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Parte prima
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ОглавлениеOgni altro interesse cedé come per incanto dinanzi all’universale inquietudine per la salute pubblica, giacché della notizia portata da don Giacinto, sulle prime smentita, poi confermata, non fu possibile più dubitare quando, di lì a qualche giorno, non si parlò più di casi sospetti a Siracusa, ma del divampare del morbo a Noto. Il duca, deliberato di tornarsene a Palermo prima che le cose incalzassero e la via fosse chiusa, resisté ostinatamente agli inviti del principe, il quale s’apparecchiava a partire pel Belvedere all’annunzio del primo caso in città. L’anno innanzi, come nel ‘37, gli Uzeda erano scappati alla loro villa sulle pendici della montagna, e poiché il colera non arrivava mai lassù, erano certi di liberarsene. Il principe, smessa a un tratto l’acredine, riparlava d’accordo e di unione, voleva tutti con lui al sicuro, tutti gli zii, tutti i fratelli. Quantunque non fosse tempo di trattar d’affari, nondimeno, per dimostrare al nipote d’aver preso a cuore i suoi interessi, il duca, prima di partire, riferì a Raimondo il discorso delle cambiali e lo esortò a mettersi d’accordo col fratello. Raimondo lo ascoltò distrattamente, e gli rispose quasi infastidito:
«Va bene, va bene; poi se ne parlerà…»
Anch’egli s’era mutato, ma al contrario di Giacomo, in peggio; era diventato nervoso, irascibile, verboso e di buon umore solo quando donna Isabella veniva al palazzo. I Fersa non sapevano ancora dove fuggire il colera: il principe consigliava loro di prendere in affitto una casa al Belvedere, per esser vicini; e a donna Isabella sorrideva molto quel partito, benché sua suocera preferisse rifugiarsi a Leonforte come l’altr’anno.
«Voi dove andrete?» domandava a Raimondo; e il giovane che le si trovava sempre a fianco:
«Dove andrete voi stessa!»
Ella chinava gli occhi, con una severa espressione di biasimo, quasi offesa.
«E vostra moglie? Vostra figlia?»
«Parliamo d’altro!»
Nonostante l’allarme cagionato dalla pestilenza, l’intrinsichezza delle due famiglie si strinse ancora più in quei giorni. Fersa, che era stato sempre lieto e superbo di venire al palazzo Francalanza, adesso godeva nell’esservi ricevuto con segni di particolare gradimento; non solo Raimondo, ma anche e forse più Giacomo dimostrava molto piacere in compagnia di lui e di donna Isabella: quando sua moglie andò fuori la prima volta, dopo il lutto, egli volle che facesse loro una visita; la contessa, per desiderio del marito, accompagnò la cognata.
Da sola, Matilde forse non sarebbe andata in casa di quella donna. Non voleva chiamare gelosia il sentimento che le ispirava: se Raimondo, galante con tutte, stava attorno a costei che tutti gli uomini accerchiavano, non era già meraviglia; ella stessa non ne riceveva continue proteste di calda amicizia?… Pure, tutte le volte che donna Isabella l’abbracciava e la baciava, ella doveva farsi forza per non sottrarsi a quella dimostrazione d’affetto. Non sapeva bene rendersi conto della repulsione quasi istintiva che provava ogni giorno più forte; quando tentava di spiegarla a se stessa, l’attribuiva più che ad altro alla radicale diversità del loro carattere; alla leggerezza, all’affettazione, alla mancanza di schiettezza che le pareva scorgere in lei. Non l’aveva anch’ella udita lagnarsi, a mezze parole, con allusioni velate, dei parenti del marito e dello stesso marito; mentre ella vedeva bene, quasi invidiandola, la devozione portatale da Fersa, e udiva ripetere che la suocera la trattava meglio d’una figliuola? Andata a farle visita in compagnia della principessa, non poté accertarsene coi propri occhi?
Donna Mara Fersa era una donna un po’ all’antica, senza ombra d’istruzione, poco fine d’educazione anche; ma molto accorta, e semplice, alla mano come una buona massaia. Aveva sperato d’ammogliare il figliuolo a modo suo; ma questi, andato una volta a Palermo e vista l’Isabella Pinto, orfana di padre e di madre, l’aveva chiesta su due piedi, innamoratissimo, allo zio materno dal quale era stata educata. Nobilissima, la Pinto; ma senza dote; aveva però ricevuto un’educazione oltremodo signorile in casa dello zio facoltoso. I Fersa, invece, benché ammessi tra i signori, nascevano mediocremente; donna Ferdinanda, estimatrice ed amica di donna Isabella, li chiamava Farsa – farsa tutta da ridere —; ma possedevano gran quantità di quattrini. Donna Mara, sulle prime, aveva tentato di opporsi a quel matrimonio; ma poiché suo figlio era cotto dell’Isabella, e questa pareva più cotta di lui, aveva finalmente consentito. Così la nuora palermitana, elegante, istruita e nobile, venne a mettere nella sua casa una rivoluzione, che ella sopportò con molta buona grazia, per amore del figlio, comprendendo di non potersi opporre ai gusti ed anche alle fantasie dei giovani. Donna Isabella, chiamandola «mamma», dimostrandole il rispetto che le doveva, pareva scontenta di lei, vergognosa della sua ignoranza e della sua semplicità. Era una cosa tanto sottile, che Matilde quasi incolpavasi di cattiveria, notandola: una specie di condiscendente compatimento verso le opinioni della suocera come per quelle di un bambino o d’un inferiore; una impercettibile esagerazione d’obbedienza, una cert’aria di sacrifizio che pareva volesse ispirare l’altrui compianto, ma che riusciva molto antipatica alla contessa.
Per altro, questa era sicura di non dover sopportare troppo a lungo la compagnia di lei. La necessità di sistemare gl’interessi poteva solo trattenere Raimondo in Sicilia, ma forse egli avrebbe affrettata la partenza per fuggire il colera. Già alle prime voci di pestilenza, inquieta per la lontananza del padre e della bambina, ella gli aveva domandato che volesse fare; ma suo marito non si era ancora deciso. L’anno innanzi, in Toscana, udendo le notizie delle stragi di Sicilia, del pazzo terrore che regnava nell’isola, dello scioglimento d’ogni civile consorzio, aveva espresso la propria soddisfazione per essere lontano dalla «selvaggia» terra natale, dove, diceva, non lo avrebbero sicuramente capitato in tempo d’epidemia; pertanto ella era quasi sicura che sarebbero presto passati nel continente, prendendo con loro la bambina per via. Raimondo invece pareva esitante; se la pigliava, sì, con la cattiva stella che lo aveva fatto cogliere dalla pestilenza nella trappola isolana, ma diceva di non potersi mettere in viaggio adesso che il male era scoppiato, anche per riguardo della gravidanza di lei. Frattanto il barone le scriveva da Milazzo di raggiungerlo lassù, poiché il colera veniva dal Mezzogiorno, e di far presto a lasciar Catania, di non dar tempo alla gente spaventata di sbarrar tutte le strade. Così, secondo che le notizie incalzavano, che le lettere del padre le facevano maggior premura, che il pericolo di restar divisa dalla sua bambina diveniva più grave, il cuore di lei si chiudeva, dal terrore, dall’ambascia, quasi ella fosse sul punto di perdere per sempre i suoi cari; allora esortava più caldamente Raimondo a prendere una decisione qualunque, ad andar subito via:
«Andiamo via!… Andiamo per adesso a casa mia! Non voglio lasciar sola Teresina… Saremo anche più lontani dal focolaio della peste…»
«Ho da chiudermi in un paesuccio di mare, in tempo di colera? Per crepare come un cane? Bisognerebbe che fossi impazzito! Scrivi piuttosto a tuo padre e a tua sorella di portar qui la bambina.»
Il barone invece tempestò, di risposta, che per niente avrebbe commesso quella sciocchezza, giacché il colera era alle porte di Catania, e ingiunse alla figlia di non perder tempo e anche di lasciar solo Raimondo se costui rifiutavasi di accompagnarla… Allora ella non seppe più che fare né chi ascoltare, smaniando all’idea di restar divisa dalla figlia e dal padre, non tollerando neppure d’abbandonare Raimondo, poiché non poteva vivere lontana né dall’uno né dagli altri, in quella triste stagione. Il giorno che il duca, fatte le valige, partì per Palermo, ella si vide perduta…
Fino all’ultimo momento il principe aveva insistito presso lo zio affinché venisse con lui al Belvedere; il duca aveva continuato a rifiutare, adducendo gli affari che lo chiamavano alla capitale, la maggior sicurezza che c’era lì.
«Non pensate a me,» disse ai nipoti; «io non correrò pericolo, mettetevi piuttosto in sicuro voialtri…»
«Vostra Eccellenza stia tranquillo anche per me; ho tutto pronto per andar via al primo allarme,» rispose Giacomo. Rivolto al fratello, al quale aveva già fatto un primo invito, ripeté, in presenza di Matilde:
«Se volete venire anche voi, mi farete piacere.»
Raimondo non rispose. Voleva dunque davvero restar diviso da sua figlia? Poteva così tranquillamente viverne lontano, nei terribili giorni che si preparavano? Matilde piangeva, scongiurandolo di non far questa cosa; egli le rispose, seccato:
«Non so ancora ciò che farò. A Milazzo non vado di sicuro.»
«Lasceremo dunque sola quella creatura? Se impediranno il transito, se non potremo più vederla?»
«Prima di tutto tua figlia non è abbandonata in mezzo a una via, ma sta col nonno e la zia. Poi se quella testa dura di tuo padre m’avesse ascoltato, a quest’ora l’avrebbe portata qui, e saremmo pronti ad andarcene tutti insieme al Belvedere, dove non c’è neppure l’ombra del pericolo… Insomma a Milazzo non vengo; già si parla di casi sospetti a Messina. Vattene sola, se vuoi.»
E tutti gli Uzeda, quasi godendo dell’ambascia di lei, quasi per non lasciarla scappare dalle loro unghie, approvavano, dicevano che oramai ciascuno doveva restar dov’era. E suo padre la rimproverava acremente di ostinazione e d’egoismo, mentre ella credeva d’impazzire, sognando tutte le notti sogni spaventosi di lente agonie, di separazioni senza ritorno, di spietate torture; piangendo come morta la sua bambina, l’altra creatura che s’agitava nelle sue viscere; vedendo suo padre e Raimondo avventarsi l’uno contro l’altro… E un giorno terribile come una notte d’incubo il principe venne a dire che il primo caso s’era manifestato in città, che le strade si chiudevano, che bisognava subito partire pel Belvedere, dove anche i Fersa sarebbero venuti…
La villa Francalanza, al Belvedere, era tuttavia nello stato in cui trovavasi tre mesi addietro, al momento della morte della principessa. Là si riunirono, con la rispettiva servitù, la famiglia del principe ed i suoi ospiti, cioè Chiara e il marchese, donna Ferdinanda, il cavaliere don Eugenio, Raimondo e sua moglie. Ferdinando non aveva voluto sentirne di lasciar le Ghiande: c’era rimasto pel colera dell’altr’anno, voleva restarci anche per quest’altro, dichiarando che nessun luogo offriva maggiori garanzie d’immunità. Don Blasco e il Priore don Lodovico erano già scappati, con tutti i monaci di San Nicola, a Nicolosi.
La villa degli Uzeda era tanto grande da capire un reggimento di soldati, non che gl’invitati del principe; ma come il palazzo in città, a furia di modificazioni e di successivi riadattamenti, pareva composta di parecchie fette di fabbriche accozzate a casaccio: non c’erano due finestre dello stesso disegno né due facciate dello stesso colore; la distribuzione interna pareva l’opera d’un pazzo, tante volte era stata mutata. Altrettanto avevano fatto dell’annesso podere. Un tempo, sotto il principe Giacomo xiii, questo era quasi tutto un giardino veramente signorile; amante dei fiori, il principe aveva sostenuto per essi una delle tante spese folli che erano state causa della sua rovina: aveva fatto scavare un pozzo per trovare l’acqua, a traverso le secolari lave del Mongibello, fino alla profondità di cento canne; lavoro tutto di braccia, di colpi di piccone, durato qualcosa come tre anni. Trovata finalmente l’acqua, che un bindolo tirava su, egli giudicò che la coltura della vigna poteva vantaggiosamente esser sostituita da quella degli agrumi: quindi sradicò, in quel tratto del podere non ancora trasformato in giardino, tutte quante le viti per piantare aranci e limoni. Così le spese sostenute da suo nonno per costruire il palmento e la cantina andarono perdute. Ma, venuta donna Teresa, ogni cosa fu messa nuovamente sossopra. I fiori essendo «robe che non si mangia», rose e gelsomini furono divelti, i pilastri ridotti a mattoni, la serra trasformata in istalla pei muli; e il vino avendo maggior prezzo degli agrumi, i bei piedi d’aranci e di limoni, tirati su con tanta fatica, furono sacrificati alle viti. Restò appena quattro palmi di giardino, tra il cancello e la casa, e tanti piedi d’agrumi quanti bastavano a far la limonata d’estate. Così tutte le somme buttate nel pozzo furon buttate nel pozzo davvero.
Ora, appena giunto, il principe ricominciava anche qui l’opera innovatrice iniziata al palazzo. Per verità, egli non toccava il podere, giudicando, come la madre, che le rose tisicuzze arrampicate sull’inferriata e sui muri della villa bastassero pel godimento della vista e dell’olfatto, e che i cavoli, le lattughe e le cipolle stessero molto meglio nelle antiche aiuole fiorite: ma, chiamati i manovali, ordinò che buttassero giù muri e dividessero stanze e condannassero porte e forassero nuove finestre. Era d’eccellente umore e trattava benissimo i suoi ospiti; faceva una corte devota alla zia Ferdinanda, usava molte cortesie al fratello ed alle sorelle, al cognato marchese ed alla stessa cognata Matilde; naturalmente, considerata la stagione, nessuno parlava d’affari. Molto più contenta di lui era Lucrezia, poiché i Giulente che in città non avevano casa propria, possedevano una delle più graziose ville del Belvedere, e venuto lassù con la famiglia alle prime voci del colera, Benedetto passava e spassava ad ogni ora del giorno dinanzi al cancello dei Francalanza. Contentone era anche il marchese, e Chiara non capiva nella pelle, poiché i sintomi della gravidanza si confermavano; marito e moglie s’angustiavano soltanto per non poter preparare il corredo del nascituro. La stessa donna Ferdinanda si mostrava più accostabile, addomesticata dall’ospitalità che il principe le accordava, contenta di poter risparmiare la spesa dell’affitto d’un villino, non quella del vitto, perché ciascuno degli ospiti ci stava a suo costo. Ma il più contento di tutti era il principino; mattina e sera nella vigna, nel giardinetto, a zappare, a trasportar terra, a costruire case di creta; poi, quand’era stanco di queste occupazioni, su a cavallo d’un asino o d’una mula a scorrazzare di qua e di là, e se il cameriere, o il fattore o le altre sue guide non lo lasciavano andare dove gli talentava, dava all’uomo le frustate che sarebbero toccate alla bestia. Solamente la vista del padre l’infrenava, perché il principe lo aveva educato a tremare a un’occhiata; ma tutti gli altri parenti lo lasciavano fare. La principessa lo contentava ad un cenno; la zia Ferdinanda contribuiva anche a viziarlo, come erede del principato; ma don Eugenio lo contristava, adesso, peggio che in città con le sue lezioni. Il ragazzo, quando stava attento, comprendeva tutto, però il difficile era appunto che stesse tranquillo. «Studia adesso, se no tuo padre ti metterà in collegio!» ammoniva lo zio; e infatti il principe aveva più d’una volta espresso l’intenzione di mandar via di casa il figliuolo, di metterlo o al collegio Cutelli fondato per educare la nobiltà «all’uso di Spagna», oppure al Noviziato dei Benedettini, dove i giovani che non volevano pronunziare i voti ricevevano un’educazione non meno nobile. Consalvo non voleva andare né all’uno né all’altro posto, e la minaccia era tale che egli si decideva a fare asteggiature e a recitare le declinazioni; in premio, don Eugenio lo conduceva con sé per le campagne di Mompileri, dove, pochi giorni dopo il suo arrivo al Belvedere, aveva cominciato a fare certe gite misteriose.
Circa due secoli prima, nel 1669, le lave dell’Etna avevano coperto, da quelle parti, un villaggetto chiamato Massa Annunziata del quale, più tardi, s’eran per caso trovate alcune vestigia. Ora don Eugenio, che dal commercio dei cocci non ricavava molti guadagni, aveva concepito, pensando sempre a un gran colpo capace di arricchirlo, il disegno d’iniziare una serie di scavi come quelli visti ad Ercolano e a Pompei, per discoprire il sepolto paesuccio ed arricchirsi con le monete e gli oggetti che avrebbe sicuramente rinvenuti. Il secreto era necessario, affinché altri non gli portasse via l’idea; perciò, solo o accompagnato dal ragazzo, che andava per conto suo a caccia di lucertole e di farfalle, il cavaliere gironzava nei campi di ginestre e di fichi d’India sotto Mompileri, con antichi libri in mano, orientandosi per mezzo dei campanili di Nicolosi e di Torre del Grifo, studiando la posizione, pigliando misure, a rischio di farsi accoppare come untore dai mulattieri e dai pecorai che lo scorgevano in quelle attitudini sospette. Ma non bastava mantenere il secreto sull’idea; bisognava anche spender molti quattrini per tradurla in atto. Un giorno perciò don Eugenio chiamò il principe in disparte e gli comunicò con gran mistero il suo disegno, chiedendogli di anticipargli le spese degli scavi.
«Vostra Eccellenza scherza, o dice davvero? Scavar la montagna, per trovar che cosa? Scodelle dell’altr’ieri e qualche pezzo di rame? Bisognerebbe esser matti!…»
Indirettamente, il principe dava del matto a lui stesso con quella risposta che non si sarebbe mai sognato di rivolgere al duca o a donna Ferdinanda. Ma don Eugenio, in famiglia, godeva poca considerazione per le stramberie commesse a Napoli e soprattutto per l’assoluta mancanza di quattrini… Il cavaliere non riparlò più della sua idea. Mutata via, deliberò di scrivere al governo perché facesse gli scavi a spese dell’erario e con la speranza che affidassero a lui la direzione. Il principino respirò liberamente, perché le lezioni furono interrotte: appena finito di desinare, don Eugenio si chiudeva in camera sua, a lavorare alla memoria, e non si vedeva più per tutta la sera, mentre gli altri chiacchieravano o giocavano. A poco a poco una società numerosa s’era venuta raccogliendo in casa del principe: tutti i signori rifugiati al Belvedere, tutti i personaggi ragguardevoli del luogo venivano alla villa Francalanza, dove, con un trattamento d’acqua e anice, il principe si faceva fare la corte. C’era mezza Catania, al Belvedere, e gli Uzeda, che in città erano molto severi, facevano adesso larghe concessioni, atteso il luogo e la stagione, ricevendo gente di minuscola od anche di nessuna nobiltà, tutti coloro che donna Ferdinanda derideva o disprezzava, dei quali storpiava i nomi o ai quali assegnava bislacche armi parlanti: gli Scilocca, che chiamava «Si loca»; i Maurigno che si facevano dare del «cavaliere» e che la zitellona chiamava «cavalieri a piedi»; i Mongiolino che, discendendo da fornaciai arricchiti, dovevano portare nello scudo tegoli e mattoni. Solo i Giulente, di quella casta dubbia, non venivano alla villa, per via del figliuolo; ma il principe, quando incontrava Benedetto, o suo padre, o suo zio, al casino pubblico, rivolgeva loro la parola molto affabilmente; e il giovane, che non aveva interrotto la corrispondenza con Lucrezia, le riferiva tutto contento quelle amabili dimostrazioni. Ma la gioia invece di scemare accresceva l’abituale distrazione della ragazza: ella chiedeva notizie ai vedovi della salute delle mogli defunte, scambiava le persone, non rammentava nulla; una sera fece ridere tutta la società domandando allo speziale del Belvedere che aveva una sorella in convento: «E vostra sorella monaca con chi è maritata?…»
Il tema obbligato di tutti i discorsi erano naturalmente le notizie della città dove il colera si diffondeva, lentamente però, senza divampare con la forza spaventosa dell’anno innanzi. Poi ciascuno dava notizie dei parenti e degli amici rifugiati qua e là pel Bosco etneo: la cugina Graziella, che era alla Zafferana, mandava biglietti o ambasciate coi carrettieri quasi tutti i giorni, per sapere come stavano i cugini, e dir loro come stava ella stessa e il marito, e salutarli caramente, e mandar regali di frutta e di vino; la duchessa Radalì Uzeda, dalla Tardaria, non scriveva, perché il duca, nel trambusto dell’improvvisa scappata, era diventato furioso. La pazzia, nel ramo dei Radalì, era una malattia di famiglia; il duca aveva dato nelle prime smanie tre anni innanzi, alla nascita del suo secondo figlio Giovannino. E la duchessa, fin da quel tempo, vistosi cadere sulle spalle il peso della casa, aveva rinunziato al mondo per tener luogo di padre ai figliuoli. Li voleva bene entrambi, ma le sue preferenze erano pel duchino Michele: non contenta dell’istituzione del maiorasco, lavorava a migliorare le proprietà, faceva una vita di economie e di sacrifizi per lasciarlo ancora più ricco. Ella non dava ombra a nessuno degli Uzeda; la stessa donna Ferdinanda, che si credeva la sola testa forte, l’approvava. Al Belvedere, nonostante il colera, la zitellona s’occupava d’affari, appartandosi con gli uomini che se ne intendevano, parlando di mutui, d’ipoteche, di crediti da poter accordare, di fallimenti da temere; e mentre il principe di Roccasciano esponeva alla speculatrice i piani laboriosi coi quali costruiva pazientemente e lentamente l’edifizio della propria fortuna, la principessa sua moglie, di nascosto da lui, si giocava con Raimondo e con altri appassionati delle carte tutto quel che aveva in tasca. Il principe Giacomo vedeva qualche volta giocare senza metter fuori un baiocco, ma il più del tempo discorreva con quelli del paese. Venivano a fargli la corte il medico, lo speziale, i possidenti più grossi, la gente la cui ciera gli andava a verso, perché quanti tra i familiari della madre gli parevano iettatori erano stati da lui messi fuori. Non mancavano il vicario, il canonico, tutte le sottane nere del villaggio. Come in città, la casa Uzeda era qui frequentata da tutto il clero regolare e secolare, per la sua fama di devozione, pel bene sempre fatto alla Chiesa. Il rifiuto del principe di riconoscere il legato alla badìa di San Placido non lo pregiudicava presso i Padri spirituali: in vita era umano che egli cercasse di tener per sé la più parte della roba; così pure aveva fatto sua madre; morendo, avrebbe poi largheggiato con la Chiesa per assicurarsi la salute dell’anima. Come capo della casa, egli aveva del resto la facoltà di nominare i sacerdoti celebranti in tutte le cappellanie e benefizi fondati dai suoi antenati; lì al Belvedere, specialmente, ce n’era uno molto pingue, quello del Sacro Lume. Un Silvio Uzeda, dolce di sale, vissuto un secolo e mezzo addietro, era stato sempre attorniato da preti e frati: i monaci del convento di Santa Maria del Sacro Lume l’avevano persuaso che la Madonna voleva sposarsi con lui. Ed egli non era entrato nei panni, dal contento. La tradizione narrava che avevano compito la cerimonia con tutte le formalità: lo sposo, dopo essersi confessato e comunicato, era stato condotto, in abito di gala, dinanzi alla statua di Maria Santissima, e il sacerdote gli aveva regolarmente domandato se era contento di sposarla. «Sì!…» aveva risposto l’Uzeda; poi la stessa domanda era stata fatta alla Regina del cielo; e per bocca del guardiano del convento, anche Ella aveva risposto sì. Poi s’erano scambiati gli anelli: la statua portava ancora al dito quello dello sposo, il quale aveva naturalmente lasciato alla consorte tutti i suoi beni. Una lunga lite ne era seguita, non avendo voluto gli eredi naturali riconoscere il testamento del matto; finalmente, per via di transazione, s’era istituita nel convento, con metà dei beni, una cappellania laicale, sulla quale gli Uzeda avevano esercitato il giuspatronato. Così tutti i monaci venivano la sera a fare la corte al principe, discutevano con lui gli affari del monastero. Tra tutta quella gente egli papeggiava, sputava tondo, ascoltato come un Dio; dimenticava il resto della società, le signore e le signorine che giocavano a tombola, o a spiegar sciarade, o combinavano escursioni per la montagna, e passavano il tempo così allegramente che, senza le notizie del colera e i paesani armati per tener lontani i tardi fuggiaschi, nessuno avrebbe pensato che quelli fossero tempi di pestilenza.
Solo la contessa Matilde, fra le comuni distrazioni, non riusciva a nascondere il proprio dolore. Ella era venuta via dalla città quasi fuori di sentimento, tanto forte era stata la prova a cui l’avevano messa. Con l’animo pieno di spavento e di rimorso, sul punto di partire per la campagna, aveva riconosciuto che la pena meno sopportabile non le veniva più dalla lontananza della sua bambina, ma dal tradimento di Raimondo. Come poteva più metterlo in dubbio? La verità non le si era improvvisamente svelata, all’annunzio che egli andava al Belvedere, dove andava la Fersa? Perché mai, tanto insofferente di vivere in Sicilia, s’era rifiutato a partire pel continente, se non perché voleva restare vicino a colei? E aveva finto di non sapersi decidere, per aspettare che si decidesse quell’altra; ed aveva mendicato pretesti, e accusato il suocero, e così bene temporeggiato che allo scoppio della pestilenza aveva fatto a modo suo!… Né in quelle finzioni, in quelle menzogne, ella vedeva più la conferma dei brutti lati del suo carattere; esse non l’accoravano perché egli ne era stato capace: solo il pensiero che le aveva adoperate per amor di quell’altra era il suo cruccio. Che non amasse la figlia, che fosse ingiusto verso il suocero e prepotente, capriccioso, sgraziato, non le faceva nulla: ella non voleva che fosse d’altri! A Firenze, la gelosia di lei non aveva avuto oggetto determinato, o aveva continuamente mutato d’oggetto, poiché egli faceva la corte a quante donne vedeva; ella stessa poi s’era fino ad un certo punto assicurata, giacché, galante a parole con le signore, la mutabilità e l’impazienza dei suoi desideri gli facevano preferire quell’altre, le donne che si pagano… Che vergognoso dolore era stato il suo nel vedersi ridotta al punto di doversene rallegrare! Eppure, ella invidiava ora le sofferenze passate, giudicando intollerabile l’idea di saperlo così pieno d’un’altra da abbandonar la figlia in quei terribili giorni per starle vicino! Poi il suo cruccio cresceva, misurando la rapidità con la quale egli progrediva nella via del tradimento. A Firenze aveva messo un certo pudore nelle sue tresche; s’era quasi studiato, a momenti, di farsele perdonare, tornando ad ora ad ora buono con lei; adesso sfrenavasi fino a costringerla d’essere spettatrice dell’infamia. Questo, soprattutto, la feriva: che potessero essere così tristi da darsi un simile convegno, sotto gli occhi di lei, mentre i cuori umani tremavano al pensiero della morte!… Che giorno, quello della fuga al Belvedere, per le vie arroventate dal sole, in mezzo a nugoli di polvere calda e soffocante! Ella era nella stessa carrozza con Chiara, Lucrezia e il marchese, e la vista delle cure che questi prodigava alla moglie faceva più acuto il suo dolore. Raimondo non s’era voluto metter con lei, l’aveva lasciata sola in quella corsa pei villaggi dove gente armata fermava ogni persona ed ogni veicolo, contrastando il passo; ma comprendeva ella nulla di tutto questo? Vedeva nulla sul suo cammino? Ella vedeva, con gli occhi della mente, Raimondo sorridente e felice a fianco di quella donna, come l’aveva visto in realtà tante volte senza che la sua nativa fiducia la insospettisse! Ora però tutte le cose che non aveva saputo spiegare acquistavano un senso evidente: le lunghe uscite di Raimondo, le sue attese impazienti, il piacere che gli si leggeva negli occhi appena entrava colei, lo stesso misterioso istinto di repulsione che quella donna le aveva ispirato fin dal primo momento… Come doveva esser falsa e malvagia, se le dava il tenero nome d’amica e l’abbracciava e la baciava mentre le portava via il marito? Egli stesso non era falso altrettanto? Quante menzogne! Aveva anch’addotto la gravidanza di lei per non lasciar la Sicilia, e non s’accorgeva d’attentare in quel modo alla vita della creatura che ella portava in grembo!… Che giorno terribile! Nella carrozza scottante come un forno, al cui sportello s’affacciavano visi sospettosi di contadini brutali, piena del nauseante odore della canfora che Chiara e Lucrezia tenevavano alle narici contro la mefite, ella sentiva mancarsi il respiro. Non sapeva dov’era, dove andava; voleva gridare al cocchiere, alle compagne di viaggio: «Tornate indietro!… Non voglio venire!»; affrontar suo marito, buttargli in faccia il tradimento, scongiurarlo di non condurla vicino a quella donna, di non farla morire, di salvare la creatura che s’agitava nelle sue viscere, di ridar la pace al suo cuore, l’aria al suo petto. Aveva perduto i sensi, infatti, prima d’arrivare al Belvedere, non rammentava più come e quando fosse entrata alla villa…
Lì era cominciata per lei una vita di trepidazione continua. Ad ogni istante aveva creduto di vedersi comparire dinanzi la Fersa: tutte le volte che Raimondo era andato fuori, aveva pensato: «Adesso è con lei…» e il non vederla, il non udirne parlare, accresceva il suo spavento, lo rendeva più oscuro, le procurava non sapeva ella stessa quali orribili sospetti di cospirazioni ordite da tutti a suo danno. Aveva trovato, sì, la forza incredibile di nascondere i suoi sentimenti per non insospettire il marito, per non dare buon giuoco ai nemici; ma il silenzio imposto a se stessa, rendendo più acuto il suo tormento, le aveva tolto il mezzo di saper nulla. Perché nessuno nominava quella donna? Perché non veniva alla villa, con tutti gli altri visitatori del principe? Dov’era andata a star di casa?… E intenta a vagliare le mille supposizioni paurose che l’inquieta fantasia le suggeriva, ella dimenticava il colera, quasi non pensava alla figlia lontana, quasi non s’accorgeva del silenzio di suo padre. Questi doveva volergliene, credere che avesse abbandonato la bambina per smania di divertirsi al Belvedere! Non le era accaduto sempre così, che tutto quanto aveva fatto contro voglia per obbedire agli altri, le era poi stato addebitato, da tutti, come capriccio e come colpa? Non era ella una di quelle creature disgraziate che non riuscivano a nulla di bene, destinate a spiacere ad ognuno? Però non piangeva: non pianse neppure quando, invece del padre, le scrisse la sorella Carlotta, per dirle che Teresina stava bene e che erano tutti al sicuro. Non pianse, ma si sentì vinta da una cupa tristezza che non riuscì a nascondere. Raimondo stesso se ne accorse; le domandò:
«Che scrive tua sorella?»
«Nulla… che stanno tutti bene, che non corrono pericolo…»
«Hai visto?… Quando io ti dicevo?…» e le voltò le spalle.
Erano passate due settimane dal loro arrivo e ancora non aveva udito parlare della Fersa. La sera di quel giorno, appena cominciò a venir gente, ella andò a chiudersi nella sua camera. Stava male, non solo di spirito, ma anche fisicamente; la lunga agitazione travagliava alla fine anche il suo corpo. Era da un pezzo buttata sul letto, con gli occhi e la mente fissi nelle tristi visioni del passato, nelle paurose previsioni dell’avvenire, quando fu picchiato all’uscio.
«Cognata?…» era la voce del principe. «Che fate? Perché non venite giù? C’è molta gente, stasera… si giuoca…»
Ella levossi, s’acconciò con mano tremante i capelli scomposti e discese. Certo, quell’altra era finalmente venuta! Certissimamente Raimondo le stava al fianco! La chiamavano per farla assistere a quello spettacolo e per goderne!… Guardò rapidamente nel salone zeppo: non c’era. Però, aveva appena preso posto accanto alle cognate, che la udì nominare: qualcuno diceva:
«…la villetta affittata a donna Isabella…»
«Un guscio di noce!» rispose un altro. «I Mongiolino ci stanno come le acciughe in un barile.»
Ella non comprendeva.
«Ma i Fersa dove se ne sono andati?»
Era proprio Raimondo che faceva questa domanda? Non sapeva dunque dov’era colei?
«Nella campagna di Leonforte; donna Mara ha preferito….»
Ella comprese a un tratto; la gola le si strinse convulsamente. Andata via senza dir nulla, traversò la casa con gli occhi gonfi e il cuore tumultuante; giunta nella sua camera, cadde ai piedi dell’imagine della Vergine, scoppiando in pianto dirotto; pianto di gioia, di gratitudine di rimorso anche: poiché ella aveva sospettato degli innocenti…
Le parve di tornare da morte a vita; coi sospetti, cessarono i dolori dell’anima e quelli del corpo; partecipò alla vita della famiglia, assaporò finalmente la dolcezza del riposo. Anche le notizie del colera non le davano timore pei cari lontani; dopo le stragi dell’anno innanzi la pestilenza pareva non trovasse più dove apprendersi, serpeggiava qua e là senza forza.
Alla villa Francalanza continuava la vita allegra; tutte le sere conversazione e giuoco. Raimondo era adesso il più assiduo alla tavola verde; quand’egli prendeva le carte, le poste aumentavano, il rischio cresceva. Molti s’alzavano, intendendo svagarsi e non lasciarvi la borsa; la principessa di Roccasciano, invece, non chiedeva di meglio, molte volte restava sola col conte a far la bazzica da dodici tarì. Si nascondeva dal marito, il quale, come tutti i parsimoniosi, biasimava ogni specie di giuoco: amici compiacenti stavano alle vedette per farle un segno appena egli s’avvicinava; allora ella e il suo complice facevano sparire i gettoni, interrompevano la partita e si lasciavano sorprendere intenti a una scopa innocente. Raimondo ci si spassava, incitava la principessa al giuoco forte, la tirava in una stanza fuori mano dove restavano più a lungo a contendersi i quattrini, mettendo poi in mezzo, con l’aiuto di tutta la società, il principe sospettoso. Matilde, sorridendo anche lei di quelle scene da commedia, giudicava tuttavia che suo marito facesse male a fomentare così il vizio della principessa; ma non le bastava il cuore di rimproverarlo, tanto la rinata fiducia la faceva indulgente. Purché egli non la tradisse, che le importava del resto? Tra le signore che venivano alla villa, Raimondo pareva non apprezzarne alcuna; stava poco in loro compagnia, si dava tutto al giuoco: il giorno al casino, la sera in casa. Non che biasimarlo, pertanto, ella avrebbe quasi voluto spingerlo in quella via che lo distoglieva da un’altra infinitamente più dolorosa. Il cuor suo lo avrebbe voluto senza nessun vizio, solo amante di lei, della famiglia, della casa; ma lo prendeva com’era, anzi come lo avevano fatto, giacché ella addebitava quel che trovava in lui di men bello alla soverchia indulgenza, al cieco amore della madre.
Lontano dalle carte, Raimondo s’annoiava. Se non poteva combinare una buona partita, smaniava contro la noia di quel villaggio, contro la conversazione dei villani, contro gli stupidi divertimenti della tombola e delle gite sugli asini. Ella poteva dirgli: «Con chi te ne lagni? Non volesti venirci tu stesso?» Però taceva, affinché egli non prendesse quelle parole come un rimprovero. Invece, vedendolo di cattivo umore, gli domandava dolcemente che avesse.
«Ho che mi secco, non lo sai?» le rispondeva.
«Che vuoi farci!… Quando il colera cesserà torneremo a Firenze… Perché non vai al casino?»
Egli non se lo faceva ripetere. A poco a poco, il giuoco diveniva indiavolato; nel giro di poche ore facevano differenze di centinaia d’onze. Nessuno, in casa, diceva nulla a Raimondo; il principe, già più alla mano con tutti, pareva studiarsi di non pesare per nulla sul fratello. Un giorno questi, poiché da Milazzo, per via del colera, tardavano a mandargli denari, gli chiese, in conto delle rendite ereditate, qualche centinaio d’onze: il principe mise la propria cassa a sua disposizione; egli tornò ad attingervi a più riprese. Naturalmente, se il colera non finiva, non si poteva far nulla per la sistemazione dell’eredità; nondimeno, il principe ne parlava adesso direttamente al coerede, gli comunicava i propri disegni. Avevano dato a intendere ai legatari che erano stati trattati male dalla madre, ma la dimostrazione del contrario sarebbe stata facile e pronta. Già, né Ferdinando né Chiara davano ascolto ai sobillatori; la stessa Lucrezia si sarebbe subito convinta del proprio torto. Quindi, per amore della pace, per mettere in chiaro ogni cosa, quantunque avessero ancora tanto tempo a pagar le sorelle, non era meglio togliersi al più presto quel peso di su le spalle? Avrebbero fatto un poco di economia per raccogliere le sedicimila onze occorrenti, giacché se Lucrezia doveva averne diecimila, a Chiara ne toccavano soltanto sei, dovendosi sottrarre le quattro da lei «avute» nel maritarsi. Prima, però, bisognava pagare i creditori, metter tutto in pulito. Frattanto, per guadagnar tempo, potevano intendersi loro due, circa la divisione. E a nessuno di quei ragionamenti del fratello, Raimondo trovava nulla da obiettare. «Va bene, va bene,» era la sua risposta.
In mezzo a questa pace, piombò un bel giorno don Blasco da Nicolosi, a cavallo a un gigantesco asino della Pantelleria. Scappato con tutto il convento, il monaco non aveva messo fuori neppure il naso, nelle prime settimane, per paura di prendere il colera con l’aria che respirava; ma visto che per la campagna prosperavano uomini e bestie, rassicuratosi sul pericolo del contagio, udito finalmente che al Belvedere facevano baldoria, non stette più alle mosse. Arrivò lì, fra colazione e desinare, annunziandosi con grandi vociate perché nessuno gli apriva il cancello; visto poi il principino che gli veniva incontro con una bacchetta in mano la quale spaventava la cavalcatura, gridò al ragazzo, come se volesse mangiarselo: «Vuoi star fermo, che il diavolo ti porti?» e entrò finalmente nella villa esclamando: «Non c’è nessuno, qui dentro?… Che stillate?…» Al principe che voleva baciargli la mano, spiattellò: «Lascia stare queste smorfie…» e senza salutar nessuno, lo prese pel bottone dell’abito, lo trasse in disparte e gli domandò a bruciapelo:
«È vero che tuo fratello si giuoca la camicia che ha indosso? Com’è che puoi permettere una cosa simile?»
«Vostra Eccellenza non conosce Raimondo?» rispose il principe, stringendosi nelle spalle. «Chi può dirgli nulla? Provi Vostra Eccellenza a dissuaderlo…»
«Io? Ah, io? A me importa un mazzo di cavoli di lui e degli altri! Questo è il frutto dell’educazione che gli hanno data! E quell’altra buona a nulla di sua moglie? Tutto il giorno a grattarsi la pancia piena? E tua sorella? E quei pazzi? E tuo figlio?…»
Non risparmiò nessuno: i discorsi di Chiara e del marchese relativi al corredo del nascituro gli fecero montare la mosca al naso, le notizie dei Giulente lo imbestialirono; ma quel che gli fece perdere il lume degli occhi fu la lettura del Giornale di Catania portato dal principe di Roccasciano nel pomeriggio, quando cominciarono a venire le prime visite. Subito dopo il bollettino del colera si leggeva in quel foglio: «La generosità dei nostri cospicui patrizi non poteva mancare, in tempi tanto calamitosi, di venire in soccorso della sventura. L’Illustrissimo don Gaspare Uzeda duca d’Oragua, benché lontano dai suoi concittadini, pure ha fatto tenere al nostro Senato la somma di ducati cento da distribuirsi in soccorso dei più bisognosi…» Cento ducati buttati via, per soccorrere i bisognosi? Dite piuttosto per fregola di popolarità! Cento ducati buttati a mare, quasi che quella bestia avesse molto da scialare? A furia di largizioni un bel giorno avrebbe battuto il… capo sul lastrone, come meritava la sua sciocchezza: bestia, bestione, tre volte bestionaccio!… Il monaco era talmente fuori della grazia di Dio, che quando Roccasciano gli chiese notizie di suo nipote don Lodovico, si voltò come una furia:
«Di che nipote m’andate nipotando?… Non li conosco!… Li rinnego tutti quanti!…» E preso anche quest’altro pel bottone della giacca, gli gridò all’orecchio: «Vedete un po’ quel che fanno?… Non sono tre mesi che han perduta la madre, e intanto se la spassano, senza un riguardo al mondo!…»
Qualche giorno dopo ci fu la visita del Priore. Arrivò in carrozza, riposato e sereno: salutò ed abbracciò tutti, volle entrare nella camera dov’era spirata la principessa, parlò della pestilenza attribuendola al corruccio del Signore per le nequizie dei tempi. Tutti lagnavansi dell’ostinata siccità, perché in tre mesi di torrida estate non era caduta una goccia d’acqua: egli riferì d’aver disposto un triduo, a Nicolosi, e una processione per impetrare la pioggia; altrettanto consigliò che facessero al Belvedere.
«Non bisogna stancarsi di pregare l’Altissimo. Solo la preghiera e la penitenza potranno indurre la Divina Clemenza a perdonare i peccatori.»
Poi annunziò che la cugina Radalì gli aveva scritto per avvertirlo che, appena cessato il colera, voleva mettere il secondogenito Giovannino al Noviziato: provvedimento lodevole poiché, col marito in quello stato, la povera duchessa non poteva badare all’educazione di entrambi i figliuoli. Il principe disse che anch’egli forse avrebbe fatto altrettanto per Consalvo. La principessa chinò gli sguardi a terra, non osando replicare, ma non potendo soffrire di esser divisa dal suo bambino.
Così zio e nipote tornarono a venire, soli, in giorni diversi, incapaci di stare insieme, come cani e gatti. Però tutti riconoscevano che la colpa era di don Blasco: don Lodovico, con la sua natura veramente angelica, non avrebbe chiesto di meglio che far la pace; quell’altro invece non gli perdonava ancora l’assunzione al priorato. Comunque, la scissura era dispiacevole: gli amici di casa, i frequentatori del convento ne parlavano con dolore. Non ne parlava affatto fra’ Carmelo, il quale venne anch’egli a far visita alla principessa ed a portarle le prime nocciuole e le prime castagne. Non voleva parlare della nimistà tra zio e nipote per amore della buona fama del convento, per rispetto ai Padri che, a suo giudizio, erano tutti buoni e bravi egualmente; ma in modo particolare per la venerazione che portava ai due Uzeda. Quei suoi sentimenti comprendevano tutta la parentela. Quando la principessa, in cambio della frutta che egli recava, gli faceva apprestare uno spuntino, il frate, sparecchiando rapidamente, esaltava la nobile casata, casata di signoroni come ce n’eran pochi. E la principessa gli voleva bene pel bene che egli dimostrava al piccolo Consalvo, per le carezze che gli faceva, per gli speciali regalucci che gli portava, singolarmente perché, narrandogli il Noviziato degli zii don Lodovico e don Blasco, gli diceva:
«Ce n’è stati tanti degli Uzeda, a San Nicola! Ma Vostra Eccellenza non l’avremo! Vostra Eccellenza è figliuolo unico, e non lo metteranno certamente al monastero!…»
Tutti i parenti, invece, tranne Chiara, che se avesse avuto un figliuolo se lo sarebbe cucito alla gonna, erano dell’opinione del principe, che per l’educazione e l’istruzione del ragazzo convenisse mandarlo fuori di casa. Don Blasco specialmente, alle monellate del pronipote, all’indulgenza della principessa, vociava: «Ma come cresce, cotesto squassaforche!… Che educazione è questa qui!…» Donna Ferdinanda, quantunque giudicasse soverchia ogni istruzione, pure riconosceva anche lei che mettere il ragazzo in un nobile istituto sarebbe stato secondo le tradizioni della casa: tanto il collegio Cutelli quanto il Noviziato benedettino avevano visto molti di quegli antenati di cui ella leggeva e spiegava al nipotino la storia. Quando Consalvo era stanco di molestare le persone e le bestie, se ne veniva infatti dalla zitellona e le diceva:
«Zia, vediamo gli stemmi?»
Gli stemmi erano l’opera del Mugnòs, illustrata con le armi delle famiglie di cui il testo ragionava; e donna Ferdinanda passava intere giornate leggendola e commentandola al nipotino.
Gli aveva già fatto un piccolo corso di grammatica araldica, spiegandogli che cosa volesse dire scudo partito e diviso, inquartato e soprattutto; mettendo il dito adunco sul rame che rappresentava quello di casa Uzeda gliene faceva ogni volta la descrizione perché la mandasse a memoria:
«Inquartato, al primo e al quarto partito, d’oro all’aquila nera, linguata e armata di rosso, e fusato d’azzurro e d’argento; al secondo e al terzo diviso, d’azzurro alla cometa d’argento e di nero al capriolo d’oro; sopra il tutto d’oro con quattro pali rossi che è d’Aragona; lo scudo contornato da sei bandiere d’alleanza.»
Poi gliene spiegava la formazione: la cometa voleva dire chiarezza di fama e di gloria; il capriolo rappresentava gli sproni del cavaliere. Lo stemma piccolo in mezzo al grande era quello dei Re aragonesi; gli Uzeda lo avevano ottenuto a poco a poco, non tutto in una volta: il primo palo al tempo di don Blasco ii.
«Seruendo egli,» la zitellona leggeva nel suo testo, «all’inuitto Re don Giaime nella gverra ch’hebbe col conte Vguetto di Narbona e coi Mori nell’acquifto di Maiorca, non n’hebbe remvneratione uervna, perilche ritiratofi dal Real feruiggio fenne andò coi fvoi al fuo Stato, et iui uedendo che il Re mandaua vna groffa fomma di denari alla Reina, con dvcento caualieri fvoi uaffalli in un celato paffo fi pvofe, et agvatando i real carriaggi gli tolse i denari e quanto di fopra portauano, mandando a dire al Re ch’era lvi obbligato di pagar prima i feruiggi perfonali, e doppo fodiffar gli appetiti della Reina: ma fdegnatofi di qvefte attioni il Re moffe contra di Blafco graue gverra, che per l’interpofitione di molti baroni piaceuolmente fi disftaccò, et ottenne la baronia di Almeira nonché poteftà di poter imporre alle fve Arme vn palo roffo d’Aragona.» La zitellona gongolava, leggendo quella storia, e dopo averla letta la ripeteva al nipotino con linguaggio meno fiorito perché egli ne intendesse meglio il senso: «Bel Re, quello, eh? che si faceva servire dai suoi baroni e poi non voleva dar loro niente! Ma la pensata di don Blasco Uzeda non fu più bella? “Ah, non date niente a me che ho combattuto per voi, e pensate invece a mandar regali alla Regina? Aspettate che vi accomodo io!…”» La sua voce tremava di commozione nel ripetere la storia della rapina, e i suoi occhi furaci come quelli dell’antenato s’infiammavano della secolare cupidigia della vecchia razza spagnuola, dei Viceré che avevano spogliato la Sicilia.
«E gli altri pali?» domandava il principino, che pendeva dalle labbra della zia meglio che se gli raccontasse le fiabe di Betta Pelosa e della Mamma Draga.
La zitellona sfogliava rapidamente il libro e piombava sul passaggio cercato.
«A cagion di ciò auuenne ch’il predetto Gonzalo de Vzeda, effendo eccellente cacciatore, fv inuitato dal Re Carlo di andare a caccia nei bofchi fvoi, il qvale inuito fv dal Gonzalo accettato, e mentre ognvno fi procacciaua e’l Re medefmo di fegvire i Daini, Cinghiali, e Lepri, andò folo il Re appreffo vn groffo cinghiale, il quale aftvtamente fi trattenne nel corfo, ma perché il cauallo del Re fvriofamente di fopra gli correua, nel paffar impedito da quello, cafcò con tvtto il Re in vn fafcio per terra, il qvale reftò con vna gamba di fotto di cauallo, uedendo ciò il cinghiale, f’auuentò fopra il Re per vcciderlo, il qvale per non hauerfi potvto difbrigare fi difendeua folamente con vn pvgnale, e ne reftaua fenz’altro morto fi non che auuedvtofi da lvnge Gonzalo del pericolo del fuo Re, corfe per soccorrerlo, et al primo incontro vccife il cinghiale, e scendendo poi da cauallo, l’aivtò poi a forgere e’l fè montar fopra il fuo cauallo, e tvtta via il Re ringratiandolo e lodandolo il chiamò: “Bon figlio!” perilche fvrono poi fempre i fignori di Vzeda chiamati dai Regi Siciliani col titolo di confangvinei, e portarono fovra l’arme l’Arme Regia di Aragona con tutti i fuoi poteri, come in effetto al prefente fpiegano, dicendo anche il cronista madrileno: “Los feruicios de los Vzedas fveron tantos, y tan buenos que por merced de los Reyes de Aragona hazian la mefmas armas que ellos…”»
Chi poteva più arrestare donna Ferdinanda, una volta cominciato? Ella non aveva un uditore più attento del ragazzo, gli voleva bene appunto per questo, giacché gli altri parenti le prestavano un orecchio distratto, badavano alle loro «sciocchezze», o lavoravano ad offuscar lo splendore della casa, come quel volpone del duca amoreggiante coi repubblicani, come quella pazza da legare di Lucrezia che non voleva smetterla d’aspettare al balcone il passaggio del Giulente!…
Solo fra tutti don Eugenio, quando non lavorava alla memoria per disseppellire la nuova Pompei, assisteva alla lettura del Mugnòs, citava altri storici della famiglia. Allora fratello e sorella passavano a rassegna il lungo ordine di avi, recitavano la cronaca delle loro gesta, il secolare sforzo per afferrare e mantener la fortuna; i tradimenti, le ribellioni, le prepotenze, le liti continue che gli scrittori narravano velatamente, e che essi magnificavano. Artale di Uzeda, «giornalmente dal suo castello con i suoi armigeri uscendo, signoreggiava tutto il paese»; Giacomo, vissuto al tempo del Re Lodovico, «dominò Nicosia e ne fu alla perfine rimosso per i molti dazi che impose»; don Ferrante, «cognominato Sconza, che nel siculo idioma suona il medesimo che Guasta», perdé tutti i suoi feudi, «mercé l’inobbedienza che usò col suo Re; ne ottenne quindi il perdono, ma non per questo dimorò nella fedeltà, poiché per sue cagioni si discostò di bel nuovo della Regia obbedienza, e preso e condannato a morte ebbe per Grazia Sovrana salva la testa», don Filippo fu celebrato «pel valore che mostrò in favor del suo Re don Ferdinando contro al Re di Portogallo, di maniera, ch’essendo bandito della Corte per cagion d’omicidio, fu liberato e venne in Grazia del suo Re»; Giacomo v «perché aveva venduto suoi feudi a Errico di Chiaramonte, pretese poi ricuperargli dal poter di quello, e gli tentò lite»; Don Livio «si delettò di vendicarsi acerbamente degli oltraggi che gli furono fatti»; ecc. ecc. Questi erano, per donna Ferdinanda, atti di valore e prove d’accortezza. Né gli Uzeda avevano litigato coi sovrani e coi rivali soltanto, ma anche tra loro stessi: don Giuseppe, nel 1684, «si casò con donna Aldonza Alcarosso, colla quale procreò a don Giovanni e a don Errico, che per la morte dei loro padri innanzi l’avo pretesero succedergli negli Stati di quello e litigarono lungo numero d’anni innanzi la Regia Corte»; don Paolo ebbe «lunghe e criminose contese con suo padregno»; Consalvo, conte della Venerata «per la morte del padre fu spogliato dal suo zio, e per aver repudiato l’infertile moglie combatté alcuni anni con suo cognato»; Giacomo vi «cognominato Sciarra, che Rissa nel tosco idioma diremmo, non puoche differenze ebbe col padre». Consalvo iii, «cognominato Testa di San Giovanni Battista, dolorò la fellonia dei figli che seguirono Federico conte di Luna, bastardo del Re Martino»; ma il più terribile di tutti fu il primo Viceré, il grande Lopez Ximenes, «che perdette l’animo dei suoi soggetti, per i vizi d’un figliuol naturale molto prepotente e di sciolti costumi: onde il padre, avendolo trovato reo et incorreggibile, con somma severità lo condannò a morte, sentenzia che si sarebbe eseguita, se il Re don Ferdinando, che ritrovavasi in Sicilia, non avesse ordinato che non si effettuisse…» Don Eugenio, di tanto in tanto, per edificazione del ragazzo, giudicava conveniente fare qualche dissertazione morale; donna Ferdinanda invece lodava tutto, ammirava tutto. Col tempo, con l’esercizio del potere, la razza battagliera erasi infiacchita: il secondo Viceré, sfidato a duello da un barone ribelle, «non puose prudentemente orecchio all’invito che questo sconsigliato giovane avevagli fatto»; la condotta dell’imbelle antenato, per la zitellona, era altrettanto lodevole quanto quella degli altri che avevano attaccato lite con tutti per niente. Ed a proposito di duelli, dove lasciare il famoso decreto di Lopez Ximenes?