Читать книгу La vendetta paterna - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 3

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Pochi, in verità, diedero sè stessi alla patria quanto Francesco Domenico Guerrazzi. Pochi ebbero la sua fede in un avvenire di libertà e di civiltà, la sua tenacia nei propositi, il suo carattere, il suo ingegno. Pochi lavorarono come lui alla effettuazione di un ideale.

E l'ideale di F. D. Guerrazzi fu una Italia democratica, veramente libera, senza padroni e senza servi, senza moderati e senza preti, una Italia conscia di sè, senza tutori e senza pupilli, una Italia infine che non avesse paure, che non commettesse vigliaccherie. A questo ideale bellissimo, che fu pure quello di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, consacrò egli la giovinezza, la virilità, la vecchiaia.

L'ideale di Mazzini, di Garibaldi, di Guerrazzi e tanti e tanti altri e pensatori, e soldati, e martiri, non si è per anche tradotto in fatto. Ma non disperiamo dei destini della patria. Ma lavorino i giovani, ma non si addormenti il popolo, e l'Italia vagheggiata da quei pensatori, da quei soldati, da quei martiri, sarà.

In alto i cuori, o gioventù d'Italia! Fede e ardire, o popolo italiano! e l'alba dei giorni promessi, dei giorni tanto aspettati, arriderà alla patria, veramente a libera vita risorta.

Ma questo non avverrà fino a che «l'odio per qualunque servitù e l'odio per qualunque tirannia» non avrà messo ben salde radici nei petti, come per tempo le mise in quello fortissimo di F. D. Guerrazzi.

Nato a Livorno il 12 agosto del 1805, da gente antica, dedita un tempo all'agricoltura e alla guerra, il Guerrazzi ebbe educazione «popolana e severa», come egli stesso ci dice nelle sue auree Memorie. Il padre, che era lettore fervidissimo della storia di Roma antica, gl'inculcò primo nell'anima l'amore alla libertà e l'odio verso ogni tirannide. Un giorno che il piccolo Francesco Domenico si mostrava meravigliato delle geste di Pompeo e di Catone, il padre gli disse: «Eppure uomini erano e mortali come te!...», facendogli in questo modo capire che egli pure, quando gli fosse bastato l'animo, li avrebbe potuto emulare. E certamente una grande impressione fece sul giovinetto questa sentenza che il padre gli andava spesso ripetendo: «Meglio vale vivere un giorno come un leone, che venti anni come una pecora»; sentenza che Tippoo-Saib volle incisa sui gradini del suo trono.

Per la libertà e per la patria, suoi santissimi amori, incominciò presto il Guerrazzi a fare, a soffrire.

Sedicenne, mentre studiava legge a Pisa, venne per un anno bandito dalla università, reo di aver letto e commentato ai compagni i giornali che recarono le novelle di Napoli tumultuante. Gli parve quell'atto, come era, un abuso di potere, e, adiratissimo, andò a Firenze per chiedere giustizia al presidente del così detto buon governo, Aurelio Pilotini. — Questi gli disse di non potere far nulla in suo favore. Egli allora gli rispose, spartanamente: «Io ti compiango, signore, se occupando un posto, dove, anche senza volere, fate del male, e al malfatto non potete riparare, neanche volendo, la vostra coscienza vi consente di rimanere.» — Sono parole che ci dicono quanta fierezza, nella quasi universale paura, albergava nell'anima del giovinetto Guerrazzi; parole che pochi, anche oggi, in tanto strombazzamento di libertà, avrebbero il coraggio di pronunziare dinanzi all'ultimo rappresentante del potere costituito.

Laureatosi poi in legge, e ritornato a Livorno, nel 1831 ebbe una condanna di sei mesi di confino a Montepulciano, apparentemente per avere espresso idee troppo ardite in un elogio di Cosimo Del Fante, vecchio soldato delle guerre napoleoniche, elogio che egli lesse nell'Accademia labronica, ma in realtà perchè caduto in sospetto di avere aiutata l'Umbria ad insorgere.

A Montepulciano fu a visitarlo Giuseppe Mazzini. Quelle due grandi anime s'intesero, e suggellarono in un bacio fraterno la loro fede all'Italia. Noi non sappiamo le parole che il Mazzini e il Guerrazzi si scambiarono; ma certamente dovettero essere parole di fuoco.

Dopo i sei mesi di confino, il Guerrazzi andò a Firenze, smaniosissimo di fare. Colà strinse amicizia con Pietro Colletta, con Gabriele Pepe, col Giordani, col Leopardi, col Capponi, col Ranieri, con quanti erano a Firenze e letterati e patriotti, ma non trovò in tutti lo ardimento che lo animava. I più credevano immaturi i tempi ed erano di avviso che si dovesse ancora aspettare. Egli no; e, d'accordo con pochi, fece. Cercò di rovesciare il governo granducale e di dare così alle cose di Toscana un più libero assetto. Ma, scoperto, fu rimandato a Livorno «con ordine di non uscire dalle porte e ritirarsi a casa alle ore ventiquattro», com'egli ci narra. Oggi si direbbe: fu ammonito. Ciò non per tanto, continuò in Livorno a darsi da fare; e fu largo di aiuti di ogni sorta coi perseguitati dal governo papale che, fuggiti di Romagna, erano di passaggio per la Toscana.

Stretto in dimestichezza con Giuseppe Mazzini, il profeta dell'Italia, del popolo, fondò con lui e con Carlo Bini, candidissima anima, lo Indicatore Livornese, un foglio che, con la scusa di propugnare il romanticismo, propugnava la rivoluzione.

Accusato poi di avere aiutata la impresa di Savoja, fu arrestato di notte tempo, messo in prigione «fra, omicidi, donne di mala fama e facinorosi di ogni maniera», e rinchiuso indi a poco nel forte Stella di Portoferrajo, tra i prigionieri di Stato. Colà dentro, nel 1834, in mezzo a patimenti di ogni fatta, scrisse l'Assedio di Firenze, il suo capolavoro, il libro che non morrà. Già il Guerrazzi aveva scritto una tragedia intitolata da Priamo, i Bianchi e i Neri, che furono rappresentati al Teatro Carlo Lodovico di Livorno, tra un uragano di fischi, e la Battaglia di Benevento. Ma dello scrittore diremo poi.

Nel 1847, ai primi fremiti di libertà che novellamente corsero l'Italia, lanciò fuori la rovente sua lettera al Mazzini, una lettera che quei fremiti aumentava, una lettera che era una scossa elettrica. In essa diceva al grande agitatore genovese: «Vieni, prima che la mia vita cessi, come rivo tra i sassi, nei giorni del sole. Io per aspettarti mi soffermo sopra il limitare della morte, che invoco. Impotente a stringere la spada come il Bardo normanno, mi ti porrò al fianco nel giorno della battaglia vicina; m'avanza qualche immagine di poeta nella testa, qualche affetto nel cuore da potere inalzare un ultimo canto — o la requie — o il trionfo dei valorosi.»

Corso a Firenze, dove Leopoldo II ondeggiava tra gli austriaci e le riforme, il Guerrazzi arringa il popolo, gli parla di patria, di libertà, lo sprona a fare, a sorgere, a imporre il suo volere al Granduca titubante. È arrestato nel gennaio del 1848 per ordine del Ridolfi, e rinchiuso nel Falcone di Portoferraio. Uscito di carcere in marzo, dopo la proclamazione della Costituente, ricomparisce in Firenze, allora tutta sottosopra, e dagli elettori di San Frediano viene eletto a far parte del Consiglio generale toscano. Nel settembre di quello stesso anno è mandato a Livorno perchè plachi il popolo e lo consigli a non commettere violenze, le quali molto avrebbero compromessa la causa della libertà. Ascoltata è la sua parola, seguito il suo consiglio. Ritornato a Firenze, vien nominalo ministro dell'interno; e, con Montanelli e con Mazzoni, pure ministri, cerca di mantenere il Granduca sulla via delle riforme. Ma il Granduca, impauritosi, fugge. Allora il Guerrazzi, il Montanelli, il Mazzoni, prendono le redini delle cose e costituiscono il governo provvisorio della Toscana. Sventano la congiura del generale Laugier, stato incaricato di sottomettere nuovamente il paese, e si rendono molto benemeriti della patria.

Nella notte del 27 marzo 1849, viene il Guerrazzi nominato dittatore della Toscana: e, in quella carica, dà prova di alto coraggio e di grande energia. Ha da lottare contro gli austriacanti, contro i lorenesi, contro i moderati, anche contro il popolino, ma non si sgomenta per ciò; lotta e non si lascia vincere. È una fibra di ferro che, non soltanto non si rompe, ma nemmeno si piega. In quei giorni, F. D. Guerrazzi fu veramente grande; grande quanto un reggitore di stati espertissimo; grande quanto un eroe antico.

Avvenuta, il 12 aprile, la restaurazione granducale, il Guerrazzi fu imprigionato nel forte di Belvedere. Indi, prima che gli Austriaci entrassero in Firenze per accompagnarvi Leopoldo II, fu trasferito nel Maschio di Volterra. Da quel carcere passò, nel novembre del 1849, in quello delle Murate di Firenze; e vi rimase fino al 1853. In questo secondo carcere scrisse parte della Beatrice Cenci e La Vendetta paterna. Così non rimaneva egli inoperoso.

Fattogli il processo, venne condannato all'ergastolo: ma la condanna gli venne poi commutata in quella di confino in Corsica.

Si cercò nel processo di coglierlo in fallo per abuso del pubblico denaro, che egli avrebbe commesso nella sua qualità prima di ministro, poi di Dittatore: ma non vi si riuscì. Fu anzi provato che, in tutto il tempo che egli rimase al potere, non solo non aveva abusato del denaro del pubblico, ma vi aveva rimesso «del suo più del doppio dello stipendio.»

A propria difesa scrisse il Guerrazzi l'Apologia, nella quale vi hanno pagine eloquentissime, che anche oggi non si leggono senza ammirare.

Il Guerrazzi giunse a Bastia nell'agosto del 1853 e vi rimase fino all'ottobre del 1856. Ivi terminò la Beatrice Cenci e scrisse la novella «Fides».

Intimatogli poi il «domicilio coatto», fuggì a Capraja, e di lì andò a Genova. Vi rimase fino a che il danno e la vergogna della patria durarono. Nell'epico cinquantanove ricomparve in Toscana, e molto si adoperò per l'annessione di quella terra al regno unito d'Italia. Fu quindi eletto deputato prima a Rocca S. Casciano, poi a Livorno, poi a Casalmaggiore, poi a Caltanissetta, finchè, nelle elezioni del 1870, con patente ingiustizia ed ingratitudine, non venne lasciato in disparte; di che molto egli si accorò ed indispettì.

Nella camera dei deputati il Guerrazzi sedè costantemente a sinistra, e spesso parlò, ascoltato sempre. Memorabile è il discorso che pronunziò contro la cessione di Nizza alla Francia. Disse parergli delitto levare col voto la patria a Garibaldi, quando egli, per ridarci con la spada la nostra, aveva messo a repentaglio la vita; e ammonì che cedere Nizza alla Francia era lo stesso di conficcare un chiodo nella bara della unità italiana.

Generose, magnanime parole, ma vane!

Contro la setta dei moderati, come egli la chiamava, il Guerrazzi se la prese a morte, e attribuì ad essa tutte, o quasi, le disgrazie che poi all'Italia derivarono. Ma se egli avesse vissuto ancora, avrebbe detto forse egualmente di coloro che ai moderati successero nel governo della cosa pubblica, poi che gli uni non gli sarebbero parsi molto migliori degli altri.

Ritiratosi a vita privata, nella sua nativa Livorno, fu spettatore di vergogne e di codardie senza nome, e ne rimase stomacato. La ingratitudine della nuova Italia, al cui risorgimento sapeva di aver tanto contribuito, lo ferì nel più vivo dell'anima. Mentre il governo livornese gli aveva fatto offrire una cattedra di letteratura nella università di Pisa, cattedra che egli sdegnosamente rifiutò, nessuna offerta gli venne mai fatta dal governo della nuova Italia, nemmeno quella del più umile posto di professorucolo, quasichè valesse egli di meno dei tanti ex preti, ex frati, ex austriacanti, ex Borbonici, ex papalini, verso dei quali i ministri della monarchia furono così prodighi d'impieghi e di onorificenze.

Il Guerrazzi, nauseatosi della vita cittadina, ove tanto fango aveva visto agitarsi, si ritirò nei suoi ultimi anni al Fitto di Cecina, nella forte Maremma toscana, e colà visse «in compagnia del mare, delle foreste scarmigliate dal vento e della malaria, invocando, e non potendo ottenere, pace», come egli stesso ebbe a scrivere. Dalla fiera solitudine del Fitto di Cecina levava di tanto in tanto la voce a difesa dei diritti del popolo e a condanna di coloro che quei diritti ledevano, e le parole del vecchio solitario avevano un'eco potente in tutta l'Italia. — Vicino a morire, e conscio del suo prossimo fine, manteneva tutta la fierezza della gioventù, tanto da scrivere ad un amico: «Riapro il mio testamento per ordinare che, morto, mi brucino, e la cenere conservino in casa. La mia pelle, per gli Dei superi ed inferi, non servirà da tamburo in fiera ai ciarlatani moderati.»

La morte lo colse improvvisamente al Fitto di Cecina nella sua villa della Cinquantina, la sera del 23 settembre 1873. Ebbe grandi funerali di popolo, ai quali tutta Italia prese parte in ispirito, ed onorata sepoltura vicino alle ossa paterne, sul monte a capo della terra che gli fu culla, come, prima che lo sdegno gli suggerisse le sopra riportate parole, era stato suo desiderio.

A quella tomba le madri italiane conducano i figli, e dicano loro le parole che nella splendida introduzione alla Beatrice Cenci il Guerrazzi scrisse di sè:

«Qui dentro riposa un uomo, che ebbe la fortuna nemica fino dall'ora che gli versarono sul capo l'acqua del battesimo: tutta la sua vita fu una lunga lotta con lei; ma le lotte con la fortuna assomigliano a quella di Giacobbe con l'Angelo. Superato, non vinto, amò, soffrì e si travagliò del continuo pel decoro della Patria. Non provò amici popoli, nè principi; — lo saettarono tutti. Dall'alto e dal basso gli lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli logorarono le carceri; parte l'esilio. Prigioniero, meditò e scrisse: libero, si affaticò per la salvezza comune, e principalmente per quella de' suoi nemici ed emuli. Invano la ingratitudine tentò riempirgli l'anima d'odio. Le acque dell'affanno lasciavano ogni amarezza nel passargli sul cuore. Offeso, gli piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto, che tenne la vendetta passione di menti plebee: nè perdonava soltanto, ma (più ardua cosa assai) egli obliò.

«La spada della legge, confidata nelle sue mani, non convertì in pugnale di assassino. — Quando altro non potè fare, col proprio seno tutelò la vita di uomini che sapeva essergli stati, e che avrebbero durato ad essergli, nemici. — Il popolo un giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo gittarono alle moltitudini insanite come schiavo nel circo delle fiere. Consumato nelle viscere, egli cadde sopra un mucchio di rovine e di speranze; e non pertanto, morendo, lasciava alle genti il desiderio di costumi migliori, e di tempi meno infelici. Le sue dita, con ultimo moto, segnarono per testamento sopra questa terra desolata le parole: Virtù, Libertà.» —

La forte, l'eroica, la socialistica Livorno decretò a quel suo grande figliuolo un monumento; e questo sorse il 17 maggio 1885, nella piazza che da F. D. Guerrazzi prese nome. Bene! Ma perchè raffigurare il Guerrazzi seduto, in atteggiamento di un notaio che stia rogando un suo atto, o di un fattore che pensi i saldi annuali? — Il Guerrazzi, o scultore Lorenzo Gori, doveva essere raffigurato su dritto della bella, della nobile persona, su fieramente impettito, tutto muscoli, in atto o di contemplare, superbo e sdegnoso, le bassezze pullulantigli ai piedi, o di gittare alle turbe la parola della libertà, la fatidica parola contenuta nei libri di lui. Oltre che con le azioni valorosissime, il Guerrazzi lavorò alla effettuazione del suo bello e forte ideale con le opere dello ingegno: esse, può dirsi, furono tutte a questo scopo dirette.

E bene a ragione poteva egli scrivere al Mazzini: «Scopo supremo per me era tentare se scintilla alcuna restasse nel corpo della patria per accendere di vita le presenti e le future generazioni. Non mi pareva che corresse stagione di badare come le acconceremmo il manto o la corona; la questione era quella d'Amleto: essere o non essere. Tutto il mio concetto sta in questi versi di Francesco Petrarca:

«Che si aspetti non so, nè che si agogni

Italia, che i suoi guai par che non senta,

Vecchia, oziosa e lenta.

Dormirà sempre, e non fia chi la svegli?

La man le avess'io avvolta entro i capegli!» —

«Quindi reputai carità adoperare tutti i tormenti praticati dagli antichi tiranni, e dal Santo Uffizio, ed altri ancora più atroci inventarne per eccitare la sensibilità di questa patria caduta in miserabile letargia; io la feriva e nelle ferite infondeva zolfo e pece infocati; la galvanizzava, e Dio solo conosce la mia tremenda ansietà quando le vedevo muovere le labbra livide e gli occhi spenti».

Non potendo egli combattere una battaglia, scriveva un libro; ed il libro, diremo con Giuseppe Mazzini «aveva in sè tutte le ispirazioni, tutte le alternative, tutto il furore d'una battaglia»; — il libro era una battaglia veramente. Contro chi? — Contro i nemici della patria e del popolo, chiunque si fossero, da dovunque venissero, prima contro i tiranni estranei, poi contro quelli indigeni, contro tedeschi, contro preti, contro moderati, contro tutti furfanti. E le pagine del Livornese bruciavano come tizzoni ardenti, come bottoni infocati, tagliavano come spade affilate, come baionette, come mannaie, facevano piaghe profonde, sanguinanti permanentemente, non rimarginabili.

I colpiti dalla prosa del Livornese non trovavano più pace, quella prosa li stigmatizzava, l'infamava, li metteva alla berlina. Erano allegre vendette quelle del Guerrazzi, fatte in nome dell'Italia e del popolo! Si leggano la Battaglia di Benevento, l'Assedio di Firenze, la Beatrice Cenci, il Pasquale Paoli, il Secolo che muore, l'ultimo lavoro di lui, e si giudichi. Si giudichi se i libri del Livornese sono o no battaglie campali; se in essi il Livornese riuscì o no a rimescolare cielo, terra e inferno. L'Italia la rimescolò tutta, da un capo all'altro. La sua Battaglia di Benevento e il suo Assedio di Firenze furono il «sorgi e cammina» gridato alla patria che pareva cadavere.

In proposito del Guerrazzi bene osserva Giuseppe Mazzini: «L'ufficio dello scrittore s'è rivestito nel suo concetto dei caratteri d'una missione. Audacie, pericoli, dolori inseparabili da ogni missione, egli ha tutto accettato. Ei s'è incarnata la patria. Le ferite della patria son sue ferite; i nemici della patria son suoi nemici; ed egli ha cacciato, non potendo altro, il guanto a tutti; papa, impero, oppressori o seduttori stranieri, oppressori o seduttori domestici, sono flagellati, flagellati a sangue uno per uno.»

Dalla lettura dei libri del Guerrazzi i giovani italiani si alzavano soldati, si alzavano eroi, come se tocchi da un qualche intuibile nume benefico. Ed entravano pieni di fede nelle cospirazioni, affrontavano sorridendo il patibolo, salivano cantando sulle barricate, si scagliavano come leoni nelle battaglie, e morivano col santo nome d'Italia sulle labbra....

Oh immortale rettorica, se rettorica è questa! —

I pedantuzzi d'Italia, essi che mai non fur vivi, ostentano oggi un grande disprezzo per le opere letterarie del Guerrazzi, sembrando loro che l'arte in esse difetti. Ma il popolo ama il Guerrazzi, lo legge sempre, e vi piange, e vi freme, e vi si entusiasma. E le opere letterarie del Livornese si continuano a ripubblicare, ed è giustizia che sia così.

Un grande artista, ce ne duole pei pedantuzzi d'Italia, fu F. D. Guerrazzi. Se l'arte di lui non è più quella che noi, oggi, seguiamo, quella che i nuovi tempi richieggono, non vuol dire; è sempre arte, e rispettabile sempre. — Ma come si debbe scrivere la lingua che parliamo, può il Guerrazzi insegnarci anche oggi.

Egli diede alla prosa italiana atteggiamenti nuovi, scultorii. Egli, in tempi nei quali belavano le arcadie e sfringuellavano le accademie, infuse nella prosa italiana l'anima che l'era venuta a mancare, le ridiede il sangue, il colore, la forza. — Fu egli chiamato il Titano della prosa, e la denominazione sta, poi che titanica è invero la prosa sua, così straordinariamente insolita.

Ma guai agli imitatori di lui! Guai a chi volesse, soprattutto, imitarne lo stile. Questo, noi pure ne conveniamo, è, nei primi lavori del Livornese, gonfio e rettorico assai. Ma se ne corresse il Guerrazzi; e ciò può vedersi nel Pasquale Paoli, nell'Asino, nel Buco nel muro, nelle Vite del Doria, del Ferrucci, del Burlamacchi, nello Assedio di Roma, nel Secolo che muore, nei quali libri lo stile non ha i voli turbinosi che si notano negli altri, ma procede quasi sempre calmo e sereno per via naturale e piana.

Nei primi lavori il Guerrazzi, come scrittore, non s'era ancora fatto; non aveva ancora una individualità propria. Era bensì l'innamorato di Giorgio Byron, il suo scolare. Il Guerrazzi si fece di poi e divenne originalissimo scrittore. A qualunque genere letterario ei si accostasse, sapeva trasformarlo ad immagine sua, vi lasciava la sua impronta.

La fantasia che egli ebbe fu alata, fu poderosa, fu straordinaria; proprio. Se fosse stato poeta nel vero senso della parola, avrebbe rivaleggiato con l'Ariosto. Ma un Ariosto molto triste e fosco sarebbe stato egli!

Romanziere, è il più immaginoso che abbia l'Italia. I romanzi di lui, sebbene s'intitolino da soggetti storici, sono, più che altra cosa, parti della sua fantasia.

E, questa, nella sua corsa sbrigliata, non gli dava agio di fermarsi a considerare se quel carattere era umano, se quella situazione era naturale. Ed è cosi che i romanzi guerrazziani difettano spesso di umanità e di naturalezza. Ma non debbonsi giudicare coi criteri che del romanzo oggi abbiamo. Si pensi che il Guerrazzi non poteva essere un romanziere naturalista. Poi, egli aveva un genere di romanzo tutto suo; e, si aggiunga, un genere di storia, un genere di satira tutti suoi speciali. E, in quanto al genere satirico, che autore di satire il Guerrazzi! Ricorda Sterne ed Heine, ma non è nè l'uno nè l'altro; è lui, nessun altro che lui.

Oltre che immaginosissimo romanziere e fine satirico, oltre che prosatore eletto, fu pure un erudito dei primi, da non scomparire nemmeno di fronte al Voltaire, che egli, anzi, si studiò d'imitare.

La erudizione che egli ebbe fu varia e profonda, e la si trova disseminata nelle sue opere, siano romantiche, siano storiche, talora anche a scapito di queste, poi che a volte ne intralcia l'andamento e ne rende difficile la lettura.

Se si fosse messo di proposito a scrivere di estetica sarebbe oggi tra i più poderosi nostri critici. Di questo ci assicurano moltissime sue pagine, nelle quali si ragiona d'arte con un senso del bello che pochi invero posseggono.

Il Guerrazzi non va certamente immune da difetti, e noi, sebbene ammiratori fervidissimi di lui, ci guarderemmo dal proporlo in tutto e per tutto ad esempio. Ma egli va preso com'è, e, così com'è, è grande: grande tanto come scrittore quanto come cittadino.

Livorno agosto 1888.

G. Stiavelli.

La vendetta paterna

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