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X.

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Raimondo non avea taciuto nulla nella sua lettera; e tuttavia il vederlo crebbemi il dolore.

Mi ripetè il suo spasimo, i suoi dubbii, il suo timore di riuscire ingrato agli occhi di Clelia; e poi che gli uomini temono sopra ogni cosa il ridicolo e lo vedono da per tutto dove il compasso non ha portato la sua misura, io compresi che Raimondo era torturato da questo pensiero. Arrossiva di amare; col suo volto, coi suoi modi parevagli debolezza; e quando doveva pure dirla questa parola che Dio ha scolpito nel cuore delle sue creature, balbettava e mi guardava nel volto temendo che io lo canzonassi.

Strana vicenda delle cose del mondo è questa che il vizio usurpi a quando a quando le spoglie della virtù e s'incontrino degli sciagurati che si tengano della loro abbiezione, e parlino delle loro colpe e mettano a nudo le loro sozzure con compiacenza. Ma che la virtù arrossisca di sè medesima, e per poco non discenda a domandare il mantello del vizio, questo in verità non si saprebbe comprendere. Ed io penso che se gli uomini non si frodassero a vicenda di uno spettacolo che sana molte piaghe, e sdegnassero questo mentito tributo alla colpa, il fardello dei loro dolori n'andrebbe alleggerito d'assai.

Persuasi Raimondo a sperare, ad abbandonarsi a me. Non ci volle gran fatica; la solitudine avealo fatto arrendevole, però io posi per primo patto che egli venisse meco quella sera medesima in casa della contessa. Rifiutò sulle prime vivamente; non avrebbe osato incontrarsi subito con Clelia; ma quando io gli dissi come da una settimana ella non fosse più venuta nelle sale della contessa, allora fu un tempestare di domande, alle quali io non sapeva rispondere. Da quel punto non stette più sul diniego; senza che io insistessi più oltre, era inteso che quella sera sarebbe venuto.

Due amori

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