Читать книгу Politica estera: memorie e documenti - Francesco Crispi - Страница 6

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«Roma, 25 agosto 1877.

Onorevolissimo Signore,

Fin dall'anno 1861 il comm. Mancini proponeva a S. E. il barone Ricasoli, allora presidente del Consiglio dei Ministri, d'iniziare trattative presso i vari Governi Europei allo scopo di concordare la stipulazione di un Codice internazionale, destinato a regolare la condizione giuridica dei cittadini dei rispettivi paesi ed i diritti civili spettanti ai medesimi di fronte alle legislazioni vigenti nei diversi Stati. A tale proposta, per le circostanze dei tempi, non si potè allora dare alcun seguito. Però il Governo italiano, ispirato a sentimenti di civiltà e progresso, non esitava a sanzionare nel Codice Civile del 1865, all'art. 3, il principio che lo straniero venga ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini.

Però affinchè questo principio possa veramente esser fecondo di utili e generali conseguenze, uopo sarebbe che venga sanzionato dalle legislazioni degli altri Stati e reciprocamente guarentito mediante accordi internazionali.

Il Governo del Re ha cercato in ogni modo di promuovere la conclusione di simili accordi. Nell'anno 1867, il comm. Mancini, avendo intrapreso un viaggio a Parigi, Bruxelles e Berlino, si assumeva l'incarico di presentire, in via ufficiosa, gli intendimenti di quei Governi su questo grave argomento.

Le entrature di quell'insigne giureconsulto venivano ricevute con favore, però gli avvenimenti impedirono che si venisse ad alcuna pratica conclusione.

Poichè l'Eccellenza Vostra ora è in procinto di visitare quelle capitali, Le sarei grato se nelle sue conversazioni con i personaggi influenti e competenti, coi quali si troverà in rapporti, Ella volesse indagare se quei Governi siano disposti a riprendere le interrotte negoziazioni. L'Eccellenza Vostra che tanta parte ha avuto nella compilazione delle leggi che regolano i civili rapporti in Italia, saprà meglio di chicchessia far risaltare l'utilità delle proposte nostre.

Ringraziando anticipatamente l'Eccellenza Vostra dell'opera Sua, colgo quest'occasione per rinnovarle i sensi della mia alta considerazione.

Melegari.

A sua Eccellenza

il Sig. Comm. Crispi

Presidente della Camera dei Deputati.»

Torino 26 agosto. — Alle 11 antim. visita al Re.

» 27 agosto. — Alle 10 antim. altra visita al Re.

«Torino, 27 agosto 1877.

Mio caro Depretis,

Siccome ti telegrafai, io partirò stasera alle 8,50. Alla stazione incontrerò Bargoni,[1] il quale mi darà la tua lettera.

S. M. mi fece chiamare e stetti con lui lungamente. Era di buon umore, come al solito, quantunque Correnti che lo vide stamane alle 8 mi abbia detto di averlo trovato un po' conturbato. Egli nulla spera da una combinazione in conseguenza della guerra d'Oriente. Crede anche lui che sia tardi e che non vi sia posto per noi. Nulladimeno mi raccomandò di fare tutto il possibile onde vedere di entrarci con qualche profitto. Fu diverso il suo linguaggio per l'altra operazione, cui realmente mira il mio viaggio. Il re sente il bisogno di coronare i suoi giorni con una vittoria per dare al nostro Esercito la forza e il prestigio che in faccia al mondo gli mancano. È linguaggio da soldato e lo comprendo. Aveva lo stesso desiderio il povero Bixio, il quale è poi morto così miseramente senza poter combattere un'ultima volta per la gloria del nostro paese.

E il Re ha purtroppo ragione. Se nel 1866 i generali non ci fossero mancati ed avessimo vinto nel Veneto e nell'Adriatico, gli austriaci non oserebbero parlare e scrivere di noi siccome fanno. L'Esercito Italiano avrebbe in Europa quell'autorità che gli fa difetto, e la parola d'Italia avrebbe una maggiore importanza presso i Gabinetti.

Ripariamo, se è possibile, il vuoto, e poichè ci credono buoni diplomatici, facciamoci valere affinchè la Patria nostra provi a coloro che non la rispettano abbastanza, che essa è qualche cosa nel vecchio continente.

Ti scriverò appena potrò darti notizie, da Parigi. Se per le questioni delle quali ti occupi hai bisogno di me, scrivimi pure.

Il tuo dev.mo F. Crispi.»

— Alle 8,50 pom. partenza per Parigi, dopo avere ricevuto da Bargoni la seguente lettera di Depretis:

“Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Roma, addì 27 agosto 1877

Eccellenza,

Ho fatto conoscere a S. M. che V. E. si compiacque di accettare l'incarico che le fu affidato dal Ministero di riaprire trattative presso i governi delle principali potenze al fine di far prevalere nelle rispettive legislazioni i principii liberali sanciti nel Codice Civile italiano. Profittando del viaggio all'estero dell'E. V. è desiderio dell'Augusto nostro Sovrano che l'E. V. assuma una missione speciale e confidenziale presso il governo di S. M. l'Imperatore di Germania.

Il governo germanico, or non è molto, ha interpellato il governo italiano intorno ad una più intima unione dei due Stati, ed il Ministero degli Esteri d'Italia non esitò ad esprimere la sua adesione al concetto di una unione a comune difesa. Ora S. M., pienamente d'accordo col sottoscritto, sente il bisogno di stringere in modo più intimo i rapporti amichevoli dell'Italia con la Germania e desidera che V. E. faccia conoscere a S. A. il principe di Bismarck come sarebbe conveniente di addivenire ad un accordo concreto e completo col mezzo di un trattato di alleanza che fondandosi nei comuni interessi provveda a tutte le eventualità. Gl'interessi italiani possono essere offesi non solo dalla prevalenza del partito oltramontano, ma anche dall'ingrandimento dell'Austria coll'annessione di alcune provincie ottomane, possibile conseguenza della guerra d'Oriente. È desiderabile che i due governi si mettano d'accordo anche su questo punto.

V. E. conosce pienamente i principii che informano la politica italiana sia all'interno che all'estero, e sarebbe superfluo rammentarli. La Germania e l'Italia non hanno interessi contrari, e le due nazioni devono essere ugualmente determinate a difendere l'edificio dell'unità nazionale e delle politiche e civili libertà: per l'Italia lo scopo principale è quello di preservare da ogni nemica offesa i beni inestimabili che abbiamo acquistati, e i principii sui quali è fondata la sua esistenza.

Procuri l'E. V. di esprimere e spiegare in via confidenziale i desideri di S. M. e del suo governo a S. A. il principe di Bismarck e di attestargli ad un tempo la riconoscenza nostra per la benevolenza da lui costantemente dimostrata all'Italia.

Aggradisca l'E. V. l'espressione della mia alta stima, mentre mi dichiaro di V. E.

Dev.mo Obbl.mo A. Depretis Presidente del Consiglio dei Ministri.

A S. E.

Il Sig. Comm. F. Crispi

Presidente della Camera dei Deputati

Torino.„

«Parigi, 2 settembre 1877.

Eccellenza,

Ieri fui ricevuto dal Ministro degli Affari esteri. L'ora tarda non mi permise di riferire immediatamente a V. E. la lunga nostra conversazione, la quale versò su vari argomenti riferentisi ai due paesi.

Il duca Decazes cominciò col ringraziarmi del contegno nostro in occasione della interrogazione alla Camera del deputato Savini. Risposi, che Camera e Governo nulla fecero che non fosse stato il loro dovere, non potendo certamente permettersi che alla tribuna italiana si discutessero e si criticassero le cose interne della Francia, ed espressi l'opinione ch'essi a Versailles avrebbero fatto lo stesso per noi.

S. E. venne quindi discorrendo della necessità di un accordo completo fra le due nazioni, e su questo punto parlò lungamente sforzandosi di dimostrarmi come la Francia non possa avere che sentimenti di amicizia per noi. Al di là delle Alpi — S. E. disse — è una nazione alla quale la Francia è legata da interessi economici, morali e politici, e sarebbe un vero delitto conturbare la necessaria armonia dei due popoli. Accennò intanto, come ad un elemento di possibile dissidio, all'esistenza fra noi di un partito ch'egli definì «prussiano», ma lo fece con un tal garbo da lasciare intravedere il desiderio che cotesta opinione non lasciasse una disaggradevole impressione sull'animo mio.

Alla mia volta dichiarai subito che nel nostro paese noi siamo Italiani; che tutti, senza distinzione di partito, esclusi unicamente i clericali, non abbiamo altro interesse che quello della nazione, e che sarebbe un errore il presumere che potessimo o volessimo governarci seguendo i consigli o ricevendo l'influenza di un governo straniero qualunque. In quanto alla Francia, tutto ci spinge a sentire per lei e praticare una sincera amicizia: le tradizioni di civiltà, l'educazione, gli studi, le leggi, i commerci ci uniscono alla medesima, e nulla sarà fatto da parte nostra per rompere cotesto legame onde sono naturalmente congiunte le due nazioni.

S. E. allora riprese dicendomi che non sapeva però spiegarsi lo scopo dei nostri armamenti e sopratutto delle fortificazioni di Roma state ordinate ultimamente; ritornò quindi sull'argomento delle intenzioni affatto pacifiche del suo Ministero ed affermò che in Francia nessuno dei partiti possibili al governo commetterebbe la follia di far guerra all'Italia. Sono passati i tempi — il ministro soggiunse — in cui portavamo le nostre idee con le armi negli altri paesi. Dopo i nostri disastri abbiamo appreso che sono altre le vie da prendere onde far valere nel mondo le proprie opinioni.

Su ciò sentii il bisogno di esplicare la condotta del nostro governo e dissi che quanto si fa oggi da noi non ha nulla di eccezionale. L'Italia ha bisogno di pace perchè ha bisogno di compiere le sue riforme amministrative e finanziarie, e di sviluppare e consolidare le sue istituzioni pubbliche. In quanto all'esercito noi non facciamo che trasformarne l'armamento e completarlo e ci vogliono ancora molti anni per raggiungere cotesto scopo. Le fortificazioni di Roma, poi, non sono un fatto speciale, ma la parte di un complesso di disposizioni per la difesa territoriale dello Stato. Ricordai che sin dalla costituzione del Regno era stata nominata una commissione, sotto la presidenza di S. A. R. il principe di Carignano, coll'incarico di studiare un sistema di fortificazioni il quale rispondesse alle nuove condizioni della penisola. Dissi che cotesti studi furono già terminati, che furono votate le somme necessarie dal nostro Parlamento sin da parecchi anni addietro, ma che nulla ancora fu fatto, essendo anzi tutt'ora integre le fortezze elevate dai principi caduti con intendimenti e scopi contrari all'attuale ordine di cose. Dimostrai quindi che le fortificazioni di Roma entrano in cotesto piano generale di difesa nazionale e conclusi che la Francia non ha motivo di allarmarsene, coteste opere non essendo e non potendo essere interpretate quale una dimostrazione ostile contro di lei.

S. E. parve acchetarsi al mio ragionamento e poichè lo vidi così ben disposto credetti propizia l'occasione di portare la nostra conversazione sopra un altro argomento, quello cioè dell'applicazione ai nostri concittadini, nel territorio della Repubblica, delle disposizioni dell'art. 3 del nostro Codice Civile.

Spiegai lo scopo e le origini di cotesto articolo, ricordai le trattative intavolate altra volta perchè ne fossero accolti i principii in Francia, mercè una convenzione internazionale, e finalmente accennai alla giurisprudenza delle Corti Supreme le quali, per diritto di ritorsione, cominciano ad applicare ai francesi in Italia l'art. 14 del Codice Napoleone. Non omisi di dimostrare che, allo stato, farebbe un ottimo effetto nel nostro paese la stipulazione di un trattato che sanzionasse cotanto progresso.

S. E. ascoltò con benevola attenzione e si dichiarò pronto a trattare. Disse che avrebbe richiamato i precedenti e li avrebbe studiati affinchè potessimo altra volta ragionare consideratamente per venire ad una conclusione. Anch'egli, il Ministro, sente il bisogno che l'art. 3 del nostro Codice Civile sia ricevuto in Francia in favore degli italiani e mi promise che metterebbe tutta l'opera sua perchè la domanda fosse esaudita.

Dal discorso di S. E. appariva chiaramente il desiderio di provare con nuovi atti che la Francia ci è e ci sarà amica, ed a tal uopo mi parlò della sollecitudine con la quale il suo governo aveva consentito alla sottoscrizione del trattato di commercio. Mi disse che ci saremmo nuovamente veduti.

Del contegno del duca Decazes e del complesso delle sue parole, restai pienamente soddisfatto. Bisognerebbe supporre che egli fosse un grande simulatore per dubitare del suo linguaggio. Egli non fece che lodarsi del nostro governo e del nostro popolo e parlò pieno di ammirazione del nostro Re. Disse che noi abbiamo dato prova di grande saggezza politica e che la nostra condotta col Vaticano è stata corretta. Sul che sento il bisogno di riferire a V. E. un'opinione manifestatami da lui e la cui importanza non isfuggirà alla di lei sagacia: il duca Decazes si disse convinto e mi dichiarò di averlo ripetuto ai suoi colleghi, che alla morte del Papa il conclave funzionerà nel Vaticano con tutta la pienezza della sua libertà. Mi soggiunse che tale sarebbe pur l'avviso del cardinal Guibert, dopo il di lui ritorno da Roma.

Dopo ciò chiudo la lunga lettera con dirmi dell'E. V.

Il devot.mo aff.mo amico F. Crispi.»

«Parigi, 5 settembre 1877.

Mio caro Depretis,

Il 2 corrente ti spedii una mia ufficiale, alla quale dà seguito, anzi complemento l'acclusa. L'ho scritta in modo che tu volendo potrai, dopo averne preso copia, consegnarla al ministro degli Affari esteri.

Lasciamo da parte le pastoie ufficiali e ragioniamo da vecchi amici e patrioti.

Ho visto i principali uomini politici del paese, tra cui il Gambetta,[2] col quale sono rimasto lungamente, e il 3 corrente pranzai. Ho potuto quindi farmi un'esatta opinione delle cose francesi e saperne, per quanto possibile, le intenzioni.


Immagine ingrandita.

Autografo riprodotto fotograficamente: lettera di Gambetta a Crispi.[2]

La Francia traversa una terribile crisi, di cui è difficile prevedere la fine. Il Governo attuale rappresenta una impercettibile minoranza, ma è ispirato da un comitato bonapartista, audace e senza scrupoli, ed ha nel suo seno un paio d'individui anch'essi audaci e senza scrupoli.

I repubblicani si dicono sicuri della vittoria nelle prossime elezioni generali e mi espressero la stessa opinione, due giorni fa, alcuni conservatori, i quali dichiararono francamente: nous serons battus. Dubito che coteste convinzioni si mantengano dopo la morte avvenuta ier l'altro del sig. Thiers, o per lo meno dubito che l'importanza della vittoria possa essere tale quale si prevedeva prima di cotesta morte fatale. Ma avvenga pure la sconfitta del Governo, che ne verrà alla riunione delle Camere?

Il sig. Thiers mi diceva nella nostra conferenza del 31 agosto che dopo quella riunione, Ministri e Presidente della Repubblica si dimetteranno, e che le due Camere allora, raccolte in Congresso nazionale, nomineranno un nuovo Presidente. Gambetta precedentemente mi aveva dette le stesse cose.

Avverrà lo stesso ora che, morto il Thiers, è mancato il candidato sul quale avevano piena fiducia i conservatori che avevano accettato la Repubblica? I repubblicani rispondono di sì, e a leggere i giornali ne dedurrei che dopo la perdita gravissima dal paese patita, tutto procederà regolarmente e secondo i loro desideri.

Lo auguro, ma la mia fede è molto scossa.

E se Ministri e Presidente non si dimetteranno?

I repubblicani dichiarano che non voteranno i bilanci.

E se il Governo farà un colpo di Stato? Thiers non lo temeva, e perchè l'esercito non si presterebbe e perchè Mac-Mahon non n'è capace per povertà d'ingegno e di mezzi personali. Gambetta soggiunge che, in caso di un colpo di Stato, l'Esercito si scinderebbe in due e vi potrà essere la guerra civile.

Comunque sia e quali possano essere gli avvenimenti, consideriamo questi dal punto di vista italiano.

I republicani e i reazionari affermano che vogliono essere amici con l'Italia e che nulla tenteranno contro di lei. Credo ai primi, dubito dei secondi.

Dubito dei secondi perchè il Comitato ispiratore dell'Eliseo è clericale, e il loro organo è il Figaro, che ha tanto insultato il nostro paese e il nostro Re....

Non dirò che domani ci farebbero la guerra, perchè tutti, senza eccezione, i partiti politici hanno una salutare paura del principe di Bismarck, il quale essi credono non ci lascerebbe soli. Certo però ne cercherebbero l'occasione e coglierebbero il menomo pretesto per attaccare brighe con noi.

E vedi quel che m'è avvenuto di constatare: in tutte le classi del paese si è fatta radicare l'opinione che l'Italia vuole fare la guerra alla Francia. L'ho combattuta questa opinione in quanti me l'hanno manifestata, ma ho dovuto riflettere che coloro che sono stati i primi a divulgarla hanno avuto in animo di prepararsi il motivo presso questo popolo per legittimare la guerra nel caso che un giorno essi ci attaccassero. Il certo però è questo, che i Francesi continuano i loro armamenti, e che tutti gli stabilimenti privati fabbricano armi d'ogni genere per questo Ministero della Guerra. Pensiamo dunque ai casi nostri, e teniamoci pronti a tutte le eventualità.

Rispondimi a Londra per mezzo dell'Ambasciata, se non altro perchè io sia sicuro che ti siano giunte le mie lettere.

Tuo di cuore

F. Crispi.»

«Parigi, 5 settembre 1877.

Eccellenza,

Prima di lasciar Parigi mi sento in dovere di darle conto delle ulteriori mie pratiche con questo governo.

Il duca Decazes, l'indomani della nostra conferenza, è venuto a rendermi la visita. Ero assente e non ci potemmo quindi vedere. Quel giorno, era il 31 agosto, ero andato a St. Germain-en-Laye dal sig. Thiers, il quale, siccome l'Ec. V. ha potuto saperlo telegraficamente, è morto ier l'altro.

Il ministro degli affari esteri avendo dovuto poi lasciar Parigi, mandò un suo impiegato dal sig. Ressman, primo segretario dell'Ambasciata italiana, onde disimpegnarsi della promessa datami per le chieste trattative in ordine all'art. 3 del nostro Codice Civile. Il Ressman e il detto impiegato si videro il 2 settembre e discorsero del suddetto argomento.

S. E. mi fece sapere che avendo esaminato ciò che noi chiedevamo, dovette persuadersi che l'applicazione dell'art. 3 del nostro Codice Civile agli italiani in Francia non potrebbe farsi che con una riforma nella legislazione di questo paese e che a ciò sarebbe necessaria l'opera del Parlamento. Per ora di cotesta riforma non saprebbero occuparsi; più tardi se ne potrebbe parlare, ma a tal uopo converrebbe che l'Italia ne iniziasse le trattative nelle vie ufficiali.

Il duca Decazes non è un simulatore, ma un uomo debole. A quanto pare avrà parlato col signor De Broglie, ministro di Giustizia, il quale presentemente ha tutt'altro in mente che il Codice Civile.

Colgo quest'occasione per ripetermi ecc.

F. Crispi.»

7 settembre. — Colazione da Emilio de Girardin, rue La Perouse 27, Champs Elisées. Visita alle Camere di Versailles. Il Questore Baze.

8 settembre. — Funerali di Thiers.

9 settembre. — Da Garnier-Pagès. Henri Martin.

«Parigi 9 settembre.

Caro Depretis,

Ebbi ieri il tuo telegramma, il quale tradotto suona così:

«Approvo completamente quanto hai fatto e credo bene che senza recarti a Londra, ti rechi senz'altro a Berlino.»

Martedì alle 3 di sera partirò per Berlino, dove giungerò l'indomani alle 7,45 di sera. Se lo crederò necessario, al mio ritorno passerò per Bruxelles e Londra. Mi regolerò secondo il bisogno.

Sarei partito anche prima, se non fossi stato un po' incomodato. Da otto giorni fui turbato in modo che ho dovuto ricorrere al medico. Oggi sto meglio, e spero che potrò fare comodamente il viaggio.

Qui ieri la giornata è passata tranquilla. Si temeva che i funerali di Thiers avrebbero dato il pretesto a qualche disordine. La calma del popolo fu veramente ammirabile. Qualche grido di vive la République, honneur à Thiers, vive Gambetta, e tutto procedette nell'ordine.

Se il parigino dimenticherà di correre alle barricate, ma si condurrà ubbidiente alle leggi, la causa della libertà trionferà in Francia, e sarà un pegno di pace per l'Europa.

Ai funerali intervennero tutti i rappresentanti esteri, ed anche il tuo amico, per ispeciale invito della Famiglia Thiers.

Se vuoi scrivermi dirigi le lettere a Berlino all'ambasciata italiana.

I miei omaggi alla tua signora e tu credimi

L'aff. tuo

F. Crispi.»

9 settembre. — Colazione da E. de Girardin. — Viene Gambetta.

«Parigi, 11 settembre 1877.

a S. M. il Re d'Italia.

Sire!

Prima di lasciar Parigi sento il dovere di dar conto a V. M. della prima parte del mio viaggio, e per lo meno di riferirle le impressioni che io ne porto.

Giunsi in questa città alle 6 pom. del 28 agosto, e ne partirò domani. Vidi il ministro Decazes, ed i principali uomini politici della Francia, dinastici e repubblicani.

Tutti rendono giustizia alla lealtà ed alla grande saggezza di V. M., alla bontà ed alla prudenza del nostro popolo. Tutti ritengono gli italiani dotati d'un gran buon senso politico, fortunati di avere un Re il quale ha saputo comprenderne le tendenze e che, in mezzo a tante difficoltà, li ha mirabilmente condotti a buon porto. Ma in fondo a questo splendido quadro appare un punto nero, sul quale dev'essere richiamata la nostra attenzione.

I francesi diffidano di noi, ed al tempo stesso sospettano che noi diffidiamo di loro.

Diffidano di noi, e più d'uno crede o finge di credere che l'Italia ha l'intenzione di far la guerra alla Francia. Lo stesso sig. ministro Decazes non espresse chiaramente siffatta opinione, ma parlò con molto interesse dei nostri armamenti e delle fortificazioni di Roma, e parve considerare coteste fortificazioni come aventi uno scopo anti-francese.

Ragionando col detto sig. ministro e con gli altri signori che me ne avean tenuto discorso, dichiarai che l'Italia ha bisogno di pace, e che riordinando l'esercito e fortificandoci non abbiamo punto l'intenzione di far la guerra, ma di provvedere ai mezzi di difesa del nostro territorio.

«Il Re d'Italia» — ho detto e ripetuto — «fedele ai trattati ed agli impegni internazionali, non ha dato nè darà mai l'esempio di mancare al suo dovere, ma forte del suo diritto esige solamente che sia rispettato».

I francesi sospettano che noi diffidiamo di loro, ed a dileguare i dubbii che credono possano essere nell'animo nostro, si sforzano a testimoniarci la migliore amicizia. Il duca Decazes fu molto esplicito in tale argomento, e mi disse e mi ripetè che nissuno dei partiti politici, i quali possono pretendere al governo della cosa pubblica, commetterebbe la follìa di far la guerra all'Italia. Vi sono — egli soggiunse — i partiti estremi i quali oserebbero tentarlo, ma costoro non hanno probabilità di dominio, e poi non avrebbero alcun seguito nel paese.

A quali partiti S. E. accennasse, io non ho bisogno di ricordarlo a V. M. Sono pur io dell'opinione del signor ministro, che la Francia in questo momento non li seguirebbe; ma nella storia di questo paese l'ignoto è un mostro del quale dovremo temere, e siccome qui non si può essere sicuri dell'indomani, la prudenza c'impone di pensare ai casi nostri.

La Francia subisce una crisi la cui soluzione è ancora incerta. Repubblicani e governativi si dicono sicuri del fatto proprio e gli uni e gli altri usano i mezzi di cui possono valersi onde riuscire vincitori.

Non mi occuperò dell'ipotesi del successo dei governativi. Le conseguenze sono prevedibili: Mac-Mahon andrebbe sino al 1880, cioè compirebbe il settennato, col proponimento di chiedere nell'ultimo anno della sua presidenza una revisione della costituzione in senso monarchico. Esaminerò quindi il caso in cui la vittoria toccasse ai repubblicani.

Se i repubblicani vincessero, quale sarebbe il contegno di coloro che furono gli autori dell'atto del 16 maggio? Faranno essi un colpo di Stato? E se lo tentassero e vi riuscissero, chi ne raccoglierebbe i beneficii?

Il gabinetto è composto di orleanisti e bonapartisti, e se tutti cospirano concordi per la distruzione della repubblica, ciascuno dei due partiti lavora per il trionfo della dinastia prediletta.

Nel paese però il partito, il quale ha maggiore vitalità dopo il repubblicano è il bonapartista, il quale parimenti è il più audace. Ma poco importa di ciò, e siccome uno dei due bisogna che soccomba nel caso in cui il colpo di Stato deve esser fatto, il più furbo dei due saprà disfarsi del suo competitore.

Chiunque dei due vinca, e mettiamo che vincendo possa assumere senza contrasti il governo della Francia, dovrà il suo trionfo all'esercito ed al clero. L'esercito ed il clero — essendo le due forze di cui si sarà valso il vincitore — avranno delle pretese alle quali bisognerà dar soddisfazione.

Quello che domanda il clero, tutti lo sanno: il ritorno al passato, ed in questo è prima condizione il ristabilimento del potere temporale del papa. L'esercito alla sua volta vorrà rifare con qualche vittoria il prestigio perduto nell'ultima guerra con la Germania.

È facile il comprendere che il terreno che meglio conviene alla reazione, e nel quale essa crede trovar facile successo, è l'Italia nostra.

Coteste mie congetture svanirebbero, qualora la Francia abbandonasse le sue male abitudini, giungesse a costituire un regime di libertà, e smettesse per sempre il brutto giuoco delle rivoluzioni e dei colpi di Stato, dai quali nulla può sorgere di stabile e duraturo, la violenza ai tempi nostri non potendo essere buona arte di regno. Noi però dobbiamo regolarci e provvedere come se fosse possibile l'attuazione delle ipotesi da me contemplate. Guai, se un mutamento di governo in Francia non ci trovasse pronti a difendere il trono italiano e l'indipendenza nazionale!

Non nascondo a V. M. che i repubblicani ritengono impossibile un colpo di Stato. Essi son d'avviso che a Mac-Mahon mancherebbero l'ingegno ed i mezzi morali per un atto così audace, e che l'esercito non si presterebbe a tanto. Era pur di cotesto avviso il signor Thiers che vidi il 31 agosto, cioè tre giorni prima della sua morte e che mi parlò con molta devozione di V. M.

Dopo tutto quello che le ho rassegnato ho adempiuto al mio ufficio. Nei 29 anni di regno, V. M. ha saputo con la sua intelligenza e col suo coraggio superare difficoltà più gravi di quelle da me prevedute, ed ha saputo evitare pericoli di maggiore entità. Il suo senno, la sua esperienza le suggeriranno quello che converrà fare in previsione degli avvenimenti, intesi i consiglieri responsabili della Corona.

Mi permetta ora, Sire, che chiuda la presente, dicendomi con tutta devozione e con affettuoso rispetto della M. V.

L'umilissimo, obblig. servitore

F. Crispi.»

12 settembre. — Partenza per Berlino, via Bruxelles, alle 2,45 pom. Pernotto a Bruxelles.

14 settembre. — Arrivo a Berlino alle 7 ant.

Alle 12 e mezzo visita al barone Holstein, del Ministero degli Affari esteri, e quindi al conte di Bülow, segretario di Stato.

Il conte di Launay, ambasciatore d'Italia, viene a trovarmi alle 3 ½.

Visitiamo il Reichstag; scrivo al presidente Bennigsen[3].

15 settembre. — Rodolfo di Bennigsen telegrafa da Hannover: «Je viendrai cette nuit Berlin pour avoir l'honneur et le plaisir d'être avec vous».

Vado insieme a di Launay da Leonhardt, ministro di Giustizia del regno di Prussia, il quale ci manda per competenza da Friberg, presidente della Commissione germanica di giustizia. Parlo a questi dell'adozione in Germania dell'art. 3 del Codice Civile italiano. Egli sarebbe lietissimo di accoglierlo; ma soltanto Bismarck è in grado di superare le difficoltà.

Parto alle 8 pom. per Monaco di Baviera, dalla stazione di Anhalt. A mezzanotte sono a Lipsia.

16 settembre. — Sono a Monaco alle 12,30. Parto all'una e mezza per Salisburgo, dove pernotto all'albergo d'Europa.

17 settembre. — Alle 9,45 ant. per Lend. Di là a Gastein, dove arrivo alle 6.

Wildbad, la città dei bagni, siede in cima alla vallata di Gastein, sul versante orientale del monte. Ivi è una sorgente di acque minerali, alle quali molti ricorrono per guarirsi dal torpore delle membra e dalla inerzia dei nervi. Ogni anno vi arrivano più di 3000 forestieri a cercarvi salute. Ordinariamente, le persone che vi convengono appartengono alle alte classi sociali.

Il monte dà origine al fiume Ache, il quale esce furioso da profondi crepacci, precipitandosi con due splendide cascate l'una sotto l'altra. Fino a pochi anni addietro, la più parte delle case di Wildbad erano di legno. Dopo che l'imperatore di Germania ed il suo Gran Cancelliere preferirono i bagni di quel luogo, vi sorsero begli edifici e magnifiche ville.

Giunsi a Wildbad alle 6 p.m. e ne avvisai il principe di Bismarck, mandandogli una carta da visita, e, immediatamente dopo, un biglietto così concepito:

«Hotel Straubingen, h. 6.40 du soir.

Altesse,

Dans le doute que vous n'avez pas encore reçu ma carte, je vous écris ces quelques lignes pour vous prier de vouloir bien me fixer l'heure dans la quelle je pourrais avoir l'honneur de vous voir.

En attendant etc.»

Il principe di Bismarck mandò subito a scusarsi per mezzo del suo segretario, che egli non poteva venir di persona per la sua malferma salute e che mi avrebbe all'istante medesimo ricevuto.

Il principe di Bismarck dimora alla destra del fiume in una modesta casa di proprietà dello Straubingen che raggiungemmo in pochi minuti. Mi fecero salire al primo piano. Il principe era nel suo gabinetto, il cui uscio dà sul pianerottolo rimpetto alla scala. Nella camera erano poche sedie, un tavolo, una magnifica stufa di porcellana e, sdraiato a poca distanza dal padrone, un superbo cane. Sul tavolo era una piccola pistola col manico bianco.

Aperta la porta, il principe si levò in piedi e mi venne incontro offrendomi la mano.

— Sono lieto, Altezza, di poter fare la vostra personale conoscenza.

— Noi ci conosciamo da molto tempo!

— Sì, Altezza, oggi però ho il bene di vedervi la prima volta e di potervi stringere la mano.

Essendo venuto in Germania, io non potevo partirne senza avervi recato i saluti del mio Re; e vi ringrazio cordialmente di avermi concesso di venirvi a trovare sin qui.

— Che notizie mi portate d'Italia? Siete stato in Francia? Che dicono a Parigi?

— In Roma si è preoccupati per le probabilità d'una guerra nel caso che nelle prossime elezioni politiche in Francia vinca il partito reazionario. E poi non si è sicuri dell'Austria, il cui contegno non è punto amichevole verso il nostro governo.

Voi ci avete fatto dire dal barone Keudell che vorreste stringere sempre più col nostro paese legami di amicizia, e pertanto io son venuto d'ordine del Re a parlarvi di parecchie cose.

La primissima è d'interesse tutto particolare per l'Italia e la Germania, le altre di natura affatto internazionale.

Comincio da quella che riguarda noi e voi.

Io non so se bisognerà ritoccare il nostro trattato di commercio del dicembre 1865. Sono però convinto che con l'apertura del Gottardo le relazioni fra i nostri paesi saranno più frequenti e che in conseguenza sarà utile di mettere i cittadini delle due parti in condizioni tali che non trovino ostacoli nei commerci ed in tutti gli atti della vita privata. A tale scopo il mio governo vorrebbe che Vostra Altezza accettasse un trattato mercè cui i tedeschi in Italia e gli italiani in Germania fossero in uno stato di vera uguaglianza coi nazionali nello esercizio dei diritti civili.

Andiamo ora agli argomenti di maggiore interesse e sui quali mi spiegherò in poche parole.

Io sono incaricato di chiedervi se voi siete disposto a stipulare con noi un trattato di alleanza eventuale, nel caso che fossimo costretti a batterci con la Francia o con l'Austria.

Il mio Re vorrebbe inoltre mettersi d'accordo con l'Imperatore per la soluzione della questione orientale.

— Accetto di tutto cuore la proposta per un trattato che metta gli italiani in Germania e i tedeschi in Italia allo stesso livello dei nazionali e che per gli uni e per gli altri vi sia una perfetta uguaglianza nello esercizio dei diritti civili. Non posso però farlo senza averne prima parlato ai miei colleghi. Un trattato di tal genere mi conviene, perchè sarebbe una pubblica manifestazione del nostro accordo con l'Italia.

Andiamo al resto.

Voi conoscete le nostre intenzioni. Se l'Italia fosse attaccata dalla Francia, la Germania si riterrebbe solidale e si unirebbe a voi contro il comune nemico. Per un trattato a codesto fine potremo intenderci. Giova, però, sperare che la guerra non si renderà necessaria e che potremo mantenere la pace. La repubblica non può vivere in Francia che essendo pacifica; e se tale non fosse, correrebbe rischio di perdersi. A mio avviso la guerra sarebbe solamente possibile nel caso d'un ritorno della monarchia.

Le dinastie, in quel paese, sono per necessità clericali, e perchè il clero vi è irrequieto e potente, e perchè i Re, onde illudere le plebi, hanno bisogno di essere battaglieri, ne viene per conseguenza ch'essi son costretti ad attaccar lite coi vicini. È stato sempre così in tutti i tempi, e ne troverete esempi a cominciare dal regno di Luigi XIV.

Per l'Austria la posizione è tutta diversa. Io non oso supporre il caso che essa ci possa essere nemica; e vi dirò francamente che non voglio neanche prevedere codesta eventualità.

Domani dovrò trovarmi col conte Andrássy, e parlando con lui voglio in fede mia assicurarlo che non ho impegni con alcuno e che gli sarò amico.

La guerra russo-turca è proceduta contrariamente ad ogni previsione, e però l'Austria non ha avuto bisogno di passare la frontiera. Spero che questo bisogno non verrà, e che la lotta sarà limitata fra i due combattenti e potrà rimanere localizzata.

Noi teniamo a che l'Austria e la Russia siano amiche e cerchiamo di mantenerle tali.

Si possono discutere le varie ipotesi secondo le quali convenga risolvere la questione d'Oriente, e si possono anche determinare certi criteri onde procedere d'accordo. Bisogna però convenire che l'esercito russo non è stato fortunato fin oggi e che ci è ignoto per ora quale possa essere la fine della guerra.

Lo Czar deve fare grandi sforzi ancora. Se l'esercito russo ritornasse sconfitto, lo Czar potrebbe avere fastidi in casa sua.

Comunque sia è un affare che lo riguarda, anzi dovrò confessarvi, che in cotesta questione d'Oriente, la Germania non ha interesse alcuno, e per noi qualunque soluzione la quale non turbi la pace europea, sarà sempre accettata.

— Ammiro la vostra franchezza, e vi dico che se fossi al vostro posto non parlerei diversamente.

Resta, dunque, inteso che faremo una convenzione per assicurare ai tedeschi in Italia ed agli italiani in Germania l'esercizio dei diritti civili, come ne godono i nazionali. Potrebbe alla convenzione servir di base l'articolo 3.º del Codice Civile italiano, il quale accorda questo beneficio agli stranieri.

Siamo pure d'accordo per quanto si riferisce alla Francia.

Permettetemi ora, pel resto, che io vi sottoponga alcune domande:

Credete voi che l'Austria vi sarà sempre amica? Per ora essa ha bisogno di voi, dovendo riparare ai danni patiti al 1866 e voi soli potendo assicurarle la pace senza la quale essa non potrebbe riordinare le sue finanze e ricostituire il suo esercito. Ma l'Austria non può dimenticare il passato, nè può vedere di buon occhio il nuovo imperatore di Germania.

Voi dite che la Germania non ha alcun interesse nella questione d'Oriente. Sia pure. Devo, intanto, ricordarvi che il Danubio per una buona parte è fiume tedesco; esso tocca Ratisbona e vanno per la via del Danubio le merci tedesche al Mar Nero.

Noi italiani non possiamo essere disinteressati come voi nella soluzione della questione d'Oriente. Le voci che corrono ci fanno temere che noi ne saremo danneggiati. Se le grandi Potenze stabiliranno d'accordo di astenersi da ogni conquista nelle Provincie balcaniche e converranno che il territorio tolto ai turchi dev'essere lasciato alle popolazioni del luogo, noi nulla avremo a ridire. Vuolsi però che la Russia, per assicurarsi l'amicizia dell'Austria, abbia offerto a questa la Bosnia e la Erzegovina. Or l'Italia non potrà permettere che l'Austria occupi quel territorio.

Voi lo sapete: al 1866 il regno d'Italia rimase senza frontiere dalla parte delle Alpi orientali. Se l'Austria ottenesse nuove provincie, le quali la rinforzassero nello Adriatico, il nostro paese resterebbe stretto come entro una tenaglia e sarebbe esposto ad una facile invasione tutte le volte che ciò convenisse al vicino impero.

Voi dovreste aiutarci in questa occasione. Noi siamo fedeli ai trattati e nulla vogliamo dagli altri. Voi dovreste domani dissuadere il conte Andrássy da ogni desiderio di conquiste nel territorio ottomano.

— L'Austria segue una buona politica, ed io devo credere che vi persisterà. Un solo caso vi potrebbe essere che valga a rompere ogni accordo tra l'Austria e la Germania ed è una differenza nella politica dei due governi in Polonia.

In Polonia esistono due nazioni: la nobiltà ed il contadiname (la noblesse et le paysan), di natura ed abitudini diverse. La prima è irrequieta, faziosa; il secondo è tranquillo, laborioso, sobrio. L'Austria accarezza la nobiltà.

Se scoppiasse un movimento polacco, se l'Austria lo aiutasse, noi dovremmo opporci. Noi non possiamo permettere la ricostituzione di un regno cattolico alle nostre frontiere. Sarebbe la Francia del Nord. Oggi, ne abbiamo una; allora avremmo due Francie, le quali naturalmente sarebbero alleate e noi saremmo in mezzo a due nemici.

La risurrezione della Polonia ci nuocerebbe anche per altri motivi; essa non potrebbe avvenire senza la perdita di una parte del nostro territorio. Ora noi non possiamo rinunziare a Posen e a Danzica, perchè l'impero tedesco resterebbe scoperto dalla parte dei confini russi e perderebbe i suoi sbocchi nel Baltico.

L'Austria sa che non può ritornare indietro e sa che noi siamo amici leali. Essa è in una buona via e non ha interesse di abbandonarla. Se mutasse, se si facesse protettrice del cattolicismo, muteremmo anche noi, ed allora, per conseguenza, saremmo con l'Italia. Per ora nulla ci dà a credere che questo avvenga.

Non cerchiamo coi sospetti di dar pretesto a che l'Austria cangi politica. Vi sarà sempre tempo a provvedere.

Il Danubio non ci riguarda. Esso è navigabile da Belgrado in poi; a Ratisbona non vi sono che alcune zattere (quelques radeaux).

L'Austria al 1856, nel Congresso di Parigi, per suo proprio interesse trascurò la Confederazione germanica nella Commissione pel Danubio ed in verità non ce ne era bisogno. L'Austria fa i suoi commerci per la via di Trieste e di Amburgo.

La Bosnia, come tutta la questione orientale, non tocca gli interessi tedeschi. Se potesse esser causa di dissidi tra l'Austria e l'Italia ce ne dorrebbe, perchè vedremmo combattersi due amici, che vogliamo siano in pace.

Del resto, se l'Austria prenderà la Bosnia, l'Italia si prenda l'Albania o qualche altra terra turca sull'Adriatico.

Io spero che le relazioni del vostro governo con quello di Vienna diverranno amichevoli e col tempo anche cordiali. Nulladimeno, se v'impegnaste contro l'Austria me ne dorrebbe, ma non faremmo la guerra per questo.

A questo punto si apre la porta ed entra il conte Erberto di Bismarck con un fascio di telegrammi. Egli li dà al padre, il quale, dopo averli letti, ordina le relative risposte e l'altro se ne parte.

Quasi immediatamente dopo si presenta la principessa di Bismarck, la quale porta al marito una limonata minerale.

Mi alzo ed egli:

— Mia moglie.

Presento alla signora i miei complimenti. Il Principe beve e la Principessa esce. Rimasti di nuovo soli riprendo la parola.

— Comprendo il vostro contegno verso la Corte di Vienna e lo rispetto.

Permettetemi, però, di farvi osservare che l'unità germanica non è ancora compita. Dal 1866 al 1870 avete fatto miracoli, ma avete molte popolazioni tedesche fuori del territorio dell'impero e certamente presto o tardi saprete attirarle a voi.

A voi non dispiace il territorio austriaco. Voi venite qui ogni anno, e Gastein, che segna con le Alpi la vera frontiera della Germania, ha per me un significato; può essere anche una predizione....

— Ah! no, voi v'ingannate. Io son venuto qui anche prima del 1866. E poi ascoltate:

Noi abbiamo un grande impero da governare, un impero di 40 milioni di abitanti, con vaste frontiere. Esso ci dà molto da fare, e non vogliamo, per ambizione di nuove conquiste, rischiare quello che abbiamo. L'opera alla quale ci siamo dedicati assorbe la nostra mente ed il nostro tempo.

Noi abbiamo molte difficoltà da superare. Il Re, alla sua età, non può ricevere grandi scosse. Ha fatto moltissimo per la Germania e bisogna che riposi.

Abbiamo, nel nostro territorio, parecchi principi cattolici, una regina cattolica ed anche francese, un clero irrequieto che a tener tranquillo bisogna sottoporre a leggi speciali. Noi siamo interessati al mantenimento della pace. Se ci offrissero qualche provincia cattolica dell'Austria, la rifiuteremmo.

Ci venne imputato che vogliamo l'Olanda e la Danimarca.

Che mai ne faremmo? Abbiamo abbastanza popolazioni non tedesche, per non doverne volere delle altre. Con l'Olanda siamo in buoni termini e con la Danimarca le nostre relazioni non sono cattive. Finchè sarò ministro sarò con l'Italia, ma pur essendo vostro amico non intendo romper con l'Austria.

Al 1860, io mi trovava a Pietroburgo, ma ero con voi di cuore. Seguendo i vostri successi, n'ero contentissimo, perchè i vostri successi convenivano alle mie idee.

Dopo tutto ciò dovrò ripetervi che noi desideriamo voi siate amici dell'Austria. Nella soluzione della questione d'Oriente, si può trovare un accordo, prendendo voi in compenso una provincia turca dell'Adriatico, qualora l'Austria prendesse la Bosnia.

— Una provincia turca sull'Adriatico a noi non basta, non sapremmo che farne.

Noi verso l'Oriente non abbiamo frontiere; l'Austria è al di qua delle Alpi e può entrare nel regno quando a lei piaccia. Noi nulla vogliamo dagli altri; saremo fedeli ai trattati, ma vogliamo essere sicuri in casa nostra.

Parlatene al conte Andrássy.

— No, non voglio toccare la questione della Bosnia e molto meno quella delle vostre frontiere orientali. Lasciamole per ora. Io non voglio trattare argomenti che possono dispiacere al conte Andrássy, perchè voglio tenermelo amico.

— Va bene; fate come meglio credete.

Ora ditemi un poco.

Voi tenete alla pace e sperate che questa possa durare.

Abbiamo trattato l'ipotesi che in Francia possa vincere il partito reazionario e che possa ritornarvi la monarchia. Contro questo avvenimento, abbiamo convenuto che bisogna provvedere.

Ma facciamo un'altra ipotesi:

Se dalle elezioni generali in Francia riuscissero vincitori i repubblicani, non potreste trovare il modo d'intendervi?

Questa domanda non ve la fo a caso.

Io vidi a Parigi il deputato Gambetta, il quale ha molta influenza nel suo paese. Abbiamo discorso a lungo sulle condizioni politiche della Francia e sulla necessità della pace europea, anche pel consolidamento della repubblica. Io non gli nascosi che sarei venuto da voi ed egli mi manifestò il desiderio di un accordo con voi e volle che io ve ne parlassi.

Io comprendo che un'alleanza tra la Francia e la Germania non è ancora possibile, perchè gli animi in quel paese sono troppo inaspriti (aigris) dopo le sconfitte patite. Ma havvi un punto sul quale potreste intendervi, e l'Italia vi seguirebbe; è quello del disarmo.

— Un'alleanza con la Francia repubblicana sarebbe senza scopo per noi.[4] Il disarmo dei due paesi non sarebbe possibile. Questo argomento prima del 1870 fu trattato con l'imperatore Napoleone, e dopo tanto discutere fu provato che il concetto di un disarmo non può riuscire nella pratica. Non furono trovati ancora nel dizionario i vocaboli che fissino i limiti del disarmo e dell'armamento. Le istituzioni militari sono diverse nei varii Stati, e quando avrete posto gli eserciti sul piede di pace, non potrete dire che le nazioni, le quali hanno aderito al disarmo, siano in eguali condizioni di offesa e di difesa. Lasciamo questo argomento alle Società degli amici della pace.

— E allora limitiamoci al trattato di alleanza pel caso che la Francia ci attacchi.

— Prenderò gli ordini dell'Imperatore per trattare in via ufficiale un'alleanza eventuale.

L'ora essendo tarda ed essendo esauriti gli argomenti che dovevo trattare, mi levai per congedarmi.

— Resterete ancora a Gastein? — chiese il Principe.

— No, Altezza. Ogni permanenza in questi luoghi sarebbe inopportuna. Non ho dato il mio nome nè all'albergo di Europa a Salisburgo, nè qui all'albergo Straubingen.

— Allora, arrivederci.

— Arrivederci.

18 settembre. — Alle 9 ¾ del mattino lasciai Wildbad-Gastein, prendendo posto in un carrozzino, il quale in tre ore mi portò a Lend. Il treno non era ancora giunto e bisognò attendere qualche ora alla stazione.

Cotesta di Lend è la ferrovia che viene dal Tirolo e conduce in Germania. Alle 2 p. partimmo; alle 5 p. eravamo a Salisburgo e a Monaco alla mezzanotte. — Scesi all'albergo delle Quattro Stagioni.

Monaco di Baviera, 19 settembre. — È a Monaco un Inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Re d'Italia. In verità io non comprendo perchè debba tenersi una rappresentanza diplomatica in Baviera. Dopo la costituzione del grande impero, i principotti tedeschi non hanno più voce in capitolo nella politica europea. I trattati si fanno a Berlino ed il Gran Cancelliere pensa ed agisce nell'interesse di tutti i popoli e di tutti gli Stati tedeschi.

La legazione a Monaco è tenuta dal conte Rati-Opizzoni. Il suo ufficio è una vera «sine cura». Ancora non ha casa e vive in albergo, dove lo trovai. Il foglio prediletto che a lui giunge d'Italia, è l'Unità Cattolica.

Da Monaco telegrafai al Re e al presidente del Consiglio i risultati del mio colloquio col principe di Bismarck.

Al Re, col quale avevo la cifra in francese, scrissi così:

«J'ai parlé avec Bismarck. Il accepte traiter alliance défensive et offensive dans le cas où la France nous attaque. Il prendra les ordres de S. M. l'Empereur pour traiter officiellement.

«Je retourne à Berlin, toujours aux ordres de V. M.».

Il dispaccio all'on. Depretis fu nei termini seguenti:

«Ebbi a Gastein conferenza due ore con Bismarck. Accetta trattare alleanza eventuale, qualora Francia attacchi. Accetta art. 3 Codice Civile quale dimostrazione politica. Rifiuta trattato eventuale contro l'Austria. Questione Orientale non tocca interessi Germania. Prenderà ordini dell'Imperatore onde trattare ufficialmente. — Scrivimi Berlino».

Alle 3 ¼ p. sono partito da Monaco. Il conte Rati-Opizzoni ebbe la cortesia di accompagnarmi alla stazione.

Berlino, 20 settembre. — Arrivo a Berlino alle 7,45. Trovo una lettera del dottor Giovanni Valeri, professore di lingua e letteratura italiana della principessa imperiale Vittoria, moglie del principe Federico Guglielmo, erede del trono germanico. Il Valeri, che era venuto personalmente all'albergo nella mia assenza, mi scrive che avrebbe a parlarmi di qualche cosa d'importante e però chiede di vedermi. Lascia il suo indirizzo: Deutsch Haus — Potsdam.

Gli telegrafo che poteva venire in giornata, in quella ora che a lui sarebbe parsa opportuna.

Verso le 11 ant. gli onorevoli Ludwig Loewe e Federico Dernburg, deputati al Reichstag, vengono a nome dei colleghi e dei membri del Landtag a manifestare il loro desiderio di tenere un banchetto parlamentare per me. Consento, lasciando ai medesimi la scelta del giorno.

Il Loewe è progressista, il Dernburg è del partito nazionale-liberale.

Il conte di Launay viene a visitarmi e mi reca due telegrammi del Re. Annunzio al nostro ambasciatore che il principe di Bismarck aveva accolta favorevolmente la proposta di un trattato che accordi ai cittadini italiani in Germania l'esercizio dei diritti civili alle uguali condizioni dei nazionali.

I telegrammi del Re sono uno del 17, in risposta alla mia lettera da Parigi dell'11 settembre, e l'altro del 20, in risposta al mio dispaccio da Monaco.

Il primo è così concepito:

«Merci pour votre lettre, qui m'a fait beaucoup de plaisir parce que je vois que vos idées sont parfaitement d'accord avec les miennes. Je remarque cependant que vous ne me parlez pas des aspirations ministerielles.

«Faites moi le plaisir de me télégraphier si je dois écrire quelque chose au prince de Bismarck, ou si vous ferez de vous-même sans moi. Je vous souhaite bonne réussite dans tout et je me fie entièrement dans votre expérience et habileté. Bien des amitiés

Victor Emmanuel.»

Il secondo telegramma è del seguente tenore:

«Je vous remercie. Tachez d'avoir quelque document positif pour pouvoir traiter.

Victor Emmanuel.»

L'onorevole Depretis non si affrettò a rispondere al mio dispaccio da Monaco, talchè dovetti sollecitarlo. Ed allora egli, la sera del 20, telegrafò:

«Ricevuto ieri tuo dispaccio».

Gli scrivo la seguente lettera nella quale gli fo una narrazione del mio colloquio col principe di Bismarck:

«Berlino, 20 settembre 1877.

Caro Depretis,

Ieri da Monaco di Baviera ti trasmisi in cifra il seguente dispaccio telegrafico: «Ebbi a Gastein una conferenza di due ore con Bismarck. Accetta trattare alleanza eventuale, qualora Francia attacchi. Accetta art. 3 del Codice Civile quale dimostrazione politica. Rifiuta trattato eventuale contro Austria. — Questione Orientale non tocca interessi Germania. — Prenderà ordini dell'Imperatore onde trattare ufficialmente. — Scrivimi a Berlino».

A S. M. che avevo promesso tenere informato dello stesso argomento, telegrafai anche in cifre nei termini seguenti: «J'ai parlé avec Bismarck. Il accepte traiter alliance défensive et offensive dans le cas où la France nous attaque. Il prendra les ordres de S. M. l'Empereur pour traiter officiellement. Je retourne à Berlin, toujours aux ordres de V. M.».

Ti avverto che nulla ho detto a Launay delle nostre pratiche per l'alleanza, con lui essendomi soltanto limitato a discorrere dell'art. 3 del Codice Civile.

Eccoti come sono andate le cose:

Giunsi in questa città il 14 alle 7 del mattino. A mezzogiorno fui a trovare il barone Holstein, al quale manifestai il desiderio di vedere il principe di Bismarck. Egli affacciò varie obiezioni di forma e di sostanza.

Il Principe è a Gastein. Una visita colà, essendo una località molto piccola, salterebbe agli occhi di tutti e darebbe occasione ad ampi commenti alla stampa europea. Sarebbe più conveniente vederlo qui, in una grande città molte cose potendo farsi senza che il pubblico se ne avvegga. Soggiunse che il Principe sarebbe lieto di vedermi e di parlarmi, essendo già stato avvertito del mio viaggio in Germania.

Queste erano le obiezioni sulla sostanza.

In quanto alla forma, l'Holstein fu d'avviso che bisognava valersi dell'opera del barone di Bülow per chiedere una udienza al Principe. Nel ministero degli esteri havvi disciplina e non si osa fare cosa alcuna fuori della gerarchia.

— «Del resto il di Bülow, egli concluse, è nella piena confidenza del Principe, anzi in questi tempi egli è il vero ministro degli affari esteri in assenza del gran Cancelliere».

Fui introdotto dal sig. di Bülow. È un uomo sui sessant'anni, gentilissimo, che mi accolse come un vecchio amico.

Egli sapeva che sarei venuto a Berlino, essendone stato informato dal conte Launay.

Dopo una discussione generica sugli interessi politici della Germania e dell'Italia, dopo aver convenuto che le due nazioni, avendo gli stessi principii a sostenere, lo stesso nemico a combattere, debbano essere unite e concordi, il di Bülow promise che avrebbe scritto al Principe e che lo avrebbe prevenuto del mio desiderio di vederlo.

Il 15, di Bülow ed Holstein vennero a cercarmi all'albergo, ma io era uscito. L'Holstein mi scrisse allora che doveva darmi qualche notizia.

Andai subito e seppi che il Principe aveva risposto affermativamente e che mi aspettava a Gastein. Senza metter tempo in mezzo, la sera alle 8 partii e in 17 ore fui a Monaco, donde mi recai a Salisburgo, pernottandovi.

Il 17 alle 9,45 del mattino presi la via di Lend, dove arrivato alle 2 p. m. fittai una vettura, la quale in sei ore mi portò a Gastein.

Da Lend salendo la montagna dalla quale si precipita l'Ache, la strada è difficile ed i cavalli stentano a camminare. Si entra in una gola detta il Klamm-Pass, stretta, scura, fredda, donde poi si esce nella vallata di Gastein, tortuosa, lunga parecchie miglia. Le cime del Klamm-Pass ed i monti che chiudono la vallata erano ricoperti di neve ed io non mi ero provvisto di forti abiti, onde ripararmi dal freddo.

Giunto a Gastein, che è alla fine della vallata, anzi sotto la cima del Reichenberg, ero stanco e mi sarei volentieri riposato. Nonostante, trasmisi una mia carta e poscia scrissi un biglietto al principe di Bismarck, il quale mandò subito il suo segretario per scusarsi che non poteva venire lui stesso di persona per la sua malferma salute, ma che mi avrebbe subito ricevuto.

Andai e stemmo insieme dalle 7 ½ alle 10 di sera, discorrendo di tutto ciò che d'interessante presenta l'Europa e che, per quanto specialmente ci riguarda, troverai in sunto nei miei precedenti telegrammi.

Della nostra conferenza avrai una ampia relazione. Per ora ti dirò che, se per la questione d'Oriente non esiste un trattato scritto fra i tre imperatori, sono fissate, però, da loro le condizioni secondo le quali in date evenienze la questione medesima deve esser sciolta. Se la Russia si avanzerà, l'Austria occuperà la Bosnia e l'Erzegovina e, in caso d'una ripartizione del territorio turco, se le annetterà. Avendo io osservato che l'Italia non potrebbe vedere con indifferenza l'ingrandimento dell'Austria alla sinistra dell'Adriatico, Bismarck mi rispose:

«Prendetevi l'Albania».

Ed avendogli dichiarato che non ci pensavamo punto e che bisognava ch'egli si frapponesse affinchè ci fosse dato un compenso con una rettificazione delle frontiere dalla parte delle Alpi, mi osservò che di ciò non si poteva parlare a Vienna e che la Germania, amica delle due potenze, doveva desiderare e procurare la pace tra l'Austria e l'Italia, e che nello stato attuale e finchè l'Austria non mutasse politica, doveva tenere il silenzio per non suscitare sospetti.

Ora, io sarei d'avviso che stante gl'insuccessi russi ed in previsione d'una ripresa d'armi in primavera, convenisse parlar chiaro e franco a Vienna e Londra, e dir netto il nostro pensiero. Intanto, bisognerebbe affrettare i nostri armamenti e provare che anche noi abbiamo tutti gli argomenti per farci ascoltare.

La mia corsa da Berlino a Gastein fu un mistero. A Salisburgo ed a Gastein agli alberghi non fu rivelato il mio nome.

Di Launay seppe della mia visita a Bismarck, ma secondo le tue istruzioni gli tacqui il vero scopo della visita.

E qui fo punto per oggi, e cordialmente ti saluto.»

Alle 8 di sera viene il dottor Valeri per dirmi che la Principessa imperiale desiderava una mia visita.

Risposi che mi sentivo onorato della cortese manifestazione della nobile Principessa e che lasciavo a S. A. I. di fissare il giorno che avrei potuto vederla.

Il Valeri disse che la Principessa era invaghita dell'Italia e che ne seguiva con amore i progressi. Lieta della visita a Berlino del Presidente della Camera Italiana, S. A. I. avrebbe gradito che egli si fosse recato a Potsdam.

Pregai il cortese messaggero di ringraziare l'illustre Principessa e di dirle che sarei stato fortunato di poterle ripetere a voce l'omaggio della mia devozione.

Berlino, 21 settembre. — Il telegramma di ieri dell'on. Depretis non essendo soddisfacente replicai col seguente:

«Ebbi tuo laconico dispaccio telegrafico. S. M. il Re fu più gentile di te. Avverti che di Launay ignora trattative alleanza contro Francia».

Il sig. di Holstein mi scrive:

«Berlin, 21 sept. 1877.

Monsieur le Président,

Pouvant parfaitement imaginer à quel point toute tentative de vous trouver chez vous serait une pure formalité, je me permets de m'annoncer d'avance, pas par égard de la personne du soussigné, mais parce que j'ai quelque chose à communiquer.

J'aurai donc l'honneur de passer chez vous demain samedi vers deux heures.

Dans le cas où cela viendrait à déranger des combinaisons antérieures, je vous prie de croire que je serai ici à votre disposition depuis midi à 5 heures.

Veuillez agréer, monsieur le Président, l'expression de mes sentiments de très haute considération.

Holstein.»

All'una pomeridiana vado dal sig. di Holstein; mi dà la notizia che il principe di Bismarck sarebbe venuto a Berlino.

Mi chiede quale impressione aveva io portato del mio viaggio a Gastein. Gli rispondo che n'ero contentissimo e che speravo, al prossimo ritorno del Principe alla capitale, di potermi confermare in quei convincimenti che avevo tratti dal mio colloquio con S. A. pel bene delle due nazioni.

Il sig. di Holstein è d'avviso che difficilmente avrei potuto rivedere il principe di Bismarck. Questa volta S. A. sarà molto occupato e difficilmente avrà tempo a ricevere. Nulla di meno potrebbe fare una eccezione.

L'Holstein ha l'incarico di dirmi che S. A. R. e I. la principessa Vittoria desiderava una mia visita e che facilmente mi avrebbe invitato a pranzo al palazzo di Potsdam. Egli soggiunge che non avrei tardato a ricevere l'invito.

Ritornato all'albergo, trovo una lettera del deputato Dernburg che mi annunzia per domenica, 23, il banchetto parlamentare. La lettera è così concepita:

«Berlin, den 21 sept. 77.

Monsieur le Président,

Vous avez bien voulu accepter le petit banquet, que les membres du Reichstag et du Landtag, présents à Berlin, ont eu l'honneur de vous offrir comme témoignage des leurs sympathies pour vous, Monsieur le Président, pour vos collègues et pour votre grande et belle patrie.

Puisque vous avez eu la bonté de nous laisser le choix du jour, nous nous avons proposé le dimanche prochain. Nous nous permettrons de venir vous chercher à cinq heures moins un quart.

Je suis heureux de pouvoir vous exprimer, au nom de mes collègues et dans mon nom personnel, le vif plaisir et la grande satisfaction que votre présence en Allemagne nous inspire. J'en tire les meilleurs conséquences pour les relations futures des deux peuples déjà si étroitement unis.

Agréez l'expression de ma considération la plus distinguée avec laquelle je suis, Monsieur le Président, votre très dévoué

F. Dernburg

membre du Reichstag et chef rédacteur de la Nationalzeitung

Rispondo così:

«Kaiserhof, ce 21 7mbre.

Monsieur et cher collègue,

En remerciant vous et vos collègues, au Reichstag et au Landtag, de l'honneur que vous me faites, j'accepte l'invitation et je vous attendrai à l'hôtel dimanche 23 courant à l'heure que vous m'avez indiquée. Agréez, monsieur, mes salutations bien cordiales».

Scrivo all'on. Depretis:

«Il conte di Launay, avendo ricevuto un biglietto dal Maresciallo di Corte, il quale annunziava che la Principessa mi voleva a pranzo la sera di domenica 23, egli venne ad informarmene.

La coincidenza dei due inviti ci mette in imbarazzo, non sapendo come svincolarci dall'uno o dall'altro. L'ambasciatore di S. M. assume l'incarico di trovar modo a risolvere il problema».

La sera, ad ora tarda, ricevo da Roma il seguente dispaccio dell'on. Depretis in risposta al mio del mattino:

«Mio laconismo solito cresce maggiormente per malattia che mi tiene da otto giorni obbligato a letto. Ma tu devi dargli interpretazione come attestato di prudenza che non esamina e riconosce per opera tua il risultato del colloquio del quale mi hai dato notizia. Lasci in sospeso una grave quistione e la più urgente. Procura, se non puoi ottenere altro, di lasciare un addentellato che ci permetta di ritornarci sopra e d'insistere.[5] Pare a me si dovrebbe comprendere che nella questione Orientale non è possibile rimanere indifferenti ad una soluzione che ingrandisce Austria».

Immediatamente risposi telegrafando così:

«Con vivo rincrescimento apprendo tua malattia. Eventuale ingrandimento Austria fu trattato e può essere ripreso.[6] Bisogna però trattare a Vienna e Londra la questione».

22 settembre. — Pel pranzo a Potsdam e pel pranzo parlamentare fu trovata una conveniente soluzione, grazie a S. A. I. la principessa Vittoria, che diede la priorità alla rappresentanza nazionale.

Il conte di Launay mi scrive su cotesto argomento:

«Tutto è regolato per lo meglio. In risposta al mio dispaccio al Maresciallo di Corte, ricevo l'avviso che l'invito a Potsdam è rimesso a lunedì».

Il signor Federico Goldberg, corrispondente di varii giornali tedeschi e stranieri, avendomi domandato un colloquio consentii che fosse venuto a vedermi.

Giunto all'ora indicatagli mi domandò prima di tutto se io fossi qui con una missione del governo italiano presso quello dell'Imperatore germanico e se ero contento della mia visita a Berlino. Risposi ch'ero venuto nella capitale dell'impero germanico senza alcun incarico officiale, e che ero soddisfatto del mio viaggio, perchè avevo potuto constatare personalmente le simpatie dei tedeschi per l'Italia.

Il sig. Goldberg lodò la politica italiana. Disse che nelle condizioni dell'Europa era molto difficile il mantenimento della pace e che per la Germania e per tutte le altre nazioni una guerra avrebbe potuto riuscire disastrosa, perchè non ben definite ma incerte ancora le alleanze.

Avendomi chiesto che cosa io pensassi della guerra turco-russa, risposi:

— È un atto di prepotenza alla quale l'Europa assiste impassibile. Ciò non sarebbe avvenuto senza la dissoluzione delle antiche alleanze.

— Avete ragione, ma l'impero tedesco non può condursi altrimenti. La Germania non ha alcun interesse in Oriente, e se prendesse parte per la Turchia ne avremmo la guerra generale, perchè la Francia avrebbe facile pretesto per correre sul Reno e vendicarsi delle sconfitte patite al 1870. Vi assicuro, però, che ai tedeschi non è simpatica la Russia e che le perdite da essa subite sul Danubio hanno fatto piacere alla nostra popolazione.

— Non comprendo tutto ciò. Al 1870 la Russia, restando neutrale, influì ai vostri trionfi. Se la Russia fosse intervenuta anche diplomaticamente — e il povero Thiers fece tutto il possibile per riuscirvi — l'esercito tedesco non sarebbe giunto a Parigi. Voi dovreste in conseguenza essergliene grati.

Politica estera: memorie e documenti

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