Читать книгу Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 7

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Ragionando sempre alla medesima guisa, ognuno dei cento milioni di cattolici, come ha diritto di pregare nel tempio, possiede pari diritto sul tempio, su la terra che lo sopporta, e sul paese che serve a mantenere il tempio e i sacerdoti; e siccome ognuno non può nè deve portarsene via un frammento, può impedire e deve, che altri se ne impadronisca. Così Roma, nel concetto dei Preti diventò, quasi Tebe dalle cento porte, o piuttosto una casa aperta a tutti i venti; le chiavi essi impugnano, non mica per chiudere, bensì sempre per tenerne spalancato lo ingresso; e perchè accogliemmo il Prete e lo nudrimmo, eccoci fatti una cosa nullius; siamo preda del primo occupante: noi respinti dal dominio di casa nostra, mentre in casa nostra hanno potestà gente remotissime e selvaggie, le quali forse nè manco sanno Italia che sia, nè dove giaccia Roma.

Anco a noi sia lecito cavare una conseguenza dalla dottrina, che il Papato professa, la quale è questa: poichè per diventare padroni in casa nostra bisogna che il dominio sacerdotale cessi, e poichè il prete intendo esserne il portinalo per aprirne l'uscio a quanti presumono entrarci—sgombri dalle nostre dimore. Noi non ravvisiamo il vicario di Dio che letifica i suoi figliuoli con la libertà in colui, che ci vorrebbe sottoposti a perpetuo ed universale servaggio. E se vuol fare il portinalo vada in paradiso a dare la muta a san Pietro, che a quest'ora deve essere stracco.

Noi abbiamo bisogno di Roma però che colà si annidino tre voleri pari, e tre poteri dispari ad impedire con tutti i nervi, che la Italia si compia. Instituti barbari furono gli asili, i quali provocavano un dì più delitti, che non ne reprimessero lo pene un'anno; e tutta via sopportavansi; tanto è disagevole sradicare dalla società un'ordine di cose, il quale nei tempi ebbe pure argomento di vita, quantunque adesso siasi trasmutato in argomento di morte. Di fatti, nei tempi eroici e nei barbarici la espiazione del delitto importava molto all'offeso, ed alla famiglia di lui, al pubblico poco; oggi procede il contrario: e poichè i delitti si componevano allora con danari, di cui la voce più tardi si fa sentire nei petti mortali gagliarda sopra quella del sangue, premeva salvare il colpevole dai primi bollori dell'offeso, dove il grido del sangue supera quello dell'interesse. Anco sulla consegna dei rei, riparati in paesi stranieri, si pendeva incerti se la si dovesse ributtare, ovvero promovere; nè questo in tempi lontani, bensì pure ieri, nè da ingegni vulgari, al contrario eccellentissimi; a mo' di esempio dal Beccaria: e ciò perchè non reggevano da per tutto miti le leggi, nè sicuri ci si formavano i giudicati; ai tempi che corrono, se la libertà non fece troppi avanzi, e se la giustizia politica brancola sempre per acciuffare, per quanto poi spetta l'amministrazione della giustizia nei delitti comuni tra stato e stato, poco divario occorre; e quando fie abolita la pena di morte screzio, a mio credere, non ce ne sarà veruno.

Oggi, finalmente, acconsentendo a sensi civili sentiamo quanto sia indegno, che speri asilo nel tempio colui, il quale lacerò truculento i precetti del Dio che si adora là dentro; ovvero nella dimora dell'oratore, o negli stati del principe, cui ha da correre l'obbligo di operare in guisa che ogni parte di mondo vada immune da delitti. Solo dall'obbligo della consegna si escludono gli accusati e i condannati per colpe politiche; e questo io reputo ingenua confessione dei governi che nelle faccende di stato o non sanno, o non vogliono praticare giustizia. Or bene, ciò che la Corte di Roma nè anco ai tempi di Sisto V pativa, oggi patisce; nè soffre solo, bensì promuove, ostenta, e se ne vanta.

Ma là dove si trattasse sottrarre un capo dalla scure, e il rifuggito agitassero la paura ed il rimorso, di ora in poi egli avesse a strascinare la vita penosa come palla incatenata ai suoi piedi, nè inteso ad espiare l'antico potesse commettere nuovo delitto, forse vi sarebbe tale, che non approvando mai, pure compatisse alla pietà del sacerdote del mitissimo fra quanti Dii furono al mondo, e sono. Ora, ditemi, uomini italiani, egli è così che si mostra il sacerdote romano? Quando mai il preteso vicario di Cristo si mostrò avaro di sangue, comecchè innocentissimo? Costui mette lo sentenze di morte ai piedi di Cristo! Ma che mai gli hanno a dire i piedi di Gesù quando gli manca un raggio della bontà del suo cuore?[1] Quando ei fuggiva da Roma con la pisside di Pio VI in seno, e al fianco la donna Spaur, nata Giraud, egli non cessò mai (racconta la donna Spaur) supplicare il divino Redentore per la salute dei suoi persecutori, i quali più tardi mandava spietatamente a morte[2].

[1] Pio IX pose la sentenza di morte del Locatelli ai piedi del

Crocifisso, e poichè dai piedi di lui non gli venne ispirazione

alcuna, lo mandò al supplizio.

[2] Pendant toute la route il ne cessa d'adresser au Redempteur des

prières pour l'amour de ses persécuteurs, et de reciter le

breviaire et d'autres oraisons avec le père Liebel.—

Merita altresì essere notato il caso della pisside affatto

ignoto o poco manifesto. Il Vescovo di Valenza mandò a Pio IX

la seguente lettera, la quale gli fu consegnata solo il 21

Novembre 1818.

«Santissimo Padre

«Nelle sue pellegrinazioni, massime a Valenza dove morì, il grande Pontefice Pio VI portava la santissima eucarestia sospesa al petto proprio, o su quello dei prelati che lo accompagnavano, ed egli desumeva da questo augusto sacramento luce per la sua condotta, forza nei suoi patimenti, consolazione nei suoi dolori, pure attendendo il viatico pel suo passaggio alla eternità.

«Io possiedo in modo certo ed autentico la pissidina, o vasetto, che serviva a questo così santo, pietoso, e memorabile uso, e mi attento farne dono a Vostra Santità. Erede voi del nome, della sede, delle virtù, dei coraggio, e quasi delle tribolazioni del grande Pio voi forse terrete in qualche pregio questa modesta ma pure importante reliquia, la quale, io spero, non dovrà più essere adoperata in pari uso, e nondimanco chi conosce gli arcani della Provvidenza e chi, le prove a cui Dio serva la vostra Santità?—Io prego per voi con amore, e con fede.—

«Lascio la pisside dentro il borsellino che la conteneva appunto com'era quando se ne serviva Pio VI portandola attaccata al collo.—

«Io conservo grata memoria e riconoscenza profonda della bontà vostra verso me nell'ultimo mio viaggio a Roma; degnatevi, santo Padre, aggiungervi la vostra benedizione apostolica che aspetto prostrato ai vostri piedi.»

«Valenza 15 Ottobre 1848

«Pietro Vescovo di Valenza.

Relation du voyage de Pie IX a Gaète par M. la Comtesse Spaur, nèe Giraud. Paris. Antyot 1852. p. 9 et 27.

E poi ben'altra è la ragione dello asilo che adesso fre Roma ai masnadieri della terra. Non si tratta già salvarli alla pena, al contrario, spingonsi ad uccidere e; essere uccisi; non gli accoglie dopo commesso il deliti bensì gli ordina, e li manda a tuffarsi le mani nel sangue non alla espiazione, ma alla colpa: il danaro raccolto dalla pia credulità dei fedeli a Roma si converte in istrumenti di morte; costà si fabbricano pugnali che per temperare più taglienti dopo averli arroventati nel fuoco del sacro cuore di Gesù, spengono dentro l'acqua benedetta.—Che vorrete contrapporre voi altri sacerdoti, e sacerdotali? Per avventura, che ogni partito fu sempre giudicato buono quando o si difende, o vuolsi ricuperare il proprio? Di questo a suo tempo: intanto il Papa è o no! vicario di Cristo?—È.—Badate, Cristo rampognava Pietro quando percosse Malco i! servo del sacerdote Kaiaffa: «riponi il ferro; chi di coltello ammazza conviene che muoia.» Ora, di grazia, gli è questo il Cristo di cui si chiama vicario il Papa ovvero un altro?

Veramente, che i preti a Roma si sieno fatti complici di quanti masnadieri ci vomita il mondo da loro non si nega; anzi, si ostenta senza pur darsi pensiero che a cotesto modo operando rendono aborrita quella religione sotto la quale riparano i fatti nefari. La religione, essi pongono, come Federigo Barbarossa sospese vivi i corpi dei tortonesi prigioni, intorno alle torri nello assedio di Tortona, io vo' dire perchè i cittadini cessassero il saettame, o continuando, prima di arrivare ai suoi arnesi di guerra, traferissero i petti dei congiunti: ma se taluno si attentasse negare il rapporto della commissione d'inchiesta intorno lo stato delle provincie meridionali, io noto, che ne allego i fatti non già la esposizione, la quale dice e non dice, rivela e nasconde, biasima e loda, come le balie (ho udito raccontare) un passo ella muove innanzi e due indietro… si mostra e non si mostra, pari a Bertoldo quando si presentò con un vaglio davanti la persona al re Alboino; al pane sembra che senta orrore dire pane, e sasso al sasso, la piglia larga, e poi stringe a randa, leva a cielo la giustizia e il diritto per nabissare l'una e l'altro a mo' dei saltatori, che si tirano indietro e pigliano la rincorsa per isfondare i cerchi: i diritti altrui dissimula, gli spogliati oltraggia, e sovente ti richiama al pensiero quel Fimbria, di cui narra Valerio Massimo, che ai funerali di Caio Mario investì Scevola ferendolo malamente nel volto, e poichè costui si salvava fuggendo, Fimbria imbestiato gridava volerlo accusare al popolo; di che taluno maravigliando lo interrogava, che mai potesse apporre a Scevola, e Fimbria rispondeva: «—non avermi lasciato ficcare tanto il mio stile nel suo corpo da poterlo uccidere.»

Lasciamo coteste sazievoli e vulgari compilazioni monumenti di colpa, di piaggeria, di astio, e di paura a bandire un diritto appo il quale conquiste, trattati, prescrizioni, e tutto, viene meno; il diritto del popolo, che vivendo ara, difende, e ricupera la terra ove è nato, e morendo cresce con le sue ossa la terra dove giace sepolto. Lasciamole, dico, e condiderate sola la parte compilata dal deputato Castagnola copiosa di fatti quanto sobria di parole, e vedrete quale l'opera nefaria di Roma, e quale scellerata miscela per lei si faccia di religione, e di omicidii; mirabile a dirsi! Un Romano di Gioia, il quale per errore di mente si dà ad intendere essere campione della fede e difensore del trono, conosciuti tardi i compagni suoi, così lasciava scritto nei suoi ricordi: «siccome in questi era unicamente il pensiero di rubare…. cominciarono ad agitarsi contro di me dicendo:—noi siamo usciti in campagna e siamo chiamati ladri, dunque dobbiamo rubare, e se il nostro capo non fa come noi, mala morte farà, oppure rimarrà solo.» E tuttavia cotesti compagni suoi pigliavano nome di Giurati alla fede cattolica; con sacramento obbligavansi a difendere mediante la effusione di sangue Dio, il sommo Pontefice Pio IX, Francesco II re delle due Sicilie, ed a combattere i ribelli della Santa Chiesa[1]. Pasquale Forgione presso a morire, presago che i bersaglieri i quali gli stavano dinanzi fossero ordinati per metterlo a morte, disposto a confermare le sue dichiarazioni al confessore protesta combattere per la fede. Se gli obiettano la fede cristiana aborrire dalle stragi, dagl'incendii, dalle immanità di cui egli si è contaminata l'anima, egli risponde: «di questo non sapere niente, egli combattere per la fede, lui essere, benedetto dal Papa e possedere documenti chiari, mandatigli da Roma; chè chi combatte per la santa causa del Papa, e del Re Francesco non fa peccato.»—Nè costui si scuote punto allo annunzio della morte imminente, e nè al giusto terrore, che il giudice tenta incutergli con le parole:—«ma come di tante scelleraggini hai tu potuto tenere per testimone, e, nel tuo pravo concetto, complice la Madre di Dio portando appeso al petto questo laido abitino con la sua effigie del Carmine? Di peggio non potrieno fare li stessi demoni, tu hai deriso la religione, e Dio.»—Senza commoversi il Forgione persiste: «io, ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente con la benedizione non sarei stato certamente tradito[2]» Il Borjès, anch'egli, maledisse il momento in cui abbindolato, mentre crede trovarsi preposto a partigiani agitati dallo spirito della fede si mira attorno una collezione di rappresentanti di tutte le galere di Europa; lo stesso Tristany ebbe a mettere le mani addosso al Chiavone, e farlo fucilare pei suoi delitti: affermano che ciò cocesse al re Francesco, ed è credibile la fama imperciocchè vediamo licenziato il Tristany; e forse può anco darsi che costui ammazzasse il compagno meno per odio delle scelleratezze commesse, che per gara di comando: con gente siffatta s'indovina sempre quando si pensa al peggio.

[1] Relazione p. 172. 73.

[2] Relaz. alleg. pag.170, 71.

E' fu avvertito come Roma noccia forse assai più con i sobillamenti morali, che per forza di arme, e questo non sembra possa negarsi; nè danno siffatto muove solo dai preti, ma dal Borbone altresì, e dai Francesi. Quanto alle armi, agli ordinamenti, ed ai fini del Borbone, pari a quelli del Prete, e non occorre farne altra parola, senonchè meritano considerazione due cose: che il Pontefice come signore temporale non dovrebbe prendersi la scesa di capo pei negozi di Napoli; e s'ei lo fa ci è indotto dal pensiero di rattrappare la terra pel cammino del suo paradiso, come a cui ci vuol credere dà ad intendere, che possa espugnarsi il cielo rimettendo nelle sue mani il diritto del popolo sopra la terra; se sieno fratelli in Cristo può dubitarsi, ma fratelli nella tirannide si sentono e sono: l'altra, che Francesco Borbone stanziando a Roma si è posto in luogo strategico unico al mondo, e dico unico, imperciocchè colà non pure si trovi difeso da amici potentissimi, ma gli stessi nemici confessino non volerlo o non poterlo combattere; però con sicurezza intera, a bello agio, senza pericolo di un pranzo, o di un sonno turbato, egli ordina, insidia, trama, e mantiene la guerra civile: non valeva certo il pregio superare Gaeta; in ben altra fortezza si rinchiuse il Borbone; almeno Gaeta non ci fu impedita, o poco dagli amici nostri; di Roma adesso, così ci persuadono gli amici, noi dobbiamo rispettare le benedizioni apostoliche, e gli stiletti.

Ora ecco quanto allegano Francesco di Borbone, e i suoi fazionari in prò suo e di loro.—Noi ripigliamo il nostro; nostro il regno, nostri i popoli; ci vengono per baratti, per trattati, in virtù di carte sottoscritte, bollate, in buona forma, e guarentite; ond'è che ce ne cacciaste fuori? O piuttosto perchè vituperando il rapitore vi avvalete della rapina? Voi barattate le carte; gli spogliati siamo noi, e voi c'infamate per ladri se per ogni via c'industriamo riagguantare il nostro; sicuro! ai nemici si ha da nocere meno, che fie possibile, ma le sono sentenze da starsi nei libri del Grozio, e del Puffendorffio; un dì queste magnifiche cose non sapevano i principi, e non facevano; oggi le sanno ma non le fanno; ecco il divario che passa tra il vecchio e il nuovo.—

A me Borbone che apponete voi? Il diritto del popolo? Ma voi tremate a verga quando obbligati mettete fuori questo diritto; le parole escono scorticate dai denti stretti, e su le labbra vi levano le gallozzole come se fossero corrosive: voi amate, e voi fate capitale del popolo come lo amo, e lo avrei curato io; un'ora libero ma per darsi il padrone, e poi schiavo per omnia saecula saeculorum amen. Ma via.. di che popolo mi contate voi? Certo non erano popolo i miei ministri corrotti per tradirmi, nè popolo i generali comprati per vendermi; e dalle mani di questi non da altri si agognavano consegnate le mie spoglie, forse il mio sangue; e poichè si voleva mutare soma, non servitù, procuravasi con affannosa sollecitudine, ch'egli, il popolo, non se ne accorgesse, e nè manco levasse il muso di su la consueta paglia che pasceva. Certo, costoro cupidi di guadagnare, non ci era pericolo si spendolassero per tema di perdere, e tuttavia ebbero premii non solo dei traditori arrisicati, ma sì dei guerrieri virtuosi; i miei di Spagna pagarono Maroto; (fu pagato anco Giuda) poi lo cancellarono dalla memoria degli spagnuoli.

O per avventura presumerete chiamare popolo quei mille uccelli di rapina che si avventarono alla sprovvista sul mio regno, e lo misero sossopra più per istupore, che per terrore della loro audacia? Udite: o voi li sovveniste, o no. Se li sovveniste nella opera da corsale, io vi chiamerò complici, io, insidiatori, io, pirati regi; e contro cui? Contro un re fanciullo; inesperto di regno, sottomesso ad odio sterminato per le colpe dei suoi maggiori; mallevadore innocente, e sventurato. Forse mi ostinava io a seguire le orme paterne? Non elargiva volenteroso quelle larghezze del vivere civile che mi si chiedevano? Negai cosa alcuna?

Io distendeva la mano supplice perchè sostenessero i miei passi, e verso cui la sollevava? Ad amico, ed a congiunto per vincoli strettissimi di sangue. No, voi non li sovveniste; ve ne siete vantati così per ispavalderia, o piuttosto per necessità di perfidiare, che a voi non conviene l'antico: sic vos non vobis mellificatis apes con quello che segue, e vale: le api ripongono il miele nei fiali, e i calabroni se lo mangiano. Non lo giurate, perchè tanto io vi terria spergiuri; ma, udite, caso mai voi foste complici, io vi cito a comparire al Congresso dei Rè che intima l'Agamennone francese e quivi vi accuserò di fellonia.—Ormai la Storia ha inciso nelle sue tavole, e con le vostre parole, che voi pregaste il capitano di cotesti avventurieri a non valicare lo stretto di Messina; voi spediste gente giurata a voi ed a lui cara,[1] perchè gli attraversassero la via; voi commetteste alla favilla elettrica di bandire al mondo la vostra ruina se il Garibaldi prima dei vostri soldati toccasse la Cattolica: o non vi ricordate, che otteneste la pazienza altrui per la presa della Umbria, e delle Marche appunto con la paura della rivoluzione? Non vi profferiste voi, proprio voi, di sperdere con civile battaglia la rivoluzione? E pure ieri,…testè, uno di coloro che ora governano, dichiarò aperto al Parlamento ributtare con tutti i nervi da sè la rivoluzione, nè avere saputo mai, che in Italia si operassero rivoluzioni; il moto ultimo, che raccozzava insieme ventidue milioni d'Italiani aversi a definire così: «svoltatura della Italia in senso monarchico costituzionale[2]»

[1] La pudica altrui moglie, a te si cara!

Parini

[2] Veramente egli disse evoluzione, ma concederebbesi volentieri ai Governanti di non favellare italiano a patto che italianamente operassero.

Bene stà; anco qui vi credo; ma allora perchè non foste meco a combattere i briganti? Perchè più tardi, e non in quel punto mandaste armati a schiacciarli? Cotesta fu la caccia al Falcone, gli levaste il cappello, lo avventaste contro il colombo, poi agitando il logoro per richiamarlo, gli riponeste i geti appollaiandolo sopra la stanga.—Perchè mai briganti quelli che in nome mio movono contro voi, e non briganti coloro che si gittarono contro me in nome vostro? Forse in virtù del plebiscito? Ma di plebiscito allora non si ragionava nè anco. Poteste, e sapeste risoluti troncare le gambe all'avventuriere in Aspromonte quando ei si spinse contro Roma, o come non poteste e non sapeste fermarlo quando calò su di me falco rapace per rapire a conto altrui?—Io era un libro bianco; dovevate aspettare prima di gittarmi sul fuoco a vedere che cosa ci avrei scritto: ecco, prima di peccare io mi trovo condannato; l'esilio amaro, il vituperio, forse la morte mi aspetta per colpe non mie. Chè se voi dite tradimento il combattere disperato dei miei, per me lo giudico magnanimo; ad ogni modo egli ebbe inizio dopo non prima la cacciata da casa mia. O che pretendete voi che i miei campioni battaglino alla vostra maniera per darvi agio di vincerli? Forse voi a mo' dei cavalieri antichi rifuggite dagli agguati? Aborronsi da voi tranelli ed insidie? Ogni arme buona in guerra massime in questa slealissima dove le armi ministra il furore. Ah! voi m'infamate ladro, e ladri i miei; restituitemi il regno, e pagherò regolarmente le milizie così, ch'io le dannerò alle debite pene dove commettano la millesima parte di quello che pure fanno le vostre pagate e nudrite su le mie terre col mio. Certo, si capisce, che voi avreste a grado rinvenire pei boschi i miei fedeli morti d'inedia, o attriti dal digiuno in guisa da pigliarli come conigli in parco; grande invero e truculento il misfatto loro non volere finire di fame; hanno torto, ma da necessità costretti dove trovano arraffano: difettano i miei della vostra virtù, e pensano giustificarsi con la sentenza dei pubblicisti, che afferma nei supremi bisogni rivivere la pristina comunione delle cose. Quanto ad opere di sangue riardono dentro noi l'ira dei traditi e la rabbia degli spogliati; avventurosi i vostri i quali immuni da cosiffatte passioni possono procedere benignamente miti…. Voi non ammazzate a sangue freddo persona, non inferocite mai, non trucidate l'innocente invece del reo, udite sempre le discolpe, attendete le testimonianze altrui, i supplici esaudite, i traviati perdonate, all'altrui pianto piangete.—

Devo, io rendere conto al popolo delle colpe paterne? Ma, io figlio per piacere altrui non doveva mostrarmi snaturato: chi si raffida rinvenire ottimo re in pessimo figliuolo fa male i suoi conti. A me non istava maledirlo. Se il padre mio fu spergiuro, se nemico alla libertà, se crudele, se, cupido quanti principi furono nei tempi passati diversi da lui? E pure qual re di piccolo stato, come egli, seppe opporre porre animo alteramente sdegnoso contro Potentati, che sgomentavano allora, e sgomentano adesso col solo aggrondare del ciglio i minori regnanti? Se nella mente del re mio padre capiva il concetto di dominare la Italia certo è, che veruno al mondo se lo sarebbe reso mancipio.

E voi al re del mio regno moveste mai rimprovero delle colpe paterne? Non osaste, e sta bene; ma perchè a me sì, e a lui no? Dunque non camminate nelle vie della giustizia; voi adoperate due pesi e due misure; ma troppo voi ardite di più, che mentre rovesciate contro la memoria del padre mio parole ardenti da disgradarne la lava del mio Vesuvio, voi rubereste i raggi al sole per circondarne la tomba del re Carlo Alberto; voi consumaste per celebrarlo ogni metafora panegirica, la favella nostra giace rifinita pel saccheggio degli aggettivi encomiatori sbraciati su la memoria di lui. La pietà e la modestia dovevano essere poste custodi a cotesto sepolcro: voi ci metteste la menzogna e la provocazione. Chi fosse il re Carlo Alberto io vergognerei desumerlo da gente vendereccia di cui la coscienza si acquista a un tanto la canna; guardimi Dio da tirare innanzi il giudizio di uomini stranieri, o a me devoti: mirate, io vi squaderno davanti agli, occhi tre testimonianze de scrittori piemontesi, tutti reputati uomini retti, comecchè zelatori di massime fra loro diverse, e ministri suoi; le quali scritture essi dettarono non pure mentr'egli viveva, ma altresì quando l'anima di cotesto re riparava sotto il manto del perdono di Dio, e di quello degli uomini: potendo più in taluno di loro l'amore del vero commecchè con certezza di tornare sgradito, per la piaggeria provvisioniera di tristo pane, e d'infamia. Prima il conte Santorre Santarosa morto per la libertà a Sfatteria: quel desso Santarosa, ad onorare la memoria del quale mercè povera lapide, ora il Piemonte tardamente pietosa va in volta a razzolare con pena pochi danari, il Piemonte, che dianzi si votava le tasche di rincorsa per erigere al morto conte di Cavour monumento regio:[1] mirate qui vi narra come il principe di Carignano Carlo Alberto acconsentisse alla rivoluzione del Piemonte, la quale doveva accadere nel giorno otto marzo 1821; il dì innanzi, ecco correre una voce nefasta: Carlo Alberto avere disertato dalla bandiera; ed era vero; tuttavia ei rampogna i congiurati di poca fede sicchè tornano a deliberare il movimento, e nondimanco mentre Carlo Alberto assicurava i congiurati del suo consenso pienissimo spediva ordini, e disponeva le cose per modo da rendere impossibile qualunque atto a Torino esponendo a pericolo mortale il Santarosa ed il Collegno! e fu tiro cotesto, che a parere del Santarosa, potrebbe qualificarsi perfido, ma ch'egli, discreto, desidera piuttosto attribuire a naturale ambage della indole di lui.—Considerate attenti il libro del prode Santarosa: Carlo Alberto il giorno 13 marzo annunzia la costituzione dalle finestre del palazzo, il 14 la giura…, accorsi i Milanesi a profferirgli di buttare all'aria la Lombardia, gira nel manico, e si tira indietro, onde al conte Santorre tocca dire: «dov'era andata allora, o Principe, la smania antica di liberare la Italia dallo straniero? Donde in voi siffatto mutamento? Forse, l'ardire si destava in voi quando la occasione di adoperarlo era remota, e cagliava avvicinandosi?» Il rifiuto del re di ricevere Lisio, Santarosa, e Collegno si giudica come difetto di cuore a sostenere i liberi sguardi di tre animosi cittadini, mentre forse fin da quel punto gli stava fisso nella mente il pensiero di tradire la Patria.—Se in vece di Villamarina prepone al ministero della guerra il cavaliere Bussolino, sì il fa: «perchè con la scelta di uomo meritamente riputato lealissimo da tutto il partito costituzionale ei si lusinga celare meglio i disegni nefari.» E già la Costituzione era abbandonata dal suo capo spergiuro, quando interrogato dal ministro dello interno circa le voci sinistre, Carlo Alberto le ributta sdegnoso come contumelia plebea; poi dà la posta dell'ora pel giorno veniente al ministro dello interno e ad altro collega, per negoziare intorno alle faccende di stato; e nel fitto della notte si fugge conducendo seco le guardie del corpo, l'artiglieria leggera, i cavalleggeri di Savoia, e il reggimento Piemonte reale cavalleria; che se domandi (così sempre ragiona il conte Santarosa) per quale causa egli rifuggisse da mettere in esecuzione con le proprie mani il meditato tradimento, così bene ordito da lui, per me giudico, che a Carlo Alberto mancasse fino il coraggio di fare il male, coraggio del quale confesso che non difettava la buona anima del padre mio; all'opposto, egli ne aveva anco di avanzo.—Carlo Alberto invece, valicato il Ticino, andava in sembianza di profugo a gittarsi nelle braccia di un governatore austriaco, il quale lo accoglieva coll'oltraggio, che a me piglia rossore di rammentare[2].

[1] I Piemontesi hanno sofferto in pace che il conte Santarosa per bene 39 anni di altra lapide non fosse onorato, tranne quella che gli pose la pietà del francese Fabvier; il Cousin, uomo insigne nella politica, nella letteratura, e nella filosofia ne scrisse a Maurocordato facendogli sentire quanto disdoro sarebbe venuto alla Grecia dalla ingratitudine verso la memoria dei generosi, che avevano dato il proprio sangue per la sua libertà; non gli rispose neppure…! Più tardi il Colonnello Fabvier compiva l'onorato ufficio: alla bocca della Caverna dove la fama narra rimanesse ucciso il Santarosa da un rinnegato maltese, pose un'umile monumento con questa iscrizione: Al conte Santorre Santarosa qui ucciso il 9 maggio 1825.

Però non ricordo questo per maledire ai Piemontesi, chè noi pure contristano colpe inespiate: peccammo tutti; e qui in Toscana giacciono senze onore le ossa di Francesco Ferruccio… eroe popolano di cui la virtù e il nome empiono di sgomento i moderni palleschi. Colpevoli tutti, compassioniamoci, ed emendiamoci. Gentil sangue latino, gitta de le le turpi some, che ti hanno tolto memoria, e affetti, e senso di grandezza, e perfino l'odio contro la servitù domestica e straniera.

[2] È noto che il conte Bubna presentando Carlo Alberto all'arciduca Ranieri adoperasse queste parole: «ho l'onore di presentare a vostra Altezza imperiale e reale, il re d'Italia.» Prima di lasciare il libro del Conte Santarosa mi sia permesso cavarne due notizie, a mio parere utilissime pei tempi che corrono: la prima è, che Antonino Foa, vescovo di Asti, avendo recitato certa pastorale per indurre i suoi diocesani alla osservanza della costituzione, appena restituito il governo assoluto, fu preso e messo in prigione dentro un Convento di Cappuccini, donde non potè uscire senonchè ritrattandosi; della quale cosa tanto si accorò, che indi a breve cessava di vivere. Nè Roma aperse bocca allo strazio che si menava del suo antiste, amico della libertà dei popoli, mentre empiva di querele il mondo quando fu chiuso in cittadella, e poi mandato in esilio l'arcivescovo Franzoni, avverso ostilmente alla Patria, alla libertà, ed alla monarchia.—

E poichè io reputo debito strettissimo di ogni cittadino cogliere ogni occasione per conficcare bene nel capo al popolo come in ogni tempo, non si sa, se più nocessero alla Patria, o i Preti, o i Tedeschi, o i Moderati; e questi oggi abbiamo tutti e tre sul groppone con l'aggiunta del quarto; metterò qui le parole di coteste insigne cittadino, qual fu il conte Santarosa, le quali si leggono a pagine 80 del suo libro della Rivoluzione piemontese del 1821, intorno ai mezzani uomini questi i quali ingegnandosi accordare gl'interessi di partiti opposti secondavano la indolenza di un governo per sè stesso inetto, irresoluto, ed inclinato alla rea politica del guadagnare tempo, tanto fatale in momenti di rivoluzione, che perde i popoli, e chiama loro sul capo le maledizioni di cui n'è autore o seguace

Della cattolica chiesa Carlo Alberto zelatore quanto mio padre; e più, però che egli sendo dotto in lettere la difendesse con la penna mentre a Ferdinando, buon'anima, mancò la possa non la voglia; e di ciò fa fede quel perfetto gentiluomo del conte Clemente Solaro della Margarita di cui il Memorandum in mezzo al diluvio dei libri satanici galleggerà, pari all'arca santa, fino alla consumazione dei secoli; di vero si ricava da lui, che Carlo Alberto dopo avere dettato un libro di riflessioni storiche, lo facesse stampare; non so poi per quale cagione ne ritirasse le copie, eccetto una sola, che mandò in dono al cardinale Lambruschini, il quale esaminatala a dovere, trovatala conforme al suo cuore, assai la commendò; Gregorio XVI a cui ne fu data parte ne faceva le stimate; e stette a un pelo di segnarlo sopra l'albo dei santi… ma poi se ne trattenne.

Dal tratto che corre fra il 1821 e il 1847 io non rimoverò la tenda, che lo cuopre: la è pesa di sangue grommato, nè vo' bruttarmene le mani, almanco senza profitto; e poi la reverenza regia mi preme come avrebbe importare altrui; non siamo tutti re? D'altronde ne vanno piene le storie dei tempi. Parliamo del 1847, che lo colse mentre, con altri nati in Arcadia[1] si godeva ministro il buon Solaro; ora questi nel suo celebre Memorandum stampato proprio a Torino nel 1851 ci afferma essere stato il suo adorabile padrone tenace profondamente della regia potestà, ossequentissimo alla santa madre, la Chiesa cattolica, appassionato della indipendenza italiana, la quale (intendiamoci bene) a dire del conte ministro, dal suo adorato Signore ponevasi nello estendere quanto meglio per lui si potessero i proprii dominii[2]: in omaggio al diritto divino, ed alla esaltazione della Chiesa protesse Don Carlos nella Spagna, la Duchessa di Berry in Francia, i Gesuiti da per tutto spendendoci attorno fiore di moneta, anzi per fine tanto lodevole s'indebitò.—Quando temè essere aggavignato dalla necessità, e non lo era, prese a tartassare, Dio lo perdoni, il beato Padre, ma ei lo fece per non perde; credito presso i liberali, e potersi avvantaggiare di loro nella prossima guerra, vinta la quale, e messo al largo proponeva convertirli tutti non senza speranza di riuscita, quando poi gli fossero tornati corti i presagi gli avrebbe spenti in pena della ostinazione loro. Di qui tu hai la chiave per capire la causa, onde gli aiuti francesi furono ricusati, le dimore in Lombardia, la repugnanza dalla Venezia; quindi l'astutezza non mai commendata abbastanza di mutare regia la guerra nazionale, e la giusta paura gliene scappasse dalle mani il governo, paura, che anco il mio augusto genitore partecipò col miscuglio di una seconda paura, e fu questa: che dei tre esiti della guerra tutti e tre gli approdassero a rovinargli un picchio tra capo e collo; imperciocchè, il mio augusto genitore, dando le spese al suo Cervello, faceva il conto così: se gli Austriaci ci zombano perdiamo egli ed io; così, del pari se la rivoluzione ruba la mano a lui, dove sbatacchierà me, non lo so nè manco io; ecci il terzo caso, che ei vinca, e allora ei vincerà per se non per me, e potrebbe anco darsi contro me; per le quali ragioni e cagioni se il padre mio richiamò di un tratto la sua gente, non sembra che deva poi scomunicarsi in cera gialla.

[1] Arcades ambo.

[2] Guercia unità di un Piemonte ingrassato. Ferrari. Discorso al Parlamento sul Trattato di Commercio.

Di qui la chiave della Venezia derelitta, dei passi delle Alpi lasciati aperti, e i Romani, e i Toscani non soccorsi, quelli nel veneto, e questi nel mantovano, e le pratiche avvenute con l'Austria per la cessione della Lombardia. Nella medesima maniera si giustificano le diffidenze non mai troppe, e i timori plausibili contro la parte repubblicana; si spiegano le mirabili fortune della impresa, che dicono perduta per colpa, e arebbono a dire, per senno del Re, il quale aombrava meritamente della repubblica troppo più che dell'Austria, perchè con questa poteva guadagnare terra, alla più trista non perderla, con quella perdeva tutto di certo[1].

[1] Anche il Conte Solaro intorno ai Moderati pronunzia sentenza non vera in tutto, perchè fra i partiti estremi niente osta, che possa intercedere un partito, che prosegua la libertà accettata la monarchia costituzionale come magistratura suprema, ma per ciò che concerne i moderati giustissima: «i moderati nel concetto dei savii sono da meno di coloro cui rimproverano toccare gli estremi delle opinioni. Negli estremi possono incontrarsi la fede e la gagliardia; presso i neutri non trovi nulla di che valga a salvare una causa, o promovere un principio: strana miscela di libertà, e di dispotismo; la prima, nelle loro mani conduce diritto alla licenza, il secondo, alla tirannide.

Rimarrebbe l'abate Gioberti, che stette ministro presso al trono di Carlo Alberto fino alla vigilia della battaglia di Novara, ed un tempo gli procedè piuttosto sviscerato che amico; ma ciò che lasciò ire cotesto benedetto abate nel suo Rinnovamento a bocca di barile contro Carlo Alberto, senza ritegno, nè pietà della tomba appena chiusa sopra la salma del misero Re, io non ricorderò: molte pagine, adopera contro la sua fama, nè già credo io; maggior virtù avrebbono esercitato due moggia di calce viva contro le ossa di lui.—Lasciamo i morti in pace; certo, chi soffiasse dentro le ceneri del mio genitore, correrebbe risico di accecare senza cavarne una favilla di virtù; ma domandate alla morte, che le pesa tutte nella sua mano, qual divario corra tra la cenere di un re e quella di un'altro.—Contro tutto questo, che vorrete opporre? Abbiamo creato un popolo! Per noi tornò la Italia se non donna di provincie, di sè signora; e rotte le catene antiche oggi siede venerata e temuta nei concilii dei Re!…. Se questo avete fatto, chino il capo e venero il decreto, che nella onnipotenza loro bandirono i popoli e Dio….

Queste ed altre cose, che vanno diffondendo nel popolo della Italia meridionale il Re di Napoli e i fazionarii suoi, non vere tutte, nè le vere a quel modo, e nondimanco poniamo le fossero vangelo tutte, a che montano? Anco a lui risponderemo in tempo debito, pure per impedire, che lo indugio pigli vizio, con parlare succinto consideriamo, elle di questo il popolo sa niente, ed è con lui, che bisogna fare i conti, o co' delegati suoi. Delle colpe delle quali o per forza, o per fraudo, o per arte, o insomma, per volontà non sua egli porta il peso, male si domanda ragione al popolo, anzi ne cava argomento ad esercitare, liberissimo le sue facoltà. Chi dei due fu prima, re, o popolo? Certo il popolo. Veruno finquì ci mostrò lo instrumento in virtù del quale un popolo consenti a diventare gregge perpetuo di un membro, ne sempre il meglio, di sè; dove anco ce lo mostrassero, come l'uomo potrebbe alienare la libertà sua, datagli da Dio in presto, affinchè gliela renda insieme con l'anima? Donde cava l'uomo facoltà o diritto di obbligare le generazioni che gli succederanno in perpetuo? Egli, di cui la vita dura quanto un battere di palpebra, l'uomo, pugno di terra che si anima quando la Provvidenza lo piglia per buttarlo più in là sopra la terra, e muore mentre ch'ei passa da un punto all'altro; la vita dell'uomo che è mai se non una corsa verso la morte? Dicono, non so se vero, che la lingua ebraica non conosca presente, bensì verbi passati, o futuri, dacchè la parola, volata appena non ti appartenga e il battito del polso non anco compito è fuori di te. Le eredità gravose o ripudiansi, o accettansi sotto benefizio d'inventario… e questa tra tutte miserabile, come quella che mi lega la servitù devo accettare per forza? Finchè le colpe del popolo porgono alimento alla dominazione, durano la signoria e il servaggio, stato non solo fuori, ma sì contro natura; espiate le colpe il popolo riassume la libertà come, secondo la nostra fede il peccatore dopo il sacramento della penitenza torna in grazia di Dio. Qui dentro sta il diritto, e fra tutti sacrosanto, del popolo ad ordinarsi, potendo, come meglio gli torna, e a preporsi chi gli talenti. Separate il nostro Eletto da qualsivoglia origine, dove non teniate ben ferma questa, suo padre fu il suffragio universale, sua madre la volontà popolare: Re per la grazia di Dio, e secondo della Sardegna altri lo salutò; per libera elezione di quanti fummo Italiani a votare, Re d'Italia, e primo lo salutiamo noi.—

Necessità ultima di avere Roma, lo Imperatore dei Francesi: di lui parlammo, e di lui parleremo, finchè chiarite prova le parole inani, sorga chi chiami la Italia a generose risoluzioni, e degne in tutto di popolo grande. Quanto a me giudico, che l'argomento onde possa non solo ma debba spiegarsi meno cotesto uomo sieno le sue parole: e' ci ha chi afferma veruno in Francia procederci più amico di lui; e ciò muove da levità, o da ciurmeria, imperciocchè se costui accenna ai singoli Francesi risolutamente lo sostengo falso, e se piuttosto alla nazione intera, tu considera come un'uomo straniero, che trapassa su la Francia come la rondine cacciata dalla stagione iniqua, sia da tanto da conoscere la Francia; la rondine, che passa acchiappa insetti, non già il senso dell'anima di Francia: che se per Francia s'intendono gli attrezzi i quali stanno dintorno a qualunque trono, e vestiti di panno paiono persone non si nega; ma si mette in sodo, che soprastare a loro piccolo guadagno ne caviamo noi. Quando i potentati di Europa rovesciaronsi contro il primo Napoleone, quasi fiume ingrossato da molti torrenti, l'Austria parve avversario più mite degli altri, ma ciò non la impedì di spogliarlo più e meglio degli altri, nè insieme con gli altri conficcarlo sopra la rupe di Santa Elena.

Con Napoleone III teniamoci ai fatti, e questi sono amari. Affermano com'egli accolga dentro la sua mente consigli reconditi, ma se la sta nel modo che la contano, come lo sanno essi? Se pure fosse così, chi troppo l'assottiglia la scavezza, sicchè quei suoi concetti, sprofondandosi tanto; veruno li vede; gli atti esterni poi così appaiono contradittorii, che il giudizio ne scende contrario alla proposta. A bene considerare e' sembra che il mondo morale si disgreghi, ed il Padrone della Francia nello intento di riordinare per sè crebbe il caos. Avendo egli offeso la democrazia, e di lei paventando, nè potendone fare a meno, da un lato suscita in lei gli appetiti della materia, dall'altro studia mortificarne lo intelletto consegnandolo in mano al prete; in qual modo ei raccattasse il prete, ho esposto di già; nè direbbe il vero chi lo negasse, imperciocchè abbia veduto io medesimo sovvenire i Gesuiti con la pecunia propria dello Imperatore… e fu come ingrassare l'ortica col guano; quasi che le erbacce lasciate a sè non prolifichino anco troppo; a questo modo operando egli immaginò logorare la democrazia con la beghineria, e lo interesse, a quel modo stesso, che vediamo consumare un diamante contrapponendogli un'altro diamante: simili contrapposti, non nuovi in Francia, anzi antichi, e sempre funesti, si reputano trovati d'ingegno acuto e la storia chiarisce che derivano da lassezza di mente; e' sono rappezzi per ischermirsi dalla molestia del minuto, non già disegni per edificare nel tempo; aggiornano i mali forse rimediabili subito, cronici poi, sicchè più tardi irrompono sovvertitori di stati. Così Caterina dei Medici mentre dondola tra Ugonotti e Cattolici consuma tutta la sua figliuolanza nell'antitesi pericolosa; le industrie, che ella adoperò, ed altri glorifica argute, mentre erano perfide, per conservare il trono alla sua famiglia approdarono a trasmettere il trono dei Valesi nei Borboni, e la notte di San Bartolommeo, tramata per la strage di tutti gli ugonotti, mise capo a tirare sopra la Francia un Re ugonotto.—Ancora le storie di Francia! levano a cielo Enrico IV, nè il mio compito mi conduce a contendergli le buone doti che gli attribuiscono, però parmi potere affermare, che fu basso pensiero quello, che lo spinse a cedere la sua fede pel trono, insegnandomi la storia come le basse voglie nei reggitori dei popoli spesso sieno colpe, e sempre errori; in questo io lo pospongo al popolano che non avrebbe renunziato alla sua amante barattandola con Parigi:[1] rendendosi cattolico, nè volle, nè potè opprimere i suoi correligionari, e se da un lato frequentava la messa, dall'altro si governò co' consigli del Sully. Qualunque fosse la sagacia del metodo di regno, sbagliava nel principio, dacchè ormai la fede religiosa diventata pretesto, ovvero confusa con fini politici e mire di ambizione, si era intrisa nel sangue ed infamata con mortalissime fraudolenze: non pace ormai sperabile, nè tregua; la quiete apparecchio alle armi, il furore non mancava mai. Se fossero prevalsi gli ugonotti si sarebbero ricattati; superando i cattolici vennero la revoca dell'editto di Nantes, le stragi, gli esilii spontanei o costretti, le industrie trasmigrate altrove, e le ingiurie alla fortuna pubblica, donde in breve il tracollo, il malcontento, l'aperto tumulto, la rivoluzione scapigliata, e il nabissare della monarchia dentro la voragine che si era aperta con le proprie mani.

[1] Corre fama ch'egli dicesse: Parigi vale una messa: ora antica si conosce una canzone nella Francia, che suona a un di presso così: cito di memoria e domando venia per gli svarioni.

«Si le Roi me donnait Paris sa grande ville Pour quitter ma mie, Je lui dirais: Tiens-toi Paris J'aime mieux ma mie, O gai J'aime mieux ma mie.»

Su ciò considero, forse le parole attribuite al Re voglionsi riputare fandonia, e la canzone attesta la fantasia del Poeta, non altro; sarà così, ma credonsi universalmente le parole del Re, e l'abnegazione dello amante, epperò la coscienza pubblica mentre stima per interessi capace un Re a ripudiare la sua fede, giudica incapace un popolano a renunziare per interesse il suo amore.

Col sistema di antitesi per gittare durevole il fondamento al regno della sua stirpe, io vedo Napoleone avvilupparsi dentro una rete di contradizioni, che ad ogni istante più lo stringe alla vita. La guerra contro la Russia fu bandita a nome della civiltà, e smussate appena le ugna all'orso si tira indietro salutandolo civile; nè quella la causa della guerra, nè della pace questa: causa vera dell'una come dell'altra stringergli con la mano della Francia forte la zampa, e fargli sentire, che lui aveva a sopportare nel concilio dei Re: di ora in poi come non iscritti gli sgraffi, che l'orso russo aveva, in luogo di firma, messo sotto i trattati del 1815. Pari intento il Napoleonide si propose e conseguì nella guerra d'Italia; lui sentano, e lui tremino i Re per rinnovare insieme la catena dell'autorità al genere umano; l'Austria si penta avere disprezzato il nuovo, e tradito l'antico Napoleone: perchè aborrirli parenti? Non li battezzarono signori la violenza e la frode? Quale altra origine ebbero i superbi imperiali della casa di Asburgo? Di vero, come altramente intendi la sua scesa in Italia? Il bando di affrancarla intera, e il vanto di piantare la bandiera da per tutto dove ci fosse a proteggere una causa di civiltà, e poi chiamarsi contento di una provincia sottratta agli artigli dell'aquila imperiale, e la sollecita pace?—Peggio poi, se confronti questi suoi atti con lo avventuroso valicare dell'oceano, e con tesoro inestimabile e sangue generoso di Francia, sommettere uno stato per farne dono a quella stessa casa da lui sbattuta in Italia? Certo, riesce troppo arduo penetrando nel riposto animo dello Imperatore pescarvi disegni di universale civiltà; all'opposto torna destro supporre, che la repubblica democratica, anco in parte di mondo da noi rimota, fosse un grande stecco negli occhi di lui: come mi parve vero che la libertà dove non sia attecchita da per tutto (non fa caso se più o meno secondo la natura degli uomini e la condizione delle cose) non possa durare, così troppo più reputo vero, che nè anco il dispotismo si mantenga, se da qualche spiraglio penetri raggio di libertà.—Come qui in Europa campione di sovranità di popoli, ed in America strozzatore di quelle? So bene ch'egli, e i suoi con parole solenni lo negano, ma oggimai le sue proteste per la pompa della gravità loro si convertono in argomento di giocondezza per le brigate; almeno per noi Italiani apparisce così, imperciocchè nei varii popoli varii la materia del riso; presso i nostri poeti berneschi ella consiste nel vestire di forme e di parole gravi concetti burlevoli.

Come invocare la Provvidenza vindice dei diritti conculcati dei popoli, e poi mettersi tra mezzo impedimento fra la Provvidenza ed i popoli? Come dopo che la bandiera di Francia fu vantata tutrice di civiltà rimane su ritta fra le infamie di Roma come piantata nel fango? Perchè fino all'ultimo l'impero di Francia protesse Gaeta contro il volere del popolo? Perchè si agitò tanto, giungendo fino alle minacce, non ischifando le insidie onde i membri sparsi della famiglia italiana non si riunissero? Queste le sono cose, che non si ponno negare. E a Roma perchè ci, sta adesso?—. Nè Italia egli patisce una, nè libera: una, nel presagio della sua potenza la teme come uomo e come dominatore della Francia; libera, se ne atterrisce come uomo; da per tutto dove la libertà sorga capisce che gli chiederà ragione del 2 Decembre.

Diventava il Napoleonide Re co' popoli, adesso vorrebbe mantenersi Re co' principi; una maniera di centauro politico; nè mai arrivò a infingersi intero, e se altri traverso le sue ambagi nol seppe capire, la colpa non è sua; se altri perfidia ad attribuirgli concetti, ch'egli in mille maniere respinse, ed in ogni occasione dichiarò proprio agli antipodi dei suoi, a lui non si può imputare: innanzi del 2 Decembre, io ricordo, come se fosse adesso, che a certo dabbene uomo il quale con parole di oro s'industriava innamorarlo della gloria del Washington rispose netto: «io sono principe e non lo posso fare.» Così è, al nipote di Carlo Buonaparte pareva la fama del Washington cosa da non giovarsene, e i Francesi uomo siffatto elessero capo della Repubblica, e dopo simile manifestazione dell'animo suo lo sopportarono. O Francesi!

I popoli, il Napoleonide, tiene in mano a guisa di carte, per giocare la partita in pro suo, e dei suoi: seguita i disegni dello Zio, il quale prese per davvero che gl'Imperatori possano tenere nelle mani la palla del mondo con la croce sopra; e neppure adesso che si sente preso dentro le morse pone giù il disegno: al contrario ci s'intora acerbo più di prima; giunto in fondo degli arzigogoli avventura l'estremo per ripigliare fiato, memore della sentenza del Macchiavello: «cosa fa cosa, e tempo la governa.»

I Moderati prima rimasero attoniti, poi lodarono, all'ultimo censurarono, adesso tentennano, piegano a destra ed a mancina; musano come le formiche; incerti intorno alla via da tenere: fino dal primo apparire della proposta del Congresso chi possedeva non dico fiore, ma briciola d'intelletto, disse cotesto espediente manca perfino della furberia di cui è copia nei trovati dei marruffini, e dei trecconi. Di vero i Moderati stracciarono co' denti la Costituente proposta dal degno amico Giuseppe Montanelli, nè del tutto a torto, come quella, che intendeva sottoporre i principi al giudizio di un tribunale composto di deputati eletti dal popolo: ora bisognava domandare se questi principi ci si avessero a condurre spontanei, ossivvero per forza, e se spontanei, egli era chiaro come l'acqua, che non ci sarebbero andati, mentre se per forza, i popoli, i quali senza bisogno di geometria sanno come la via retta sia la brevissima, potendo, gli avrebbero mandati tutti in un fascio non mica dinanzi al tribunale della Costituente, bensì in luogo che non importa dire. Però, se in questa parte la Costituente zoppicava, stava ritta su tutte e due le gambe nell'altra: all'opposto il Congresso intimato dallo Imperatore dei Francesi a questa pecca della Costituente montanelliana ne aggiunge l'altra, ed è che i convenuti sarebbero ad un punto giudice, e parte.—

Ad ogni uomo comecchè fornito di levatura mediocre apparve chiaro, che ogni principe avrebbe a lasciare un brindello di carne, che tiene stretto fra i denti, nè certo consentirà a lasciarlo; prima di ogni altro quello di Francia: ad ogni modo levati di mezzo i trattati del 1815 a quali altri storneremo noi? A quello di Amiens, di Tilsitt, o piuttosto all'altro di Luneville? Ovvero, andando anco più in su, ci fermeremo a quello di Utrecht, o di Wesfalia? A veruno di questi, però che quivi non si considerassero le aspirazioni dei popoli bensì unicamente gl'interessi dei principi, ed oggi lo scopo del Congresso sta per lo appunto quì, che adempiendo i desiderii dei popoli si apra un nuovo ordine di secoli, il regno di Saturno riapparisca sopra la terra dove ogni uomo possa vivere tranquillo all'ombra della sua vigna, e del suo fico! Bene sta. Ma quali popoli interrogheremo noi circa le infermità, che li travagliano, ed intorno ai rimedi, che reputano più spedienti a guarirli? Gli europei Soltanto o quelli di tutto il mondo? Chiedo venia della impronta domanda; presso uomini così sviscerati pel bene della umanità ella suona peggio che oltraggio: là umanità non circoscrivono mari nè monti, e il sole levandosi e tramontando vede più torti a riparare, che contentezze a benedire. Da ponente come da levante, da ogni lato insomma la umanità grida: ohi! Dunque tutto il mondo. Ciò posto in sodo, in qual guisa vorrannosi interrogare le generazioni! degli uomini? Col suffragio universale, mi risponderanno:—Ottimamente; ma tra suffragio universale, e suffragio universale ci corre: a mo' di esempio, suffragio come a Nizza, o come nel Messico? Della sincerità di cotesti voti non ne dubita veruno dei principi raccolti; piace loro il metodo, e approvasi; essi imiteranno come in ogni altra cosa in questa la Francia maestra del vivere civile. Ora io dico, che dove rimanga statuito così non vale il pregio adunarsi, imperciocchè non pure gli Arabi e gl'Indiani supplicheranno Francesi, e Britanni a restare in Affrica, e in Asia, ma se non volete altro, Veneti, e Pollacchi esporranno il Santissimo su l'altare onde Austriaci e Russi non li privino della delizia del paterno reggimento. Se qualche dimostranza si permetteranno e' fia perchè non mettano a prova più dura la infinita loro pazienza a sopportare e a patire. Di ciò interpreti la maggiore parte dei Vescovi, che la verità sanno da due parti, da quella di Dio, e dall'altra dei popoli. Dunque poniamo il caso che si voglia, e volendo si possa adoperare una guisa diversa, e supponiamo altresì, che tutti i popoli senza paura rimangano facoltati a dire la sua, e allora del pari il convenire dei regi che monta? I popoli vorranno prima essere affrancati dalla dominazione straniera, e poi dalla casalinga; però che in ogni tempo pochi principi abbiano preferito regnare coll'amore, piuttostochè col terrore, e la terra considerino podere proprio dove chi vive è bestiame, e chi muore ingrasso. Nel concilio dei re chi rappresenterà dunque i popoli? Chi ardirà farsi innanzi don questa maniera di mandato? E' tornerebbe lo stesso che andare a farsi seppellire da sè; per la quale cosa si chiarisce come si dovrebbe commetterne la incumbenza ai re. Omero ha chiamato i Re pastori di popoli, mentre il Byron li appellò addirittura lupi; su di che io mi astengo giudicare, considerando che o lupi o pastori la messa torna a mattutino, dacche o che gli uni tengano il Congresso o gli altri, la materia non si può versare che intorno al mangiarsi gli agnelli cotti o crudi. Questo poi una differenza veramente per noi la fa: quanto ne vadano lieti gli agnelli non è facile darcelo ad intendere.

Ai dì nostri che tengono bottega aperta di piaggeria, e di vituperio come di ogni altra mercè, non mancò chi celebrava la proposta del Congresso come tiro furbesco da sbancarne il Macchiavello in persona: là dove fosse così io per me affermo tra i mali metodi di governo pessimo quello che poggia sopra la bindoleria, però che non puoi filare sempre tanto sottile che altri non si accorga del tuo tramestio, e allora perdi il credito, nè ti avranno più fede mai, sia, che tu mentisca, o che dica la verità; e poi ognuno s'ingegna vincere di scherma lo schermitore, per la quale cosa dai e dai la sua brava botta diritta all'ultimo gliela ficcano. Lo intelletto umano sostenuto dalla logica, e dalla lealtà non solo dura, ma cresce di vigore progredendo; invece appoggiato alla frode ogni dì più strapiomba, e quanto maggiormente si travaglia a ingannare di tanto si sconcia. Sicuro, a modo che i pesci da che mondo è mondo si pigliano con le reti, e gli uccelli co' vergoni così gli uomini con le parole dolose; non però gli uomini, che fanno professione di sagacia, e sia quasi esercizio del loro mestiere; imperciocchè allora tanto sa altri quanto altri, e tra corsale e pirata non ci corre che i barili vuoti, E parmi che non si possa allegare con frutto l'esempio del Borgia sempre traditore, e sempre creduto; imperciocchè i traditi il più delle volte presagissero il fato soprastante ma nol potessero evitare; e nè anco potendo vollero, dacchè fuggendo era certa la perdita della sostanza, e restando forse perdevano la vita, onde l'uomo tra il forse della morte probabile, e il certo della miseria corre sempre il rischio della prima; tanto lo amore della roba lo vince! Ad ogni modo anco il Valentino cascò nella fossa che si era scavato; la fortuna gli tirò la somma dei tanti tradimenti macchinati a danno altrui, e fu un tradimento che gli tolse peggio che la vita, vo' dire la potenza. I re tutti privi di scettro ci apparvero sempre una miserabile cosa, ma se pensi al tiranno senza sbirri, senza giudici, e senza carnefice, e al suo tremare sempre, alla paura della luce, al suo immaginare in ogni tasca un coltello, in ogni bicchiere un veleno ti senti aggricciare le carni addosso per lui.

Più, che ci si pensa sopra, e meno posso persuadermi della utilità del bandito Congresso per lo Imperatore dei Francesi: quanto allo interno, non ha mestieri fingere, almeno per ora; il vento gli dura non come un dì in filo di ruota pure sempre potente a gonfiargli la vela: rispetto di fuori, con un poco di arte gli hanno riversato sul capo il ranno ammannito per la testa altrui; di vero, lo amore suo per la umanità levano a cielo; chi può negare l'opera sua a tale disegno, che porrebbe al fine ed una volta davvero la belva umana sopra le altre belve dei boschi? Fra quelli che hanno a consentire occorrono due donne, alle quali gli uomini facilmente concedono tesori di bontà; e almeno quanto alla regina di Spagna sembra proprio che colgano in mezzo del bersaglio. Dunque assentono tutti, ma innanzi di convenire insieme sembra, ed è non che profittevole necessario sapere un po' in quanti passi di acqua si abbia a pescare: egli definisca l'argomento pei negoziati; egli accenni chi debba rendere, e che cosa, ed a cui; egli che concepì il disegno deve avere pensato senz'altro al modo di mandarlo in esecuzione; sicuramente quanto sarà per proporre non gli promettono di punto in bianco accettare, quantunque confessino potere addormentarglisi in grembo; un po' di esaminazioncella gliela daranno, ma così lemme lemme tra un dito e l'altro a mo' della vergognosa di Camposanto, insomma come usa tra gente tuffata tre volte nella pila della buona fede. Forse il Palmerston fa un po' troppo a fidanza, e corre il rischio che gli mettano il curatore; ma fu sempre il suo pecco di fidarsi troppo, e ormai gl'Inglesi ci si sono avvezzati.

Extra jocum, il contegno dei vari stati europei alla proposta dello Imperatore dei Francesi mi ricorda la favola del viaggio impreso di conserva tra la volpe, e il lupo, i quali giunti, che furono in parte dove la volpe prese odore di tagliola si tirò da un lato dicendo in segno di onore al lupo: passi eccellenza! Aggiunge la favola, che il lupo passò, e rimase preso; forse non è probabile, che passi Napoleone; staremo a vedere.—

Che se io fossi meno persuaso l'errore essere stato la prima fascia avvolta intorno alla vita dell'uomo quando venne al mondo penserei che lo Imperatore dei Francesi innanzi, e meglio di noi conobbe la gaglioffaggine del bandito Congresso, ma, che ciò nonostante lo volle intimato, e ci persevera per tirare senza sospetto, o almanco con pretesto plausibile in Francia non tutti, ma quei Principi co' quali gli preme intendersi per istringere lega offensiva e difensiva; nè questo può farsi per via di scritture, o di ambasciate; e' vi hanno cose che la bocca di cui le dice, ha da sussurrarle nelle orecchie di cui le deve intendere e tre sono troppi; qui o mai cade il taglio di affermare, che bisogna comportarci con gli amici come se domani ci avessero a diventare nemici, e ciò accadendo tanto vale il mio sì, quanto il tuo no; non importa poi che i sovrani contro i quali si ordisce la tela rispondano alla chiamata, anzi giova che non vadano, bene preme e di molto accorrano quelli, che l'hanno a tessere.—Però avvertite che se la Francia la trama, la Inghilterra la ordisce, e dove l'una delle due manchi la tela non si fa, o si fa male.—

Che, che di ciò sia avventuriamoci ad un'altra se guenza di pensamenti. Adesso per certo non avanza altro eccetto l'alternativa di riunire il Congresso o non riunirlo.—

Poniamo prima, che si riunisca nel modo, che unico può succedere, vale a dire di Re consulenti al proprio interesse. I Principi sanno che ricupero di diritto di popol risponde per l'appuntino la diminuzione delle regie attribuzioni. Uomini democratici non rifinano mai di predicare, che i popoli si rimarranno contenti alla libertà esterna, che oggi si chiama indipendenza di nazione, e a modi ragionevoli di libertà interna; i Principi non ci credono; però che se quello che i democratici affermano per un periodo limitato di tempo sembra vero, tale non è del pari nello spazio dei secoli, ed i Principi non si contentano a fermare come Giosuè il sole per ore, bensì presumono inchiodarlo perpetuo nel cielo della loro potenza. Se voi rammentate loro come i Pivernati sendo rimasti vinti dai Romani mandassero oratori a Roma per negoziare la pace, i quali richiesti in qual modo intendessero comporsi in amistanza risposero:—da uomini liberi.—Al che i Romani da capo:—bene sta, ma concedendovi pace vi conserverete fedeli?—E i Pivernati di rimando:—sempre, se i patti equi, se iniqui, finchè la necessità dura.—Concessero patti generosi, li mantennero i posteri, e i Piveri co' Romani diventarono una gente: se voi allegherete simili casi v'irrideranno esclamando:—cotesti sono fatti antichi e chi lo sa se veri.—E se, buttate in un canto le sentenze democratiche, metterete innanzi l'esempio di Teopompo re di Sparta, il quale rimproverato dalla moglie per avere ristretto la potestà regia rispose:—certo la scemai per farla più durevole,—i Re osserveranno, ch'ei non se ne intendeva; la moltitudine pari alla lupa, che dopo il pasto ha più fame di pria, e meglio vale essere mangiato a un tratto, che cincischiato in brandelli, tranne il caso, nel quale, concedendo, tu ci veda il verso di rientrare più tardi su i tuoi co' cambi dei cambi.—

Dunque la Storia è li come il morto su la bara, per insegnarci che le tratte spiccate dal popolo creditore della sua libertà sopra la reggia gli vengono saldate in moneta di ferro, o di piombo,—e sovente anco di canapa.—

Pertanto i Principi convocati non possono fare altro che consultarsi ai danni d'Italia; imperciocchè se essi consentirono lo impero di Francia e il Regno italico fra noi, e' fu perchè reputarono l'uno e l'altro capace di soffocare la rivoluzione; anzi considera bene, prima per virtù di questa paura i soscrittori ai trattati di Vienna mostrarono sopracciglio meno aggrondato allo Imperatore di Francia, poi lo imperatore insieme con gli altri col medesimo patto sostennero il Regno d'Italia; con una differenza però, che si ragguaglia al potere dei due stati; il primo gagliardissimo fu riconosciuto in fatto, e in diritto, il secondo in fatto soltanto, in certo modo come una scheggia nella mano, finchè non arrivi il cerusico co' ferri a cavartela fuori.—

Nel Congresso, e da per tutto, la Francia attenderà all'interesse proprio rigidamente, senza nè pietà nè pudore imperciocchè abbia sempre costumato così; di vero le faccende di questo mondo non si giudicano per via di fisime, bensì con la notizia dei casi, la speculazione delle conseguenze, dei costumi, e della indole dei popoli co' quali abbiamo a trattare; e rinnuovo qui certa mia querimonia che non andrà del continuo perduta; la quale è, qualunque professione, o vogli mestiere per umile, che sia desidera tirocinio; se ne assolve, e ne assolvono colui che rizza su cattedra di politica, tra le difficili scienze umane difficilissima; conciossiachè a molto sapere delle cose accadute esiga accompagnata cognizione precisa delle cose, e delle persone presenti; nè tanto bastando voglia altresì un certo divinamento dell'avvenire. Ora, se avessero bene considerato la parte della storia di Francia, che spetta a noi, conoscerebbero a prova com'ella sempre più anco di nocerci ci straziasse: mettiamo in disparte la storia antica come quella, che poco approda alle contingenze nostre: incomincisi pure da Carlo VIII; ei si precipita giù dall'alpi a guisa di vento, che va innanzi turbinoso, buttando all'aria stati, e popoli come polvere di su la via; guerreggia senza fine, negozia senza fede, e dopo avere lusingato tutti, tutti tradisce; crudele nella facile vittoria, si mostra animoso nella fuga, e si lascia dietro a testimoni del suo passaggio soldati ladri, modi di guerra efferati, il costume di trangugiarsi prima di venire a battaglia l'oro rapito, ed il troppo più truce di cercarlo dai vincitori nelle viscere palpitanti dei vivi; all'ultimo la infermità vergognosa che quasi maledizione lanciata da lontano attinge nella sorgente della vita i nostri più tardi nipoti.—Luigi XII Re mercante vende libertà, e tirannide, cresce esca alle discordie, ed altre ne suscita; negozia come le Parche filano, per tagliare mortalmente ad ora ad ora il filato; il Regno di Napoli si spartisce con Ferdinando il Cattolico a mo' di fanciullo che si divida una mela col compagno arrapinato; semina la Italia di ossa italiane, ma altresì di francesi. Quale amico si fosse costui sel seppero i Fiorentini, messi quasi olive nel torchio con modi da disgradarne ogni matricolato usuraio per ispremere loro di sotto pecunia; e con parole, non come adesso sanno adoperarsi pompose di amore per il genere umano tutto quanto senza pure pretermettere un cosacco, e non dimanco a volta a volta acerbe o benigne ora altalenava per Pisa libera, ed ora per Firenze padrona; risucchiato poi l'osso lasciò Pisa ai Fiorentini perchè se lo rodano. Francesco I dei peccati mortali superò i dieci non che i sette; materia affatto agitata principalmente dalla lussuria, dall'ira, e dalla superbia: anch'egli empiè la terra di morti: massime la Italia contrastando senza concetto regio all'emulo Carlo imperiale concetto per la propria immanità condannato a screpolarglisi nelle mani, ed era la conquista del mondo, o di quanto più mondo si potesse; poi rifinito patteggia la pace tradendo i collegati suoi. Qui si manifesta non meno trista, ma più aperta che altrove la perfidia di Francia, imperciocchè da un lato si aizza vano i Fiorentini, e gli altri stati italiani a intorarsi nella guerra contro Cesare, e a chiudere gli orecchi ad ogni proposta d'accordo, e ciò perchè i negoziatori imperiali non salissero in baldanza nelle trattative di pace a Cambraio facendola alla Francia pagare caro.

Confronta e vedi se le arti di allora uguali a quelle, che la Francia volle usare poi. Baldassarre Carduccio oratore fiorentino raccomanda al Re Francesco la sua povera Patria con queste parole: «Sire, la Maestà vostra tante volte mi ha affermato e ripetuto le medesime cose, che se io non veggo la osservanza di quelle, non che io creda più a parola di Re dubiterei si avesse a credere a Dio.» A cui il Re di Francia rispose: «Voi avreste mille ragioni perchè io ve l'ho promesso, e con l'effetto lo manterrò.» E mosso dalla medesima passione il buon Carduccio mentre faceva uffizio pari col Gran maestro udiva dirsi: «Ambasciatore, se voi trovate mai, che questa Maestà faccia conclusione alcuna, che voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite, ch'io non sia uomo di onore, anzi ch'io sia un traditore»; e mentre queste cose così solenni dal Re, e dal suo ministro affermavansi essi avevano bruttamente, come in quei tempi fu detto, e i posteri ratificarono, traditi e venduti i collegati, nè Carlo V dopo avere condotto i Francesi al passo iniquo volle lasciarsi scappare di mano la occasione di trafiggerli; imperciocchè sollecito a procurare agli amici suoi il benefizio della pace, mentre domanda il mandato all'oratore di Ferrara esce fuori col detto amaro: «io vo' avere risguardo ai miei collegati, e non fare come fece il Cristianissimo.»

Nonostante questo allora, come adesso (sebbene con meno largo strazio della coscienza umana per difetto di Giornali) affermavasi in Francia i collegati essere rimasti comprasi nella lega, e il Re stesso pregava, che così si propalasse per avere agio di andarsene prima che le querimonie incominciassero; le quali scoppiando poi violentissime, mostrarono la indegna remunerazione alla lunga osservanza, e ai danni patiti in pro della Francia; avere per ben quindici anni tenuto i Fiorentini, a lei devotissimi, servi, senza avere detto o fatto cosa che valesse per la liberazione di loro; alle quali dolorose rampogne mutato, volto il Gran maestro rispose: «O che volevate voi, che per piacere vostro rimanesse impedita la liberazione dei figli dei re rimasti statichi nelle mani dello Imperatore?» E poi che il Carducci lo rimbeccava dicendo: «Bene sta, ma la libertà nostra, e il nostro sangue dopo le promissioni vostre non avevano a servire di prezzo come avete fatto, avendo noi venduto, anzi dato noi tutti in preda al nemico per loro.» Il Gran maestro voltategli le spalle lo saldò. Donde gli Scrittori dei tempi cavarono due considerazioni generali, una di etica, e l'altra di politica; la prima fu che l'uomo savio non deve abbandonarsi in balia alle promesse, alle leghe ed ai giuramenti degli uomini; e questa parmi ripetizione della sentenza Attribuita niente meno, che allo Spirito Santo: «maledetto l'uomo, che confida nell'uomo:» la quale, nonostante la reverenza che professo grandissima allo Spirito Santo, per me giudico balestrata là in un momento di stizza; la considerazione politica generale è quest'altra, che non merita uscire di servitù quel popolo, che si raffida riacquistare la libertà con altro braccio, che col proprio; una terza particolare ce la metto io dichiarando, che consultata la Storia senza passione di odio o di amore non sai se la Francia sia riuscita più molesta alla Italia amica, o nemica. Alla casa di Savoia portarono via i Francesi quasi tutto l'avito retaggio; Nizza fedele asprissimamente combatterono con le armi proprie congiunte a quelle dei Turchi. Le Storie della monarchia piemontese dalle più antiche fino alla recentissima del Ricotti ti mostrano le perpetue ingiurie recate a lei dalla Francia, e il racconto degli strazi, che Carlo di Savoia ebbe a patire da Enrico IV dettato dal cardinale Bentivoglio, empiono l'animo dei leggitori di tristezza, e di rabbia. Della prima repubblica di Francia tu sai; ci rubò fino ai chiodi del Vaticano, e parte d'Italia, la Venezia, prezzo di pace necessaria, almeno così afferma nelle sue memorie Napoleone I difendendosi del tradimento di Campoformio; lo Impero pretese plasticarci francesi, ed altra volta io ammonii gl'Italiani: badate! porgete mente al concetto di Napoleone I quale si svela intero nella sua corrispondenza col fratello Giuseppe Re di Napoli pubblicata per cura dello inclito suo nipote Napoleone III; costui persuadeva Giuseppe a trovare modo di torre la sostanza ai baroni, per renderla poi a titolo di dote alle figliuole a patto si maritassero con soldati francesi, i quali arebbono dovuto comporre la nuova baronìa di Napoli, sempre che si obbligassero a fermarsi per sei mesi dell'anno a Parigi. Appartiene a lui la parola, la quale se avesse voluto tradurre in effetto sarebbe stata seme di guerre senza fine, vo' dire: «il mediterraneo ha da diventare lago francese.» La Francia di Luigi Filippo aizzava i popoli alle rivoluzioni, e poi se li metteva dinanzi a mo' che il Buonarroti costumò sospendere le balle di lana intorno al campanile di Samminiato a fine di ammortire la percossa delle bombarde. Se si trattava di beduini, bandivasi la Francia ricca abbastanza per pagare la sua gloria; se di sovvenire la Italia, e la Polonia l'oro e il sangue francesi avere a bastare per la Francia; e se la Polonia sdrucciolava nel sangue si annunziava il caso dal Sebastiani nel truculento modo, che la Provvidenza gli fece provare pari nella sua famiglia.—Del secondo impero non parlo, non mica perchè a quello che largamente fu addotto non si possa arrogere troppo più, ma perchè la copia partorirebbe a un punto fastidio e sazietà.

Tale avvisando, so come altri, nella sfacciata petulanza che oggi tiene il campo, non mancherà riprendermi come o perniciosamente sconsigliato, o mosso da smania di screditare il governo, o di parzialità per la Inghilterra: risponderemo ora all'ultima rampogna, le altre confutammo in prevenzione, o ribatteremo a suo tempo dopo: la Patria vuolsi amare, gli stranieri se in casa di riffa[1] odiare con le viscere dell'anima, e qualunque essi sieno, a casa loro rispettare, e proseguire con ogni maniera di buoni uffici, come uomini fratelli, che procedano di conserva al miglioramento scambievole. Gl'inglesi certo si mescolano nelle nostre faccende, però nella guisa, che non si può loro impedire, e potendo non si dovrebbe; le arti adoperate da loro, il consiglio, le insinuazioni, e dove occorra anco un po' di moneta: della natura del trapano essi ritengono molto, e le loro dita penetrano nella carne dei popoli più che non facciano le grappe di bronzo dentro la pietra. Quando venne Riccardo Cobden a predicarci il libero commercio, onde avere facilità anco maggiore di levarci di sotto le materie gregge per rimandarcele lavorate, io molto tenendo in pregio l'uomo mi astenni da fare di berretta alla sua predica e ne esposi con breve scrittura le ragioni, tra le quali, manifestando il concetto a quel modo che la mia natura m'ispira, dissi che quante volte mi occorre un'Inglese con gli occhi fitti nel nostro sole ho paura che egli almanacchi se ci sia verso di portarselo a Londra per rimandarlo a venderlo in Italia ridotto in candele sopraffini. Questo ed altro può dirsi dell'uomo inglese intento al proprio interesse; forse lo trascurarono gli altri?—Non ci è che i Francesi i quali si spencolino fuori della finestra per una idea! Gl'Inglesi hanno senno pratico, e stima dell'uomo: ordinariamente conoscono dove devono andare, come i Francesi ordinariamente non lo sanno, comecchè fine di entrambi sia l'interesse. Lo Inglese negoziando teco, fa il tuo conto, che del guadagno ne vuole a mano salva tre quarti, ma una volta rimasti d'accordo va franco, ch'egli curerà l'interesse tuo al pari del proprio; perchè non intende usare teco come i contadini a lascia podere, e confida cavarti di sotto qualche altro vantaggio: il Francese vuole tutto per sè, ti agguanta quanto può; se qualche cosa ti lascia e' sono gli occhi per piangere, ma poi il rubato volentieri sprofonda teco per farti ridere; lo Inglese quando ti spoglia non confessa ai quattro venti che ti ha spogliato, ma nè manco si vanta averti vestito; mentre se dai retta al Francese sai tu chi è il ladro? Quegli che si è lasciato rubare; così vero questo, che uno dei loro filosofonisti ha spiattellato chiaro, che la proprietà è un furto; epperò i ladri devono venerarsi sopra gli altari come operai; a fare rivivere la pristina comunione delle cose; l'Inglese non pone nel traffico tenerezza in nulla eccettochè sul netto ricavato; salda affare per affare; la gratitudine che cerca sta nel profitto, ed altra non ne cura: al Francese non basta, esige la lode, desidera tu lo saluti generoso e magnanimo se portandoti via un quadro di Raffaello te ne lascia una copia fatta di sua mano; quasi quasi pretende una statua se dopo averti mangiato le ostriche te ne depone in mano con religiosa gravità i gusci vuoti!

[1] Voce popolare, e significa a tuo marcio dispetto, di prepotenza ec.

Ha scritto Martino Lutero in qualche parte come considerando la ragione umana gli facesse lo effetto di un'uomo briaco a cavallo; non so in qual maniera ci possa incastrare, ma quante volte penso alla pretensione della Francia; di essere salutata cervello del mondo cotesto ricordo mi ronza per la mente zufolando a mo' della zanzara. Dello interesse i Francesi hanno lo istinto, non il discorso, non per virtù di concetto bensì di nervi spiegano e ritirano gli ugnoli: per l'interesse ustolano, ma quale veramente sia, la vera strada di conseguirlo non sanno, e ciò perchè un pensiero torna loro molesto quanto una mosca sul naso; pensa se due! Piuttosto poi di tenere tre pensieri fitti nel capo li baratterebbero con la corona di spine di Gesù. Chiunque in mezzo a loro si ricorderà, che il quattro viene dopo il tre, e dopo il quattro il cinque, e chiunque non rifinirà gridare a squarciagola strozzandoli, come il carnefice del principe Carlo figliuolo di Filippo: «la stia zitto, signore, che quello che io fo, lo fo proprio per suo bene» arriverà a dominarli sempre, Infatti dopo che lo imperatore Napoleone pubblicò urbi et orbi, che impero significava pace, la Francia non sostenne mai guerre sì varie, nè più difficili a vincersi, nè meno facili a prevedersene la fine. A Caterina dei Medici, al cardinale Mazzarino, e a Napoleone Bonaparte, che mai possono opporre i Francesi? Il solo Richelieu, e questo perchè egli e gli altri ponevano il proprio concetto sul capezzale la sera quando si addormentavano per ripigliarlo appena desti la mattina. Per gli uomini francesi torna mostruoso tenere un pensiero in testa più di un'ora quanto alla femmina francese condursi due volte al festino col medesimo abbigliamento; che se contrastando tu osservi da Caterina, dal Mazzarino, e da Napoleone creature per eccellenza uniche non può cavarsene regola generale io ti allegherò la turba dei còrsi Saliceti, Pozzo di Borgo, Sebastiani, Abbatucci, ed altri moltissimi per ingegno certo non superiori ai Francesi, ma che pure costanti nei propositi, e fermi nei concetti arrivarono a dominarli, e li dominano.—

Lo assedio di Roma

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