che abbiamo raccolti stasera al teatro da que' signori, che parlavano e ridevano della celia fáttavi, ma che pur vogliono darvene un qualche compenso.

Valutate, illustre Ficchíno, la nostra buona volontà, e il Signore vi conservi lo stomaco.

Alcuni vostri ammiratori.

È facile l'immaginarsi che effetto fece sull'animo, già tanto amareggiato, del povero professore questa novella canzonatura; e come lo rodesse la stizza di non potersi almeno sfogare un poco. Libro, inviti, lettera e ogni cosa scaraventò in fondo alla camera: spense il lume; ficcò il capo sotto le lenzuola, e stette quasi tutta la notte senza poter chiuder occhio, tra per la fame, per la rovella e per la vergogna. Come prima fu giorno, chiamò la Zelinda che gli portasse il caffè, dove inzuppò non so quante fette di pane. Per quel giorno non volle metter piede fuori dell'uscio, e fece propòsito di non accettar più inviti da nessuno... Ma poteva egli Don Ficchíno star fermo in sì fatto propòsito? Una, due volte, fino alla terza disse di no; ma poi, trattandosi di un pranzo dove si sapeva dovervi essere ogni più squisita delizia, non potè resistere, e accettò. Povero Don Ficchíno! fu l'ultimo pranzo! Era stato tanti giorni lontano dalle ricche tavole; erano tante e tanto preziose quelle vivande e que' vini, che lasciò libero il freno al suo poderoso appetito. Nella notte lo prese un'orribile gravezza di capo; poi una febbre da leoni; e dopo tre giorni era morto. Il suo corpo fu sepolto nel camposanto della sua città, e distingue le sue dalle infinite ossa che quivi ha seminato la morte, una pietra con questo epitaffio:

Ficchíno giace qui;

Nacque, mangiò, morì.

Novelle e ghiribizzi

Подняться наверх