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Parte prima
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«Oggi non si mangia?»

Il principino moriva di fame. Da un pezzo l’ora del desinare non arrivava mai: un po’ mancava il duca, un po’ Raimondo, un po’ lo stesso principe; quel giorno eran fuori tutti e tre, più Lucrezia e Matilde. E il ragazzo era la disperazione di tutta la casa: correva su e giù dalla cucina alla scuderia, dalle stalle al giardino, inquietava la servitù vecchia e nuova intenta al lavoro. Come don Blasco aveva annunziato al Babbeo, tutti i servi protetti dalla principessa erano stati mandati via da Giacomo; invece i diseredati, quelli che per aver favorito il figliuolo avevano meritato l’avversione della madre, erano stati da costui riconfermati nel loro posto. Due sole eccezioni aveva fatto il principe: una a favore di Baldassarre e l’altra del signor Marco. Baldassarre, figliuolo d’una antica cameriera, allevato al palazzo e assunto giovanissimo all’ufficio di maestro di casa, sapeva fin da bambino il debole della famiglia, le rivalità, le avversioni e le manìe; aveva perciò badato esclusivamente al proprio servizio lodando tutti i padroni checché facessero o dicessero, tenendo in riga i suoi dipendenti che osavano mormorare dell’uno o dell’altro. Pertanto madre e figlio l’avevano ben visto entrambi, e il legato della principessa non gli procurava il congedo del principe. Quanto al signor Marco, lancia spezzata della morta, molti si meravigliavano che il figlio, da due mesi capo della casa, non se ne fosse ancora sbarazzato. Veramente, fin da quando la principessa era caduta inferma, l’amministratore aveva mutato tattica, prendendo con le buone il padrone nella previsione di doverlo presto servire; morta la madre, se non gli aveva proprio lasciato rubare il numerario, come diceva don Blasco, gli si umiliava certamente in tutti modi. Del resto, un procuratore come lui, che conosceva la casa da quindici anni, che sapeva le condizioni delle proprietà e lo stato delle liti, non si poteva surrogare da un momento all’altro.

«Non si mangia più?… Che fate?… Voglio vedere!… Perché non allestite?… A me!»

In cucina, tolto di mano a Luciano, il credenziere, un coltello che questi stava nettando, il principino continuò egli stesso l’operazione.

«Vostra Eccellenza, che fa mai!…» Il nuovo cuoco, monsù Martino, non sapeva come prenderlo. «Se ne vada di sopra, ci lasci lavorare.»

«Lèvati di torno! Voglio far io!»

Bisognava lasciarlo fare. Se lo contrariavano, diventava una furia: digrignava i denti, gridava come un ossesso, rovesciava quanto gli capitava fra le mani. In verità il principe educava severamente il figliuolo, non gliene passava nessuna liscia; ma, da un’altra parte, non scherzava neppure con le persone di servizio se queste, messe con le spalle al muro e perduta la pazienza, rispondevano male al padroncino. E giusto adesso, dopo la morte della principessa, il posto di cuoco, in casa Francalanza, era divenuto più importante di prima. Giacomo dava punti alla madre quanto a diffidenza e a vigilanza: teneva tutte le provviste sotto chiave, voleva conto delle cose più miserabili, degli avanzi, delle croste di pane; ma insomma la spesa giornaliera, non contando l’aumento per gli ospiti, era considerevole e il trattamento più lauto: mangiavano adesso quattro piatti; mentre ai tempi della madre se ne facevano tre per lei e per don Raimondo: gli altri dovevano contentarsi, nei giorni ordinari, d’una minestra e d’un po’ di carne o di pesce. Anche quando Giacomo era diventato ricco della dote della moglie, la principessa, facendosi dare dal figlio la sua parte di spesa, aveva continuato a ordinare a modo suo, e il principe, fedele al proposito di mostrarlesi obbediente, era rimasto zitto. Così pure egli non aveva potuto eseguire nel palazzo le modificazioni da lungo tempo disegnate; morta donna Teresa, prese finalmente le redini della casa, metteva ora ogni cosa sossopra. S’udivano fino in cucina i colpi di piccone dei muratori, il cigolìo delle carrucole con le quali issavano i materiali dalla corte al piano di sopra; e i guatteri, occupati ad affettar patate e a sbatter uova, scambiavano fra loro osservazioni su quei lavori:

«Levano la scala dell’amministrazione per guadagnare spazio…»

«Io non avrei chiuso un pezzo della terrazza.»

«Il padrone però deve dar conto a suo fratello, essendo eredi tutt’e due.»

«Ma il palazzo è del principe! Il contino ha un solo quartiere…»

Il principino adesso non perdeva una parola del discorso.

«Il contino scapperà subito fuori via… Non è fatto per star qui…»

Il lavoro delle salse li faceva tacere tratto tratto. Luciano, con una strizzatina d’occhio, disse dopo un pezzo al compagno:

«Ricomincia, eh?»

«Lascialo fare! Quello è un vero signore!»

E Luciano chinò il capo, in segno d’approvazione ammirativa. Erano tutti pel conte, in cucina, come nelle anticamere, come nelle scuderie; perché il padrone giovane non rassomigliava al maggiore, tanto era dolce di comando e largo di mano.

«Signore davvero, di modi e di pensieri. Non come l’amico…»

«L’amico è volpe vecchia… com’era l’amica…»

«Che dite?» domandò il principino.

«Niente, Eccellenza!» rispose il cuoco; e vòlto ai dipendenti: «Lavorate!» ingiunse, «senza tante ciarle…»

«Ah, non vuoi dirmelo?»

«Ma che cosa, Eccellenza, se parlano così, a vanvera?»

«Ah, non vuoi dirmelo?»

A un tratto, udendo la carrozza che entrava nel cortile, Consalvo scappò a vedere.

Tornavano finalmente le zie Lucrezia e Matilde andate alla badìa di San Placido. Il ragazzo, dimenticati la cucina e il cuoco, corse a raggiungerle di sopra, nella camera della madre, per vedere se gli portavano nulla.

La contessa Matilde gli diede infatti un cartoccio di dolci; ma la zia Lucrezia neppure gli badò, con tanta animazione teneva un discorso alla principessa:

«Piangeva, capisci!… Abbiamo voluto parlare con la Badessa, che ci ha confermato ogni cosa; è vero, Matilde?… Che modo è questo!… Le messe per nostra madre…»

«Sst…»

La principessa fece un segno alla cognata di tacere, per riguardo del ragazzo.

«Mamma, oggi non si mangia più?…» domandò costui.

«Se tuo padre non è ancora venuto!… Va’, va’ a vedere se arriva.»

Il principino comprese che lo mandavano via. A sei anni, era curioso più di don Blasco. I maneggi dello zio monaco, il continuo complottare che si faceva in quella casa, avevano destato di buon’ora la sua attenzione: dopo la morte della nonna, s’accorgeva, dal contegno dei parenti, dai discorsi dei servi, che l’avevano con suo padre, chi per una ragione e chi per un’altra, ma che nessuno ardiva prendersela direttamente con lui. Egli comprendeva tante altre cose: che la zia Ferdinanda non poteva soffrire la zia Matilde; che tra questa e suo marito c’erano dissapori: comprendeva e taceva, fingendo di non accorgersi di nulla, per non incorrere nella collera di nessuno. Infatti, lo zio don Blasco dava solenni scappellotti, la zia Lucrezia giocava anche lei a pizzicargli il braccio, specialmente quando egli andava a rovistarle la camera; ma specialmente suo padre, sempre burbero, gliene dava, alle volte, di quelle che radevano il pelo. Pertanto egli non se la diceva molto con lui, mentre invece non poteva stare lontano dalla mamma. Donna Ferdinanda, veramente, gli usava molte preferenze; ma nessuno come la principessa scusava i difetti del monello. Rabbrividendo, cadendo in convulsione se qualcuno le si metteva troppo dappresso, ella vinceva la manìa dell’isolamento soltanto per amore dei figli, si stringeva al petto e baciava furiosamente il suo Consalvo anche quanto non era troppo netto, e con tanto maggior impeto quando più si difendeva da ogni altro contatto. Da un pezzo, nata la sorellina Teresa, le carezze non erano tutte per lui; nondimeno, solo la principessa riusciva ad ottenere qualche cosa da Consalvo con le buone, per amore.

«Va’, va’ a vedere se il babbo è tornato…»

Il principe Giacomo rientrava in quel momento. Aveva una ciera più aggrottata del solito, e neppure salutò, entrando; Lucrezia ammutolì, alla sua vista. Egli domandò se il duca era rincasato, e udendo che no, diede ordine che servissero in tavola appena giunto lo zio. Poi se ne andò a chiudersi nel suo scrittoio col signor Marco. Consalvo restò un poco senza saper che fare, esitando tra il ritorno in cucina e una visita ai manovali. Invece, visto che la zia Lucrezia riprendeva a parlare con la mamma, salì nella camera di lei. Gli aveva proibito di entrarci perché adesso studiava il disegno d’acquarello e non voleva toccate le sue cose, specialmente pel pericolo che scoprissero le lettere di Benedetto Giulente; invece, i pezzi di colore, i piattelli da stemperare, i pennelli, la gomma, facevano gola al ragazzo. E nessuna raccomandazione o minaccia serviva a Lucrezia; se reclamava, le toccavano soprammercato i rimproveri del fratello diventato intrattabile dopo la lettura del testamento; talché il monello, quando carpiva l’occasione, faceva man bassa in camera della zia. Salito dunque lassù, a quell’ora che era sicuro di non essere sorpreso, il principino cominciò a rovistare sul tavolino, in mezzo ai disegni, nella cartiera, nel comodino. Dov’erano nascoste le cose del disegno? Forse nelle cassette più alte di quell’armadio, dov’egli non arrivava. Intanto, dal cortile, s’udì la campana che annunziava l’arrivo del duca. Egli continuò a guardarsi intorno, a cercare febbrilmente sotto il letto, sotto l’armadio, nella specchiera. Questa era una piccola tavola ricoperta di tela ricamata: sollevatone un lembo, apparve la cassetta. Lì dentro, in mezzo ai vecchi pettini, a scatole vuote di pasta di mandorle, c’era un fascio di carte annodate con un nastro rosso. Consalvo disfece il nodo e sciorinò le lettere. Improvvisamente Lucrezia apparve sull’uscio.

«Ah!…» gridò, e slanciarsi sul nipote ed allungargli un ceffone fu tutt’uno.

Il ragazzo cacciò uno strillo così acuto, come se lo stessero scannando.

«T’ho detto mille volte di non toccare le cose mie! Non è possibile serbare più nulla! Sono ridotta come se fossi in piazza…»

Accorse Vanna, la cameriera, agli urli disperati, ma aveva appena cominciato: «Signorina… lo lasci andare…» che apparve il principe.

«E per questo alzi le mani sul bambino?»

«Se non posso essere ubbidita!… Se non sono padrona di serbare uno spillo!…»

Egli sollevò Consalvo da terra, lo prese per mano e disse, lentamente, guardandola bene in viso:

«Un’altra volta, se t’arrischi di toccare mio figlio, ti piglio a schiaffi; hai capito?»

Ella rimase un momento come stordita. Visto uscire il fratello, corse a un tratto alla porta, la chiuse sbattendola violentemente e non rispose più a nessuno dei servi che venivano a chiamarla pel desinare. Dové salire il duca a scongiurarla di aprirgli; alle raccomandazioni, alle ammonizioni dello zio, finalmente proruppe:

«E che pazienza! Sono due mesi che mi tratta così!… Perché l’ha con me? Pel testamento di nostra madre? Fa’ così per giocar di prima? Ha dunque ragione lo zio don Blasco?… Ha sentito, ha sentito Vostra Eccellenza, che ha fatto adesso?»

«Che ha fatto?»

«Non vuol riconoscere il legato alla badìa di San Placido!… Abbiamo trovato Angiolina che piangeva e la Badessa che gettava fuoco e fiamme!… Vuol far lui tutte le carte, e ci tratta poi così, d’alto in basso, per avvilirci tutti quanti…»

«Piano!… Basta, per ora…» il duca tornava a raccomandarsi, per amor della pace. «Basta!… Vieni a desinare, per ora… Ti prometto che poi gli parlerò io…»

Raimondo non era ancora rientrato quando tutta la famiglia, con l’assistenza di don Mariano, prese posto a tavola. Lucrezia aveva gli occhi ancora rossi, teneva il capo chino, non diceva una parola; ma il principe, fattosi improvvisamente sereno in vista, rivolgeva cortesie allo zio duca. Tutti i giorni così: dopo lunghe ore di mutria, di silenzi, di voltate di spalle al sopravvenire dei fratelli e delle sorelle e più della cognata Matilde, egli smetteva a tavola la ciera accigliata, per corteggiar lo zio. Non era la prima volta che il desinare cominciava senza Raimondo, e al malumore di Lucrezia faceva riscontro, quel giorno, un pensiero molesto sulla fronte di Matilde.

Non le facevano festa, in quella casa. Il principe, donna Ferdinanda, don Blasco, un po’ anche la cugina Graziella, dovevano trovare in lei colpe imperdonabili, se la punzecchiavano assiduamente, se la trattavano senza riguardi; ma ella perdonava le mancanze di riguardo e gli sgarbi fatti a lei; non soffriva quelli che toccavano a suo marito. Forse era questa la sua grande colpa: l’amore che portava a Raimondo!… Lo amava fin da quando lo aveva visto, da prima ancora; fin da quando, fidanzata per lettera a quel conte di Lumera del quale suo padre, superbo d’imparentarsi coi Viceré, le faceva lodi senza fine, ella aveva lavorato con la fantasia a rappresentarlo bello, nobile, generoso, cavalleresco come un eroe del Tasso o dell’Ariosto. E la realtà aveva superato le sue stesse immaginazioni; tanto era fine, lo sposo suo, e leggiadro, ed elegante, e splendido; ed ella che non aveva conosciuto da vicino altri uomini, che s’era nutrita unicamente di sogni, di poesia, di fantasia alta e pura, gli aveva dato tutta l’anima, per sempre; lo aveva amato ancora nei suoi cari e idolatrato nella figlia nàtale da lui. Ella non aveva altra idea della vita che quella espressa dalla vita sua propria, semplice e piana, tutta trascorsa in mezzo alla sorellina Carlotta, alla mamma loro, soave ed amara ricordanza, ed al padre, uomo di passioni estreme, amico o nemico fino alla morte degli altri uomini, ma cieco e folle d’amore per le sue figlie… Mentre ella adesso si voltava ogni tratto a guardar l’uscio della sala con l’ansiosa aspettativa dell’arrivo di Raimondo, la scena che aveva dinanzi le rammentava, con un effetto di vivo contrasto, un’altra indelebilmente fitta nella sua memoria. La sua memoria le rappresentava il desco familiare, nella grande stanza da pranzo della casa paterna, a Milazzo: la mamma, la sorella, ella stessa intenta ai racconti del padre, sorridenti con lui, con lui tristi o dolenti; il padre tutto loro, coi pensieri e con le opere; e un costante e quasi superstizioso rispetto per le antiche abitudini, e una pace patriarcale, un amore reciproco, una confidenza assoluta. Se ella si guardava ora intorno, che vedeva? La principessa timida e paurosa dinanzi al marito, il ragazzo tremante a un’occhiata del padre, ma superbo dell’umiliazione inflitta alla zia; Lucrezia e il fratello ancora freddi e sospettosi l’uno verso l’altra; il principe ostentante il buon umore col duca dopo una giornata d’accigliato silenzio… Ella neppure sospettava le passioni che dividevano quella famiglia, il giorno che vi era entrata come in un’altra famiglia sua propria: tanto più grande era stato il suo stupore, il suo dolore, nel vedere di che sordo astio la ripagavano. Giudicavano, certo, che fosse indegna di Raimondo perché a lui inferiore: e nessuno quanto lei stessa lo poneva tanto alto; ma non le aveva giovato sentirsi e farsi umile dinanzi a lui e ad essi: l’astio non s’era placato. Allora ella aveva cominciato a comprendere le particolari passioni che, oltre all’orgoglio, animavano ciascuno di quegli Uzeda duri e violenti… La madre di Raimondo, per idolatria del figlio era gelosa di lei: riuscita ad ammogliarlo, ad assicurargli la dote, aveva umiliato la nuora, facendole sentire fin dal primo giorno la sua mano di ferro perché, più d’ogni altro, ella stessa sommessa dinanzi al beniamino; ma la sommessione idolatra, il cieco affetto della sposa, togliendole ogni pretesto d’incrudelire su lei, mettendo nuova esca al fuoco della sorda gelosia materna, l’aveva resa implacabile. Il fratello maggiore, non perdonando a Raimondo i suoi privilegi, non potendo rassegnarsi alla concorrenza che la famiglia di lui faceva alla propria, rovesciava il suo rancore sulla cognata. Tutti gli altri erano stati senza pietà per l’intrusa, o in odio alla principessa che l’aveva voluta in quella casa o in odio a Raimondo che la madre proteggeva. Così ella s’era vista bersaglio di quei parenti ai quali era venuta con animo confidente e cuore affezionato; e lo scoprire che il loro astio era tanto acre contro di lei quanto contro Raimondo, invece di attenuare aveva inacerbito la sua pena; poiché perduta d’amore pel marito, ella soffriva e gioiva in lui e per lui… In quello stesso momento che il principe pareva non veder la cognata o, se volgevasi dalla sua parte, smessa a un tratto la ciera gioconda, le mostrava un viso contegnosamente chiuso, peggio che se fosse una estranea, ella non soffriva tanto di quell’ostentata freddezza, quanto della trascuranza da tutti dimostrata verso suo marito. Il desinare progrediva come se egli non dovesse venire più, nessuno chiedeva di lui. Lucrezia teneva ancora il capo chino sul desco, la principessa badava a suo figlio, il principe parlava dello stato delle campagne, dei prezzi delle derrate, dei pericoli del colera; il duca discuteva della guerra d’Oriente; e solamente un estraneo, don Mariano, diceva tratto tratto:

«E Raimondo?… Non si vede più!… Che gli è successo?»

Allora, come per virtù dell’eco, quella domanda si ripercoteva nel pensiero di lei: «Non si vede più!… Che gli è successo?…» Perché mai tardava tanto? Perché la lasciava sola tra quegli estranei indifferenti od ostili?

«I russi resistono ancora… un osso duro da rodere… Napoleone ne seppe qualcosa…»

Di nuovo assorta in pensieri più gravi e molesti, ella udiva brani di frasi, parole di cui non afferrava il senso. Da quanto tempo la lasciava sola, Raimondo! Da quanto, da quanto!… Ella rammentava assiduamente la prima pena che le aveva inflitta, tanto tempo addietro. Buono con lei nei primi tempi del matrimonio, durante il viaggio di nozze ed il soggiorno di Catania, appena giunto a Milazzo dove erano andati per affari, per vedere il padre e la sorella di lei, egli aveva dichiarato di non aver preso moglie per vivere in quella bicocca, per incappare nella tutela del suocero dopo essere uscito da quella della madre. Certo, ella non credeva che la vita nella sua cittadella natale potesse allettarlo molto; certo, lo avrebbe seguito dovunque gli sarebbe piaciuto condurla; nondimeno quel brusco giudizio intorno a cose e persone care al cuor suo le aveva procurato un senso d’angustia indimenticabile. Egli voleva lasciare per sempre la Sicilia, andarsene a vivere a Firenze; né la contraria volontà della madre gli era d’ostacolo; alla moglie, che per non discostarsi troppo dai suoi gliela rammentava esortandolo ad obbedirla, rispondeva bruscamente: «Lasciami fare a modo mio.» Ed ella, sì, aveva riconosciuto le sue ragioni. La Sicilia, la Toscana, qualunque parte del mondo dove sarebbero stati insieme felici, non doveva esser tutt’uno per lei? Il dispotico divieto della suocera poteva avere maggior peso per lei del desiderio del marito? E quel desiderio non era forse legittimo; il suo Raimondo non era chiamato a figurare in mezzo alla società più eletta di una grande città? Giovani e ricchi, non sarebbero stati dovunque segno dell’invidia di tutti?… Ed ella non aveva perseverato nei tentativi di resistenza anche per un’altra ragione, più grave. Raimondo, del quale perdonava, anzi voleva ignorare i modi un po’ bruschi, l’insofferenza della contraddizione, tutti i piccoli difetti di un figliuolo troppo vezzeggiato, si mostrava qual era anche col suocero. Il carattere di costui essendo pure molto forte, un dissenso poteva sorgere da un momento all’altro. Sulle prime, il barone aveva fatto una vera festa al genero, trattandolo quasi come la principessa, sedotto anche lui dalla grazia fine del giovane, inorgoglito dalla fortuna di essersi imparentato coi Francalanza; ma Raimondo aveva risposto a tante prevenzioni zelanti, a tante cure affettuose mostrandosi malcontento di tutto, in quella casa, ripeteva ogni quarto d’ora: «Come si fa a vivere qui?…» Il barone aveva da lui la procura per amministrare le proprietà date alla figlia, e in questa amministrazione intendeva seguire i criteri e i sistemi antichi, dei quali sapeva la bontà; Raimondo invece, per occupar gli ozi di Milazzo, quando non passava le intere giornate giocando al casino con gli scapati presto conosciuti, si faceva render conto dal suocero dei suoi provvedimenti, per biasimarli, per suggerir quelli che, a suo giudizio, bisognava adottare. In questa materia, egli dimostrava un’assoluta ignoranza degli affari, una stravaganza di concetti molto simile a quella del fratello Ferdinando: il barone ne rideva, egli se l’aveva a male. Le parti s’invertivano quando il barone gli chiedeva conto dell’impiego dei capitali dotali: allora egli biasimava certe operazioni bislacche del genero, e questi dichiarava al suocero che non ci capiva nulla. Spesso, in quei dibattiti, alle uscite vivaci di Raimondo il barone faceva un visibile sforzo per contenersi, per non dargli sulla voce; allora Matilde interveniva, mutava soggetto al discorso, componendo il lieve screzio coi sorrisi prodigati egualmente alle due persone che più amava al mondo. Il suo grande dolore fu perciò nell’accorgersi che, se voleva vederle in pace, le conveniva evitare che stessero a lungo insieme. Decisa così a secondare il desiderio del marito, ella lo aveva seguito a Firenze, ma quest’ultima risoluzione di Raimondo era stata causa della più viva opposizione del barone che voleva vicina la figlia e, giudicando troppo costosa la stabile dimora in una grande città, consigliava piuttosto brevi viaggi. Raimondo gli aveva risposto seccamente che quel consiglio era stupido, perché i viaggi appunto costano un occhio del capo; e lasciando in asso il suocero aveva dichiarato alla moglie, con brutte parole, troppo dure, ingiuste anche, di non voler più soffrire l’ingerenza di lui negli affari propri. Allora, per vincere l’opposizione del padre, ella aveva dovuto ricorrere all’espediente di cui s’era avvalsa tante volte, bambina: dirgli che il disegno di vivere un pezzo in Toscana era caro a lei stessa e pregarlo di farla contenta!…

«Quattrini e vite sprecate!… La guerra a tanta distanza…»

Mentre il duca continuava a sviscerare la questione d’Oriente ed a proporre combinazioni diplomatiche, tutti si volsero verso l’uscio d’entrata. La contessa sussultò, sperando che fosse suo marito; s’avanzava invece cerimoniosamente don Cono Canalà: «Sia pro a ciascuno!… Ma non veggio il contino?…» Così, così a Firenze, in una città dove, non che un parente, non aveva da principio neppure una conoscenza, ella era rimasta lunghissime ore, tanti e tanti giorni ad aspettarlo invano. Lì aveva pianto le sue prime lacrime, quando s’era vista trascurata; lì s’era nascosta per piangere, giacché egli o la derideva per quella «stupida» affezione, o dichiarava di non voler essere «seccato»… Avevano un modo radicalmente diverso d’intendere la vita: mentre ella metteva innanzi tutto l’affetto di suo marito e le gioie della famiglia, e non desiderava se non prolungare al fianco di Raimondo, sia pure in altri luoghi, l’ineffabile felicità domestica provata da fanciulla; il giovane viziato dalle preferenze della madre e finalmente uscito dalla sua ferrea tutela, aspirava unicamente ai liberi piaceri mondani. E per questo, dicendo a se stessa che egli aveva il diritto di divertirsi, che non faceva poi nulla di male, che i gusti delle persone sono naturalmente diversi, ella aveva represso il proprio dolore, si era persuasa del proprio torto. Quasi premio di questa sua rassegnazione, aveva finalmente provato le ineffabili gioie della maternità, e allora, come per incanto i tempi felici della luna di miele parve tornassero, tra perché Raimondo divenne veramente migliore, tra perché ella stessa, assorta in soavi pensieri, in cure minute, pose meno mente alla vita di lui. Al padre, che la raggiunse in quell’occasione, ella poté mostrare un viso raggiante di gioia; felice con lei, il barone dimenticò interamente le piccole liti avute col genero, tornò a volergli bene come ai primi tempi… Tutti aspettavano un maschio, tranne lei stessa che, se avesse osato contrastare i desideri altrui e far differenze tra i figli, avrebbe preferita una bambina. Una bambina nacque infatti, e quando si trattò di battezzarla, quantunque ella e il padre avessero desiderato chiamarla come la loro cara perduta, riconobbero tuttavia la convenienza di darle il nome della principessa. Rammentava forse più la madre felice i trattamenti sgraziati della suocera e della parentela? Quell’angioletto venuto a ristringere il nodo che la univa a Raimondo, a dissipare le nubi che minacciavano il suo bel cielo, non parlava unicamente di pace e d’amore?… Ahimè! Più presto che non credesse ella s’era accorta del proprio inganno. Già da quando erano venuti a Firenze, la suocera non le aveva più scritto, né risposto alle sue lettere, né accennato a lei nelle lettere che mandava al figliuolo. Il silenzio continuò durante la gravidanza, e dopo il parto comprese anche la bambina. Quando Teresina fu svezzata, Raimondo deliberò di fare una corsa in Sicilia; e da quel viaggio ella ripromettevasi la fine dell’incomprensibile rancore della principessa; invece, ella ricominciò a piangere allora… Donna Teresa Uzeda, non potendo prendersela con Raimondo per il trasferimento nella remota Toscana, ne aveva rovesciato la colpa sulla nuora; la sua gelosia e il suo odio si erano raddoppiati, le facevano una colpa perfino della nascita della bambina!… Come dimostrare a quella spietata il suo torto? Come persuaderla che suo figlio, contro il piacere di tutti, aveva voluto a forza fare quel che si era proposto? Ingenuamente, il barone non aveva detto che Raimondo era andato a Firenze per far piacere a Matilde?… Ella aveva così apprestato, senza saperlo, una nuova arma alla suocera; per ottenere l’accordo fra il marito ed il padre, aveva scatenato quella furia contro se stessa…

«La zia di Vostra Eccellenza!»

Annunziata dal maestro di casa, mentre il desinare stava per finire, entrava adesso donna Ferdinanda. Tranne il duca, tutti si levarono; la contessa con gli altri; ma la zitellona salutò tutti fuorché quest’ultima. Pochi minuti dopo sopravvenne don Blasco che per tutto saluto disse: «Ancora a tavola?» e non parve neppure accorgersi di Matilde… Che era mai, pensava ella, la ostentata trascuranza di costoro, a paragone della guerra mossale, anni addietro, dalla principessa? Non era bastato farsi da parte, non esprimere mai volontà, né desideri, né opinioni: l’odio aveva trovato sempre ragioni di sfogarsi. Esso riversavasi ancora contro l’innocente bambina che aveva il doppio torto d’appartenere al sesso disprezzato e d’esser nata da quella madre; e poiché, rassegnata personalmente a quei trattamenti, la madre sanguinava agli sgarbi fatti alla sua creatura, la principessa s’era messa a perseguitare con speciale accanimento la nipotina. Raimondo pareva non accorgersi di nulla, l’abbandonava più a lungo che a Firenze, non credendo di lasciarla sola poiché ella restava «in famiglia»; e il tormento di quella vita era divenuto in breve così acuto, che ella aveva sospirato il momento di tornarsene alla solitudine almeno tranquilla della sua casa di Firenze…

«Dov’è quell’altro?…» domandò di botto don Blasco, sbuffante alle elucubrazioni politiche del fratello duca.

«Quell’altro» doveva essere Raimondo; tutti lo compresero, rispondendo che non s’era visto, che forse era rimasto a desinare da qualche amico.

«Avrebbe potuto avvertire…» osservò il principe.

E quantunque quell’osservazione fatta con tono severo, senza riguardo per lei che era sua moglie, ferisse Matilde, un’altra voce ora le diceva: «È vero! Ha ragione!…» Ella stessa, tornata a Firenze, in quell’asilo che le era parso di pace e di felicità, non aveva forse pensato così, quando aspettando lungamente, di giorno e di notte, il ritorno di Raimondo che la lasciava ormai quasi sempre sola, s’era sentita struggere d’ambascia e di paura, non sapendo che cosa gli fosse accaduto, temendo sempre, con l’inferma immaginazione, pericoli e disgrazie? Suo marito, invece, non voleva renderle conto della propria vita, quasi fosse ancora scapolo, quasi ella non avesse nessun diritto su lui, quasi la loro bambina non esistesse! Quella figlia che doveva ancora più stringerli insieme, che per lo meno doveva essere, nel dolore, il gran rifugio della madre, non solo pareva non dir nulla al cuore di Raimondo, ma non bastava neppure a confortare lei stessa, poiché ella non poteva più scusare come nei primi tempi la condotta sempre più sfrenata del marito, poiché non ignorava più che egli la trascurava per altre donne, e poiché questa scoperta le faceva a un tratto sentire il coltello della gelosia… Ancora una volta, le passate sofferenze le erano parse nulla, paragonate a queste altre. Ella lo amava più che mai d’amore, per gli stessi difetti che gli aveva perdonati, per tutto quel che le costava; e le nuove, più brusche, più aperte dichiarazioni con le quali egli respingeva le preghiere di lei e derideva le sue lacrime e le faceva quasi una colpa dell’amor suo, la stringevano a lui sempre più. No, sua figlia non le bastava, la creaturina non poteva consolarla, nessuno al mondo poteva consolarla, ella doveva perfino nascondere le proprie torture al padre, scrivergli che era contenta e felice, perché egli non venisse a chieder conto a Raimondo di quella condotta, perché tra quei due uomini non scoppiasse la guerra!… E ancora una volta s’era messa a sperare nel ritorno in Sicilia; la terribile casa degli Uzeda le parve ancora una volta un’oasi, non avendovi almeno conosciuto il sospetto roditore come un verme. Quando da Catania scrissero a Raimondo di venir presto a casa, quando la stessa madre moribonda lo chiamò, ella fece di tutto per indurlo a partire ma vedendolo sordo alla voce della morente, sordo alle stesse ragioni dell’interesse, restare a Firenze, l’angoscia di lei s’era esacerbata, tanto aveva dovuto credere potenti le ragioni, i legami che lo trattenevano… Giusto in quei giorni le sue viscere avevano avuto un nuovo fremito; ella era madre un’altra volta – fredda, cattiva madre, se non tripudiava a quella scoperta; ma come avrebbe potuto gioirne, quando il padre della sua creatura le cagionava tanta tristezza; quando, all’annunzio della nuova paternità, egli restava indifferente e quasi fastidito come per una nuova molestia?… Repentinamente, giunto il dispaccio che annunziava la morte della principessa, erano partiti, ed ella aveva tratto liberamente il respiro, chiedendo perdono al Signore della gioia che provava per causa d’una morte; ma l’implacata avversione dei parenti l’affliggeva ancora una volta come prova della insospettata malvagità umana; e adesso che Raimondo, senza rispetto per la memoria della madre, faceva ciarlare tutta la città con la sua vita sbrigliata, ella domandava tra sé, con lungo sconforto: «Quando, dove avrò pace?…»

Il desinare era già finito e Lucrezia, la principessa e Consalvo s’erano già levati di tavola, quando Raimondo rientrò. Mostrava di esser molto allegro e d’aver buon appetito. Alla domanda del duca, rispose che gli amici lo avevano trattenuto, che non s’era accorto dell’ora tarda.

«Del resto, qui desinate spaventevolmente presto! Nei paesi civili non si va a tavola prima dell’ave!»

Il principe non rispose. Alzandosi da tavola mentre il fratello divorava la minestra serbata in caldo, disse al duca:

«Zio, vuol venire un momento con me?» e lo condusse nel suo scrittoio.

Stava di nuovo sull’intonato, come se dovesse stipulare un trattato. Chiuso a chiave l’uscio della stanza precedente, offerta una poltrona allo zio, egli stesso in piedi, cominciò:

«Vostra Eccellenza mi scusi se la disturbo dopo tavola, ma dovendo parlare di affari importanti e non volendo portarle via il suo tempo…»

«Ma che!…» fece il duca, interrompendo il preambolo. «Tu non mi disturbi affatto… Parla, parla pure…» e accese un sigaro.

«Vostra Eccellenza può vedere ogni giorno,» riprese il principe, «che vita fa Raimondo, e come, invece di darmi una mano a sistemar gli affari della successione, pensi a divertirsi lasciando tutto sulle mie spalle. Parlargli d’interessi è inutile: o non mi dà retta, o non capisce… o finge di non capire.»

Il duca approvava con un cenno del capo. Tra sé, giudicava veramente un po’ strane quelle lagnanze del nipote, che non avrebbe dovuto esser poi tanto scontento se il fratello non s’impacciava nelle quistioni dell’eredità e lo lasciava libero di fare a sua posta. E se Raimondo mostrava poca premura di partecipare agli affari, il fratello maggiore non ne aveva mostrata pochissima di renderne conto al coerede ed ai legatari? Non era forse quella la prima volta che egli teneva a qualcuno della famiglia un discorso di quel genere?

«Ora,» continuava frattanto Giacomo, «io credo prima di tutto conveniente, nell’interesse comune, che la divisione si faccia al più presto; in secondo luogo bisogna che tutti sappiano ciò che ho saputo in questi giorni io stesso…»

«Che cosa?»

«Una bella cosa!» esclamò, con un sorriso amarissimo. E dopo una breve pausa, quasi a preparar l’animo dello zio alla dolorosa notizia: «L’eredità di nostra madre è piena di debiti…»

Il duca si cavò il sigaro di bocca dallo stupore.

«Vostra Eccellenza non crede? E chi avrebbe potuto credere una cosa simile? Dopo che abbiamo sentito tanto lodare, da tutti, il modo ammirabile tenuto dalla felice memoria nel mettere in piano la nostra casa? Invece, c’è un baratro!… Fin all’altr’ieri, non sospettavo ancora nulla. È vero che nei primi giorni dopo la disgrazia ebbi avviso di alcuni piccoli effetti sottoscritti da nostra madre, i possessori dei quali, durante la malattia, avevano pazientato oltre la scadenza; ma credevo naturalmente che fossero infime somme, di quei debitucci che tutti, in certi momenti, anche i più facoltosi, hanno bisogno di contrarre. Potevo sospettare che invece sono migliaia e migliaia d’onze, e che ogni giorno spunta un nuovo creditore, e che se continua di questo passo, il meglio dell’eredità se n’andrà in fumo?…»

«Ma il signor Marco…»

«Il signor Marco,» riprese il principe senza dar tempo allo zio di compiere l’obiezione, «ne sapeva meno di me ed è più sbalordito di Vostra Eccellenza. Vostra Eccellenza sa bene che carattere avesse la felice memoria, e come facesse in tutto di suo capo, e si nascondesse non solamente da coloro che dovevano essere i suoi naturali confidenti, ma da quegli stessi nei quali aveva riposto fiducia… Il signor Marco non ha notato nel suo scadenziere neppure la decima parte delle somme di cui adesso siamo debitori. Io non so che pasticci ci sieno sotto. S’immagini che esistono effetti scaduti da tre, da quattro anni, e anche da cinque!… Le confesserò che, sul principio, ho temuto d’esser vittima, come tutti gli altri, d’una truffa spaventevole, d’aver a fare con un’associazione di falsari. Ho dovuto ricredermi: le firme sono lì, autentiche. Debbo dunque supporre che il sistema di ricorrere al credito, di cui la felice memoria faceva una colpa tanto grave a nostro nonno, non le dispiacesse poi troppo… E il peggio è di non poter sapere fin dove si estende il marcio! E questa è la famosa amministrazione di cui abbiamo sentito tante lodi… Ma dice che dei morti non si deve parlare… e basta!… Ora io ho voluto informare Vostra Eccellenza, prima di tutto perché era questo il mio dovere; secondariamente perché Vostra Eccellenza ne tenga parola a Raimondo. Se questi debiti hanno da pagarsi, e purtroppo c’è poca speranza del contrario, a ciascuno bisogna imputarne la sua parte. Io vorrei anche pregare Vostra Eccellenza di avvisare gli altri, perché sappiano che i loro legati saranno anch’essi gravati in proporzione…»

Il duca ricominciò a scrollare il capo, ma con espressione diversa. I legatari lagnavansi d’aver avuto troppo poco; adesso bisognava dir loro che avevano anche meno!

«Perché non parli loro tu stesso?» suggerì al nipote.

«Perché?» rispose il principe, col leggiero fastidio di chi ode rivolgersi una domanda oziosa. «E non sa Vostra Eccellenza come sono, qui in casa? Chiusi, sospettosi, diffidenti? Crede Vostra Eccellenza che io non mi sia accorto di certi maneggi, che non abbia udito certe accuse sorde sorde?… Pare che l’abbiano tutti con me, specialmente quella testa pazza di Lucrezia!… Anche oggi non ha fatto una scena?…»

«No, no…» interruppe il duca; «al contrario, t’assicuro. Si lagnava anzi del contrario, che tu l’abbia con lei, che non le parli mai…»

«Io? E perché dovrei averla con lei?… Non ho parlato molto in questi giorni, è vero: ma come vuole Vostra Eccellenza che avessi voglia di parlare, con queste belle notizie? Perché dovrei averla con lei, o con altri? Io ho pensato sempre ed ho detto che la cosa principale, nelle famiglie, è la pace, l’unione, l’accordo!… È colpa mia se questo non fu possibile finché visse nostra madre? Vostra Eccellenza sa come fui trattato… meglio, molto meglio non parlarne!… Adesso, quantunque io sia stato spogliato, mi hanno udito esprimere una sola lagnanza? Ho detto primo di tutti: la volontà di nostra madre sarà legge! Invece, che cosa s’è visto? Mutrie a destra e a sinistra, Raimondo che non vuole occuparsi d’affari quasi per punirmi d’avergli preso mezza eredità…»

«No, per spassarsi…» corresse il duca.

«Lo zio don Blasco,» proseguì il principe, quasi non udendo l’osservazione, «che ho sempre trattato con rispetto e deferenza, come tutti gli altri, istigare contro di me i legatari…»

«Quello è un pazzo!…»

«O gli altri, dica Vostra Eccellenza, sono forse savi? Che vogliono, che pretendono? Di che m’accusano? Perché non vengono a dire le loro ragioni? Lucrezia ha parlato oggi con Vostra Eccellenza; sentiamo: che ha detto?…»

Quantunque deciso a non mantenere la promessa fatta qualche ora prima alla nipote, il duca, costretto dalla domanda, rispose, con un sorrisetto, per temperare quel che vi poteva essere di poco gradito nelle sue parole:

«Tu ti lagni d’esser stato spogliato; e invece spogliati si credono essi…»

Il principe rispose, con un sorriso più amaro del primo:

«Proprio, eh?… E come, perché?»

«Perché avrebbero avuto meno di quel che gli spetta… perché c’è la parte di vostro padre…»

Giacomo s’accigliò un momento, poi proruppe, con mal contenuta violenza:

«Allora perché accettano il testamento? Perché non chiedono i conti? Mi faranno un piacere! Mi renderanno un servizio!»

«Tanto meglio, allora…»

«Che cosa credono che sia l’eredità di nostra madre? Facciamo i conti, sissignore; facciamoli domani, facciamoli oggi! Anzi, perché non si rivolgono ai magistrati?…»

«Che c’entra questo?»

«M’intentino una lite! Facciamo ciarlare il paese, diamo questo bell’esempio d’amor fraterno! Raimondo s’unisca a loro; mi accusino di aver carpito il testamento, ah! ah! ah!… Sono capaci di pensarlo! Conosco i miei polli, non dubiti! Questo è il frutto dell’educazione impartita qui dentro, degli esempi che hanno dato, della diffidenza e del gesuitismo eretti a sistema…»

Era veramente concitato, parlava violentemente, aveva perduto la solenne compostezza dell’esordio. Il duca, buttato via il sigaro spento, riprendeva a scrollare il capo, quasi riconoscendo che alla fine fine non poteva dargli torto per quelle ultime argomentazioni. Però, levatosi dalla poltrona, messa una mano sulla spalla del nipote:

«Càlmati, andiamo!» esclamò. «Non esageriamo né da una parte né dall’altra. La roba è lì…»

«Nessuno la tocca!»

«Essi vogliono fare i conti, tu sei pronto a darli…»

«Ora, all’istante!…»

«E dunque l’accordo è immancabile. Farete questi conti, vedrete se la divisione di vostra madre è giusta o no; accomoderete tutto con le buone.»

«Ora, all’istante!» ripeteva il principe seguendo lo zio che s’avviava. «Perché non hanno parlato prima? Non sono già lo Spirito Santo per potere indovinare ciò che mulinano nelle teste bislacche!»

«C’è tempo! c’è tempo!…» ripeteva il duca, conciliante, senza far notare al nipote la contraddizione in cui cadeva, avendo prima asserito di saper dei complotti. «Non la pigliare così calda! Parlerò con Raimondo, poi con gli altri; la roba è lì; vedrete che non ci saranno quistioni… A proposito,» esclamò, giunto all’uscio e voltandosi indietro, «che cosa è l’affare della badìa?»

«Qual affare?…» rispose il principe, stupito.

«Il legato delle messe… Le mille onze che non vuoi dare ad Angiolina…»

«Le mille onze? Io non voglio darle?…» esclamò allora Giacomo. «Ma non vede Vostra Eccellenza come sono tutti d’una razza, falsi e bugiardi? Io non le voglio dare? mentre invece il legato di nostra madre è nullo, perché importa l’istituzione d’un beneficio, e le istituzioni di beneficio non reggono quando manca l’approvazione sovrana?…»

Nella Sala Gialla don Blasco rodevasi le unghie, sapendo quella bestia del fratello in confabulazione col nipote e non potendo udire i loro discorsi. Dalla contrarietà, stronfiava, spasseggiava in lungo e in largo, non udiva neppure quel che dicevano intorno a lui.

Era arrivata la cugina Graziella, la quale cicalava con la principessa, con Lucrezia e con donna Ferdinanda; meno con Matilde, per mostrar di partecipare ai sentimenti degli Uzeda verso l’intrusa. Aveva creduto di poter entrare anche lei in casa Francalanza, la cugina; di prendersi anzi il primo posto, come moglie del principe Giacomo, ma l’opposizione della zia Teresa aveva trionfato di lei e del giovane. Invece che «principessa», s’era chiamata semplicemente «signora Carvano», ma quantunque il cugino, presa la moglie che la madre gli destinava, si fosse posto il cuore in pace e paresse perfino aver dimenticato che fra loro due c’erano state un tempo parole tenere, ella aveva continuato a fare all’amore, se non con lui, con la sua casa. C’era venuta assiduamente, aveva stretto amicizia con la principessa Margherita e indotto il marito a fare anche lui la corte agli Uzeda, e tenuto a battesimo Teresina e dimostrato in ogni modo e in tutte le occasioni che le antiche fallite speranze non potevano intepidire in lei l’affezione verso tutti i cugini. Durante la malattia e dopo la morte di donna Teresa, specialmente, donna Graziella era quasi diventata una persona della famiglia; tutti i giorni e tutte le sere a prender notizie, a prodigar conforti, a suggerir consigli, a rendersi utile con le parole e con le opere. La principessa non solo non aveva ragione di esserne gelosa, poiché Giacomo dimostrava tanta indifferenza verso la cugina che certe volte neppure le rivolgeva la parola e, smesso il tu, le dava del freddo voi; ma era perfino incapace di provare gelosia o qualunque altro sentimento per lei come per ogni persona, tanto la naturale indolenza e il bisogno d’isolamento e la soggezione in cui la teneva il marito la rendevano indifferente a tutto ed a tutti fuorché ai propri figli.

Quel pomeriggio appunto, dopo tavola, la balia era venuta a dirle che la bambina tossicchiava un poco; cosa da nulla, certo; ma ella se n’era inquietata, e la cugina, trovata quella dispiacevole novità, faceva sfoggio della sua scienza medica, consigliando la somministrazione di polveri e di decotti alla figlioccia, assicurando però che il male non era grave, sgridando nondimeno la balia che aveva dovuto lasciare il balcone aperto.

Raimondo, che d’ordinario scappava via appena finito di prendere un boccone, pareva volesse restare in casa, per suo piacere; e Matilde, tutta riconfortata, dimenticata a un tratto la tristezza di un’ora innanzi, lo seguiva con lo sguardo ridente. Era così fatta che una parola, un nulla la turbavano e la rassicuravano: e chiedeva tanto poco per essere felice! Se egli fosse stato sempre così, se avesse dedicato una parte del suo tempo alla famiglia, se avesse prodigato alla sua bambina le carezze che quella sera faceva al principino!… Questi, nel gruppo degli uomini, ripeteva le declinazioni al cavaliere don Eugenio, il quale s’era costituito suo maestro, tra gli applausi dei lavapiatti ad ogni risposta azzeccata; ma cominciando a confondersi, ad imbrogliarsi:

«E non lo tormentare più, povero bambino!» esclamò donna Ferdinanda. «Qui, con la zia! Ti rompono la testa con tutte queste storie, eh? Rispondi loro: “Debbo forse fare il mastro di penna?”»

Don Eugenio, udendo disprezzare le belle lettere, rispose:

«Bisogna studiare, invece!… L’uomo tanto più vale quanto più sa! E poi bisogna che tu faccia onore al nome che porti; tra i tuoi antenati c’è don Ferrante Uzeda, gloria siciliana!»

«Don Ferrante?» esclamò la zitellona. «Che fece don Ferrante?»

«Come, che fece? Tradusse Ovidio dal latino, commentò Plutarco, illustrò le antichità patrie: templi, monete, medaglie…»

«Aaah!… Aaah!…» Donna Ferdinanda era scoppiata in una risata che non finiva più, che si risolveva in spruzzi di saliva tutto in giro. Il cavaliere rimase a bocca aperta, don Cono non sapeva che viso fare.

«Aaah!… Aaah!…» continuava a ridere donna Ferdinanda. «Don Ferrante! Aaah!… Don Ferrante sai che fece?…» spiegò finalmente, rivolta al nipotino. «Teneva quattro mastri di penna, pagati a ragione di due tarì il giorno, i quali lavoravano per lui; quando essi avevano scritto i libri, don Ferrante ci faceva stampare su il proprio nome!… Aaah! Che sapesse leggere, ci ho i miei bravi dubbi!…»

Allora s’impegnò una gran discussione. Don Cono e il cavaliere sostenevano, a vicenda, che se l’antenato non aveva scritto materialmente le sue opere, ne aveva però dettato il contenuto; tanto è vero che le accademie di Palermo, Napoli e Roma lo avevano annoverato tra i loro soci; ma la zitellona interrompeva: «Fatemi il piacere!…» intanto che la cugina, scrollando il capo, affermava che, veramente, gli studi non erano stati il forte dell’antica nobiltà.

«Il forte?» esclamava la zitellona. «Ma fino ai miei tempi era vergogna imparare a leggere e scrivere! Studiava chi doveva farsi prete! Nostra madre non sapeva fare la propria firma…»

«Era forse una bella cosa?» obiettò don Eugenio.

«Non mi parlare anche tu del progresso!» saltò su donna Ferdinanda. «Il progresso importa che un ragazzo debba rompersi la testa sui libri come un mastro notaio! Ai miei tempi, i giovanotti imparavano la scherma, andavano a cavallo e a caccia, come avevano fatto i loro padri e i loro nonni!…»

E mentre don Mariano approvava, con un cenno del capo, la zitellona si mise a tesser l’elogio di suo nonno, il principe Consalvo vi, il più compito cavaliere dei suoi tempi. Aveva avuto una così grande passione pei cavalli, che, d’inverno, ogni anno, si faceva costruire un passaggio coperto in mezzo alla pubblica via, affinché i suoi nobili animali restassero sempre all’asciutto.

«E le altre persone potevano passarci?» domandò il principino.

«Potevano passarci quando non era l’ora della passeggiata del principe,» rispose donna Ferdinanda. «Se usciva lui, tutti si tiravano da parte!… Una volta che il capitano di giustizia con la carrozza propria ardì passar innanzi alla sua, sai che fece mio nonno? Lo aspettò al ritorno, ordinò al cocchiere di buttargli addosso i cavalli, gli fracassò il legno e gli pestò le costole!… Si facevano rispettare i signori, a quei tempi… non come ora, che dànno ragione agli scalzacani!…»

La botta era tirata al duca che rientrava in quel momento nella Sala Gialla insieme col principe. Don Blasco, interrotta finalmente la sua corsa, piantò gli occhi addosso al fratello e al nipote.

«Che diavolo hai fatto?» disse al principe.

«Nulla… avevo certe notizie da domandare allo zio…»

Sopravvennero in quel momento Chiara e il marchese. Lucrezia, ancora imbronciata, salutò freddamente la sorella; ma costei non s’accorgeva di nulla, nervosa com’era, tutta piena d’una secreta idea.

«Margherita,» sussurrò alla cognata, in confidenza, «questa volta credo sia per davvero!…» Erano quelli i sintomi? Poteva ingannarsi? Tante volte aveva sperato d’apporsi e festeggiato invano l’avvenimento, che adesso non ardiva più annunziare apertamente la gravidanza se non prima la vedeva confermata. Poi, lasciata la principessa, prese a parte Matilde e ricominciò a dirle: «La levatrice n’è certa! Tu che cosa provi?… Come ti sei accorta?…»

Matilde non l’udiva. Adesso che don Blasco non misurava più la sala da un’estremità all’altra, Raimondo aveva ricominciato l’armeggio dello zio monaco, non stava fermo un momento, chiedeva continuamente che ora fosse. Voleva andar fuori? Aspettava qualcuno? Ella era inquieta della sua inquietudine… Frattanto arrivavano nuove visite: la duchessa Radalì e il principe di Roccasciano, donna Isabella Fersa col marito. L’entrata di quest’ultima mise sottosopra la società: il principe, che ordinariamente non era molto galante con le signore, le andò incontro fino nell’anticamera; Raimondo anche lui l’ossequiò tra i primi. Ella portava, come sempre, un abito nuovo fiammante che Lucrezia esaminava ora con la coda dell’occhio, e la principessa, Chiara, tutte le altre, giudicavano a una voce elegantissimo.

«Manifattura di Firenze, è vero, donn’Isabella?» domandò Raimondo.

«Si vede che vostro marito se ne intende, contessa!» rispose ella indirettamente, volgendosi a Matilde.

Don Mariano parlava della parata della Regina, di cui quel giorno era il natalizio; Fersa del colera, della quarantena di dieci giorni decretata allora allora contro le provenienze da Malta, della fiera di Noto rimandata, del pericolo che correva un’altra volta la Sicilia; e il vocione di don Blasco rispondeva:

«Questa è l’impresa di Crimea! Il regalo dei fratelli piemontesi, capite?»

Il duca, quasi non comprendesse che l’allusione era diretta a lui, ripigliava il discorso della guerra interrotto a tavola, diceva che Cavour l’aveva sbagliata. La via era un’altra, raccogliersi, restarsene tranquilli, curare le piaghe del ‘48. Con lo stato indebitato fin agli occhi, come poteva pensare a fare nuovi debiti? «È un principio d’economia politica…» e qui, col tono d’autorità portato da Palermo, un discorsone che faceva inghiottire botti di veleno a don Blasco, lardellato com’era di citazioni giornalistiche e parlamentari, infettato da teorie liberalesche. Il principe, udendo Fersa esprimere ancora una grande paura del colera, scrollava il capo:

«Se a Napoli hanno ordinato di spargerlo un’altra volta…»

Come credeva alla iettatura, era incrollabile nell’opinione che il colera fosse un malefizio, un espediente di governo inteso a sfollare le popolazioni, a incutere un salutare timore nei superstiti. Dinanzi allo zio duca, sapendolo dell’opinione contraria, più «progressista», cioè che la peste venisse per correnti atmosferiche, taceva prudentemente; ma con Fersa si sbottonava, derideva le quarantene e tutti gli altri amminnicoli fatti per darla a bere ai gonzi.

«Non date retta a queste malinconie!» diceva frattanto Raimondo a donn’Isabella, a fianco della quale s’era seduto. «Andrete alla serata di gala?»

«Sì, conte; abbiamo il palco.»

«Che rappresentano?» domandò la principessa.

«L’Elvira di Holbein e Un’eredità in Corsica di Dumanoir. Peccato che voi non possiate sentire Domeniconi, principessa. Che artista! E che compagnia!»

Anche don Eugenio rammaricavasi di non poter recarsi al Comunale, per far sapere che, in qualità di Gentiluomo di Camera, era stato invitato nei palchi dell’Intendente. Ma egli aveva da concludere un affare, quella sera: la vendita di certe terrecotte «importantissime», sulle quali avrebbe fatto un bel guadagno: aspettava anzi per questo il principe di Roccasciano, anche egli intenditore ed amatore di roba antica.

«S’ha un bel dire, quindicimila uomini,» perorava il duca da canto suo. «E se la guerra dura un altro anno? Altri due, altri tre anni? Bisognerà mandar nuove truppe, far nuove spese, accrescere il deficit…»

«A Messina aspettano l’arciduca Massimiliano.»

«Verrà anche da noi?»

Raimondo, a quella domanda di don Mariano, saltò su come morso da una vespa:

«E che volete che venga a fare? Per vedere l’elefante di piazza del Duomo? Voialtri vi siete fitto in capo che questa sia una città, e non volete capire che invece è un miserabile paesuccio ignorato nel resto del mondo. Donn’Isabella, dite voi: quando mai l’avete udito nominare, fuori?…»

«È vero, è vero!…»

Ella agitava con moto graziosamente indolente il ventaglio di madreperla e merletti, dando ragione a Raimondo contro il paese nativo; e la contessa Matilde non sapeva perché la vista di quella donna, le sue parole, i suoi gesti, le ispirassero una secreta antipatia. Forse perché l’udiva approvare il sentimento di Raimondo che ella perdonava al marito ma biasimava negli altri? Forse perché scorgeva in tutta la persona di lei, nella ricchezza immodesta degli abiti, nell’eleganza degli atteggiamenti, qualcosa di studiato e d’infinto? Forse perché tutti gli uomini le si mettevano intorno, perché ella li guardava in un certo modo, troppo ardito, quasi provocante? O perché, una volta al suo fianco, Raimondo non si moveva più, pareva non volesse più andar fuori, non aspettar più nessuno?…

Ingolfato nel suo tema prediletto, egli parlava adesso a vapore, enumerando tutti i vantaggi della vita nelle grandi città, interrompendosi tratto tratto per domandare a donn’Isabella: «È vero o no?» oppure: «Parlate voi che ci siete stata!…» ripigliando a descrivere la grande società, gli spettacoli sontuosi, i piaceri ricchi e signorili. E donna Isabella a chinare il capo, ad aggiungere argomenti:

«Quando vedremo, per esempio, le corse fra noi?»

Giusto in quel momento, don Giacinto entrò nella sala. Era così turbato in viso e si capiva così chiaramente che portava una cattiva notizia, che ognuno tacque.

«Non sapete?»

«Che cosa?… Parlate!…»

«Il colera è scoppiato a Siracusa!…»

Tutti lo circondarono:

«Come! Chi ve l’ha detto?»

«Mezz’ora fa, alla farmacia Dimenza… Notizia sicura, viene dall’Intendenza!… Colera di quello buono: fulminante!…»

Subito, come se l’annunziatore lo portasse addosso, la conversazione si sciolse in mezzo ai commenti spaventati, alle esclamazioni dolenti: Raimondo accompagnò giù alla carrozza donna Isabella dandole il braccio; don Blasco vociava, in mezzo alla scala, sotto il naso del duca che andava a verificar la cosa:

«Il regalo dei fratelli!… Ah, Radetzky, dove sei?… Ah, un altro Quarantanove!…»

I Vicere

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