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§ IV. Don Marcantonio Massimi.

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Ora voi altri, se già non lo sapete, avete da sapere come in Roma s'incontrino tre maniere di giustizia: una per noi cavalieri della foresta e gentiluomini delle strade maestre, ed è di canapa bianca rattorta a meraviglia, e bella: la seconda pei signori della città che possiedono più lignaggio che ducati, ed è di ferro forbito e tagliente, da mettere la voglia in corpo di provare una seconda volta a cui l'assaggiò la prima: la terza spetta ai signori che hanno più scudi che nobiltà; e questa è di cera, avvegnadio prenda il marchio dalla moneta che vi s'impronta sopra. Ora i Massimi possedevano ricchezze stragrandi e parentado potentissimo, in ispecie li signori Principi Colonna, i quali tanto e tanto s'industriarono presso Cardinali e Auditori di ruota, che ottennero, quantunque con difficoltà assai, la liberazione del bando pei signori di santa Prassede.

Tornarono i padroni a Roma — notte tempo: — taciti, guardinghi rientrarono nel palazzo dei loro maggiori, non altrimenti che se fossero ladri venuti per rubare. Salite le scale si avviarono alla stanza mortuaria del marchese Flaminio; ma per arrivarvi fu loro mestieri attraversare la sala dove avevano ammazzata la bella Siciliana. Appena misero i piè sopra la soglia, invece di passare addirittura per lo mezzo, furono visti studiarsi a rasentare la parete; e don Marcantonio in ispecie, per costume di persona oltre ogni credere lindissimo, passò in punta di piedi come si usa da cui vada per guazzo, per amore della calzatura. Arrivati che furono nella stanza del defunto genitore s'inginocchiarono tutti intorno al letto in sembianza di pregare, ed appoggiarono il capo alle materasse: di subito però, come se avessero toccato fuoco lavorato, si levarono d'impeto e partirono[4]. Don Marcantonio quando tornò a passare per la sala mi chiamò a sè con un cenno del capo; e mostratomi col dito il luogo dov'era caduta la matrigna, mi disse sotto voce:

«Mi sembra, che in tanto tempo avreste pur dovuto trovare un momento per tòrre via cotesta macchia.»

«Macchia! risposi io, e di che?»

Tutti allora mi furono addosso, susurrandomi nel medesimo punto all'orecchio:

«Di sangue... di sangue...»

Ond'io, inchinatomi rispettosamente, soggiunsi loro:

«In verità di Dio, padroni miei riveriti, si assicurino che con le mie proprie mani ho lavato sette volte il pavimento.»

Allora si strinsero nelle spalle, e senza arrogere motto si partirono: io mi rimasi lì attonito, pensando che vagellassero.

Breve però fu il convivere loro in famiglia: uno non poteva sopportare la vista dell'altro: ingiurie aperte non alternavansi mai, nè mai si levava rumore in casa, bensì di tratto in tratto si laceravano con motti coperti, che parevano morsi di cane da presa. Alfine chi se ne andò a ponente, e chi a levante: insieme rimasero soli due fratelli, stati per lo innanzi svisceratissimi, don Marcantonio e don Luca, di cui lo amore aveva retto alla forza segreta, che li menava a odiarsi scambievolmente: però ognuno di questi faceva vita nelle proprie stanze.

Quinci a breve io vidi don Marcantonio farsi giallo in volto quanto i fiorini di oro di Firenze: gli occhi gli s'infossarono, e incominciò a guardare strambo; le gote e le tempie gli apparvero stranamente infossate, e su queste certe vene scure gli camminavano a modo di serpi verso il cervello. Ma quello che parve, e fu singolare davvero, consistè in questo: che di tanto magnifico egli era stato in prima, incominciò ogni giorno ad assottigliare la Spesa fino al puro necessario; licenziò i famigli; vendè i cavalli. Inoltre sul principio poco, più tardi punto uscì di casa, anzi dalla sua camera da letto: soffriva molestamente che io gliela nettassi: ed un bel giorno mi disse alla scoperta che me gli togliessi davanti agli occhi, e che non aveva bisogno dei miei servizi; lasciassi da mutargli lenzuola, salviette, nè niente, perchè era meglio tenersi intorno biancherie sudice, che servi assassini che spiano tutto, e ad altro non attendono che a rubarvi, e forse anche ad ammazzarvi.

E siccome mi era saltato il grillo di non trangugiarmi cotesti improperi in santa pace, e faceva le viste di rispondere, egli agguantata una partigiana me la scagliò con tanta rabbia contro al corpo, che per miracolo la scansai; ed ella andò a conficcarsi nella porta, dove dopo avere tentennato un bel pezzo si tacque. La barba e i capelli gli crebbero sordidi e rabbuffati; lerce le mani; le unghie nelle punte nere come collari di tortora.

Non accoglieva quel tristo nelle sue stanze nessuno, tranne certi sensali giudei e certi poveri diavoli con esso loro, che si menavano dietro come pecore condotte al macello: entravano cheti e languidi; cheti partivano, e barcollanti: qualche volta s'intendeva da cotesta porta uscire un rumore come di disputa, ma a voce fioca, che indi a breve diminuiva e poi cessava, quasi grido di gallina a cui venga tirato il collo; tale altra egli schiudeva un tantinetto la imposta perchè si mutasse l'aria della stanza, e vi si metteva davanti a fare la guardia: allora si spandeva fuori per la casa un fetore di lezzo da ammorbarne così, che tre bocce di acqua nanfa non bastavano a cacciarlo via. Agli operai, mercanti ed altra gente siffatta, quando venivano per danari, comecchè per la sua misera vita pochi fossero quelli che avevano credito con lui, faceva rispondere essere andato in campagna; a san Martino tornassero. I fratelli non trovavano la via a fargli metter fuori le pensioni a loro assegnate, che ora con questo, ora con quell'altro sotterfugio gli andava scarrucolando; finalmente dopo subbugli e minacce ottenevano formale promessa di pagamento; il giorno seguente venissero; troverebbero i danari belli e contati. Ma non eravamo a nulla: allorquando la notte seppelliva nel sonno ogni animale, ecco don Marcantonio alzarsi da letto, e con un lumicino, che pareva spento, appressarsi al forziere, aprirlo, e ai ducati quivi dentro con molto ordine disposti volgere queste parole:

«Ah sciagurati, sconoscenti! che Dio vi danni, e il diavolo vi porti: perchè voi volete abbandonarmi? In che vi offesi? quando vi nocqui? quale mai danno avete riportato da me? Sopra l'anima, avanti di Dio vi adoro: io m'inchino, mi prostro davanti la vostra divinità: io vi ho ordinati, io messi in compagnia, io vi ho fatto gustare le dolcezze della famiglia. Sperperati nulla siete, uniti fate forza al cielo[5]; e perchè dunque, dopo avervi raccolto a prezzo della eterna salute e della mia fama di gentiluomo, volete lasciarmi in così grossa brigata? Che vi manca? ingratissimi! Forse non vi trovate in cassa forte? o forse non è bastante il serrame? o mancai mai pure una volta di chiudervi con diligenza? Qual madre vegliò mai il suo figliuolo com'io faccio con voi? Ed io mi sto qui del continuo seduto, pronto alla vostra chiamata, vigile per sovvenire ai vostri bisogni di notte... ma voi punto non vi commuovete; la pietà è chiusa nel vostro cuore di metallo. Andate; chiunque affligge suo padre non può far sì che non capiti male, ed io lo so; — fuori, serpenti, di casa mia; fuori, tizzoni d'inferno... io vi maledico... vi maledico... vi maledico.»

E qui farneticando co' capelli ritti abbrancava ducati, e a manca e a diritta li sbatacchiava furiosamente per terra. Quando poi di ducati andava piena ogni cosa, e del forziere già si vedeva il fondo, tocco da raccapriccio, don Marcantonio sentiva cascarsi il cuore, gli pareva avere commesso sacrilegio; onde mutati ad un tratto intento e voglie, con mano paralitica si dava a raccogliere la sparsa moneta camminando su le ginocchia per ogni parte del pavimento, e in cotesta attitudine bestiale così andava in suono pietoso lamentandosi:

«Ahi finalmente vi prende ribrezzo della ingratitudine vostra... voi piangete... Cessate le lacrime, in nome di Dio, o che il cuore mi si spezza: tiriamo un frego su gli errori passati: punto, e da capo: voi sapete che non posso fare a meno, ch'io vi ami... tremendamente io vi ami. Tornate tornate, figliuoli prodighi, a casa vostra; — tornate nelle braccia del padre; oggi bandiremo festa solenne, ammazzeremo la vitella grassa... Ma i fratelli pretendono le loro pensioni...? Che pensioni, e non pensioni? Quale hanno diritto costoro di strapparmi il cuore? E gli operai, e i creditori, e le loro famiglie come faranno a vivere se tu non paghi i tuoi debiti? E dov'è la necessità, che tutti cotesti uomini campino? Crepino cento volte prima ch'io mi separi dal mio dio, dal mio tutto.»

Intanto aveva riposto, e chiuso come prima i ducati nel forziere. Allora, asciugatisi il sudore e la polvere dalla fronte, guardava con occhi stralunati il forziere, e in suono cupo di voce aggiungeva:

«Mi hanno prima a scorticare vivo da capo a piedi, che tormi di sotto il più piccolo baiocco.» E la mattina se si presentavano i fratelli, ed ei li bistrattava; se operai e mercanti, ed ei per quanto era lunga la sala li rincorreva con la partigiana, e gli avrebbe seguitati giù per le scale, se la paura di lasciare la camera incustodita non lo avesse richiamato a dietro più che di passo. Alla fine dai oggi, dai domani, venivano i birri di corte a gravare i mobili di casa; e il marchese don Marcantonio si chiudeva nella sua stanza, tirava chiavistelli, metteva bracciòli, rizzava puntelli come se avesse dovuto sostenere l'assedio: ma sentiti i primi colpi alla porta, pauroso che gli atterrassero l'uscio, e vedessero le sue ricchezze e il suo stato, calava subito agli accordi; e domandato a quanto sommava il debito, udiva per il buco della chiave la voce del birro ammonirlo cosi:

«Eccellenza! ducati mille per sorte principale.»

«Ahi!» — E traeva un guaio acuto come gli avessero strappato un dente.

«Eccellenza! ducati trentadue e baiocchi quindici per interessi scaduti alla ragione...»

«Ahi! ahi! — Ecci altro?»

«E ducati settantadue di spese, nelle quali vostra eccellenza è stata condannata...»

«Ahi, boia! tu mi fai morire a poco per volta, tagliami di un colpo solo la testa.»

«E ducati ottanta ammenda, nella quale la sacra Ruota vi ha condannato come temerario litigante...»

«Ahi!»

«E le spese del gravamento ducati dodici, e un po' di mancia, se piacerà a vostra eccellenza.»

«Un paio di forche alte quanto il Colosseo.»

«In tutto, eccellenza, ducati mille... cento... novantasei e baiocchi quindici.»

«Senti, famiglio, fatti in qua; mi pare ravvisarti dalla voce, e tuo padre fu certo dei familiari di casa mia... Che fa egli il padre tuo?...»

«Egli è morto cinquanta anni fa.»

«Ouf! Senti, famiglio, tu sai quanto sia il credito di casa Massimi, in ispezie pel suo parentado con la clarissima casa Colonna, e tu mi pari garzone troppo...»

«Eccellenza! garzone io? Traverso il buco della chiave vi servono male gli occhi; io ho sessanta anni suonati...»

«Ciò non monta, famiglio; io posso farti favore se ti preme avanzarti di ufficio.»

«A me non preme altro, che riscuotere i millecentonovantasei ducati e baiocchi quindici...»

«E non si potrebbe risparmiarne almeno cento, e più... vedi un po' se ti riesce...»

«Me li date, o non me li date...?»

«Via, anche sei...»

«Famigli, atterrate la porta.»

«Al diavolo te e la tua infame schiatta, brutto Giuda Scariotte: statevi indietro se la vita vi preme, che or ora vi pagherò.»

Quindi a breve si schiudeva a mala pena la porta, e ne usciva una mano scarna, che agguantava un sacco di moneta; e questo in gran fretta rovesciato si ritirava la mano come lampo, si chiudeva la porta con impeto, e si udiva per dieci minuti il cigolio di catenacci, paletti e bracciòli. — In una parola, il diavolo dell'avarizia aveva preso possesso dell'anima sua.

La vendetta paterna

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