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§ I. Orazio, come tutti i personaggi di romanzo, prima ricusa a raccontare, e poi racconta; però che diversamente non si stamperebbe la storia.

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«In quanto a capelli diventati bianchi tutto ad un tratto, notò un bandito mentre scuoteva la pipa per farne uscire la cenere del tabacco, ho inteso raccontare, che quando don Flaminio il Marchese di santa Prassede maledisse i suoi figliuoli, le imprecazioni del vecchio bruciassero i capelli su cotesti loro capì, e ne calcinassero i cervelli come pietra in fornace: insomma, che il fuoco di Sodoma non facesse men peggio, nè più tardi.»

«Fanfaluche!» esclamò Orazio avviluppandosi nel gabbano, e mutando fianco sopra il letto di foglie, che si era fatto sotto la quercia.

«E come potete voi affermare che le sono fanfaluche?»

«Perchè lo so. — Ah!, soggiunse poi, troppo più dura sorte incolse a quei miseri.»

«In fede di Dio, interrogò una voce diversa che usciva da un cespo, che cosa mai poteva loro accadere di peggio?»

«Marco, rispose Orazio con parole lente, e parti poi gran male la morte se ti coglie subita, e improvvisa? Di minuto in minuto limarti anima e corpo, e mandarteli dispersi come limatura di ferro, allungarti l'agonia, e non darti la morte, lasciarti la smania di rifuggirti sotto terra, e levarti il fiato di percuoterla, e dire: o terra, cuoprimi! Questo vedi, Marco, è troppo peggio della famosa spinta che un giorno o l'altro ti darà mastro Alessandro, per la quale fa conto di trovarti nello altro mondo senza che tu te ne accorga nemmeno.»

«E pure, riprese il bandito che fu primo a parlare, che il caso dei figli del Marchese di santa Prassede fosse successo per lo appunto come io l'aveva contato seppi per cosa certa da un cugino della cognata del guardaportone del palazzo Massimi, che di coteste faccende doveva essere a parte meglio di voi. A voi chi lo ha raccontato, Orazio?»

«A me? Nessuno.»

«Or dunque, come lo sapete?»

«Io ho veduto morire i figli maledetti.»

«La notte è lunga; e al sonno, quando posa su le palpebre del bandito, par di sedere su i pettini da lino: or dunque narraci questa storia, Orazio; noi ti staremo a udire.»

«Io conto, e narro quando me ne piglia l'estro, disse Orazio riponendosi a giacere sopra il letto di foglie: — voi poi, soggiunse poco dopo, se non sapete logorare meglio o peggio il vostro tempo, fischiate.»

Ma il giovanetto, che soleva cantare le canzoni composte da Orazio, gli si pose accanto; mise le mani incrociate sopra la sinistra spalla di quello, e sopra le mani appoggiò la guancia; poi levando dolcemente gli occhi, così prese piuttosto a mormorare, che a dire:

«Racconta, mio buono Orazio, racconta. Dio ti ha creato apposta per raccontare, come il rosignolo per cantare. — Orazio, in dieci colpi di archibugio tu ne sbagli due; ma le tue storie valgono anche meglio dei tuoi tiri. Orazio, tu sai condurre una imboscata come il Cavaliere dei Pelliccioni[1]; ma più hai talento per esporre un racconto. Tu sai tutto; tu ti sei trovato a tutto. Io penso, che tu ti fossi presente quando Dio appiccò in mezzo al cielo il gran lampione del Sole; tu devi avere insegnato a Noè a pigiare l'uva; e se non portasti mattoni alla torre di Babele ha da essere caso. Se non sapessi che tu sei carne battezzata, io ti crederei quel cane di giudeo che negò a Cristo di riposare all'ombra della sua casa, onde ei ne va condannato a ramingare pel mondo fino alla consumazione dei secoli. Se il Papa ci offrisse una coppia dei suoi cardinali in cambio di te, noi gli diremmo: — Santo Padre, tienti i tuoi cardinali, e lasciaci il nostro Orazio. — Veda un poco papa Clemente se possiede in corte un fiore di lingua come sei tu: forse il Baronio, che scrive storie da far dormire ritti? Racconta, Orazio, racconta una storia; tando tu ci metti quanto a cogliere una rappa di finocchio, e a strofinartene i denti.»

Orazio a mano a mano che il giovanetto parlava si levò su la vita a sedere, gli toccò carezzando i capelli, e così prese a dire:

«E non ci è verso; bisognerà che racconti la storia. Finchè l'uomo vive ha mestieri di un cappellinaio per appiccarvi il gabbano dei suoi affetti, per quanto logoro e rattoppato e' sia; ed io non posso negare niente a questo ragazzo. Il mondo va alla rovescia; gli usignoli incominciano a prendere i rospi: tu mi sforzi a parlare, Genesio, e poi tu piangerai; guarda bene ve' ch'io non ti veda nè ti senta; che alla croce di Dio ti do uno scavezzone da intronarti la testa; e il peggio è, che il caso al solo pensarci sopra mi stringe la gola, e nella zucca non ho goccia di vino. Ad ogni modo udite.»

La vendetta paterna

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