Читать книгу Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 8
ОглавлениеSe la fortuna maligna ci fece il cervello senza gambe, o perchè non ci approfittiamo del giudizio dei nostri vecchi? Ora senza tante storie tenetevi come un breviario nelle mani da recitare quattro volte il giorno quanto lasciò scritto di loro Niccolo Macchiavello, o piuttosto imparatelo a mente, che la è cosa corta, ed insegnatelo invece della Santa Croce ai vostri figliuoli:
«Stimano tanto l'utile e il danno presente che poco rammentano le ingiurie e i benefizi passati, e poco cura si pigliano del bene, e del male futuri.»
«Taccagni piuttostochè prudenti; poco loro cale di quanto su loro si parli o scriva: cupidi più del danaro, che del sangue; generosi solo nelle udienze.»
«Chi vuole condurre a bene una cosa nella Corte di Francia gli bisognano danari assai, diligenza grande, e buona fortuna.»
«Richiesti di un benefizio pensano prima che utile ne possono cavare per loro, che se devano servirti.»
«Quando non ti possano far bene te lo promettono; quando te ne possano fare, lo fanno con difficoltà o non mai.»
«Umilissimi nella cattiva fortuna, nella buona insolenti.»
«Ordiscono male col senno, ma tessono bene con la forza.»
«Chi vince accorda sempre con loro, chi perde mai, epperò prima di cominciare una impresa bada se ti possa riuscire, e se la ti può riuscire non ti trattenga il pensiero d'impermalirli. Con tutti, massime con loro il traditore è il vinto.»
«Vari sono e leggeri; nemici del parlare romano e della fama nostra.»
E non è tutto; pure può bastare; che se taluno screditasse l'autorità del Macchiavello come uomo appassionato o maligno tu credi, che il Macchiavello poteva sentire forse il caldo e il freddo, l'amore, e l'odio in cose di stato no; così vero questo, che gli scrittori francesi o vogli antichi o vogli moderni più gravi accuse articolarono a proprio danno, e le puoi leggere nella storia di Francia del Michelet. Tito Livio attesta i Galli avere in costume rompere la fede per vezzo; nulla contavano le promesse: vanto loro gabbare; e' sembra che i nipoti non abbiano tralignato.—
Voi vedete quanto grande il debito dei Francesi nel conto che loro aperse la Italia, e delle poste antiche di Carlomagno si tace per compensarle con le antichissime, nostre di Giulio Cesare. Veruno di voi ignora la copia del sangue generoso che ci costò il primo impero: e che importavano a noi le guerre ispaniche, e che le boreali? Con le nostre mani dovemmo fabbricare le nostre catene, però la vittoria, la quale agli altri è madre gioconda di libertà, a noi ribadiva il servaggio. La Francia crescente noi empiva di lutto, tramontante c'involse nella sua ruina; dopochè la Italia venne tratta nell'orbe della Francia mai più fu visto così infelice satellite. Quando Napoleone si struggeva all'Elba quasi ferro morso dalla lima, noi altri Italiani commiserando alla grandezza sventurata dell'uomo gli dicemmo: «vieni tra noi, qui troverai meglio dell'aquila rapace; cuori che palpitano anco dentro i sepolcri; menti che la fortuna impietra nella fede; che se per tua sventura e nostra ti talenta un'aquila per la caccia dei popoli, eccoti la romana; meglio di cotesta tua francese conosce le vie della vittoria.» Ed egli sdegnò; insetto imperiale antepose bruciare alla candela di Francia, che rinnovarsi il sangue co' raggi del sole italiano. La stirpe napoleonide ci doveva un compenso, e i laudatori codardi della potenza felice baccando come Menadi briache lui inneggiavano padre, e redentore, per poco non supplicavano Dio a cedergli il trono, per metterci lui, allorchè venne a combattere l'Austria in Italia: quali i suoi concetti nel moversi come nel fermarsi dicemmo; e se sia vero il fatto lo dimostra, imperciocchè se veramente, come le parole sonavano, volle la Italia unita per qual consiglio mentre si vantava aiuto in Lombardia diventa ostacolo a Napoli e in Roma? Tuttavolta ebbe Nizza, e Savoia; la chiave d'Italia, e le tombe dei padri dei monarchi d'Italia; materia ed anima, religione e interessi, vivi e morti crudelmente offesi;—e scredenza confessata da noi della unità italiana, e ragione stabilita a impedirla in futuro; posti i fondamenti della guercia unità di un Piemonte ingrassato[1]. E come se tanto non bastasse, ecco i nostri rettori, e chi consente con essi crescere di furore: la libertà, e la indipendenza sembra, che addosso a loro esercitino la virtù di due camice di Nesso; muove a sdegno la viltà di Esaù venditore della sua primogenitura per un piatto di lenticchie, ma quali e quante passioni agiti dentro noi la vista di questi Coribanti insaniti di servitù noi non possiamo significare. Mi pare avere intronate le orecchie dall'orribile profferta dei figliuoli del conte Ugolino:
«. . . . . . Tu le vestisti «Queste misere membra e tu le spoglia.»
[1] Espressioni di G. Ferrari nel primo discorso contro il Trattato di Commercio!
Guai! anco a cui tra loro non doma perfino una aurora boreale d'intelletto italiano! Guai! anco a cui tra loro mostra che il sangue gli batte il cuore meno gelido, meno monotono della goccia che casca giù dalla volta della grotta, che in procinto di essere messo al bando della Chiesa moderata per ottenere perdono bisogna, che si presenti con la corda al collo, co' piedi, col capo, coll'anima nella neve.—Signore, liberaci da questi lupercali di vergogna e d'infamia!
Pertanto fu ragione, se l'amico nostro non si reputava soddisfatto, e chiese così la Sardegna per finocchio dopo il pasto; ma essendosi gli arruffapopoli inalberati sul serio, i castrapopoli non gliene poterono fare dono. La Sardegna avrebbe somministrato stabile fondamento di preponderanza alla Francia nel mediterraneo, e poichè per questo lato non le riuscì spuntarla, ecco che torna per via obliqua all'assalto, e mediante il trattato di navigazione a se accerta facoltà di crescere, noi assicura a perpetua rachitide. La trista setta, che ha tolto per compito di nabissare la Italia opponeva lo stato della navigazione nostra floridissimo nonostante la concorrenza francese, e male argomentava, però che lo appunto si miri a fare in modo che cotesto stato non già floridissimo, ma comportabile cessi; nè da per tutta la Italia accadde ad una maniera, bensì nella Liguria dove la inopia di terra spinge alle industrie marittime. Fu domandato s'instituisse una inchiesta di gente perita affinchè in faccenda dove ne va posta sì grossa si procedesse con piena conoscenza di causa, e secondo il solito dispettosamente la respinsero, e sì che dovevano conoscere a prova quanto male avesse approdato al paese cotesto loro arrogante perfidiare.—Come riuscì profittevole l'aumento del 10 per cento per le ferrovie? Nè valsero a dissuaderli le persuasioni di uomini espertissimi, ed a loro devoti; come neppure la sconcia contradizione in che cascavano, avendo nella stessa sessione proposta la legge pel menomato porto delle lettere: qui si contava sopra, maggiore ripresa sul rinvilio, là speravasi il medesimo resultamento dal caro: peggio di tutte la legge sul bollo, e sul registro: fioccavano i moniti; sbracciavansi a dare ad intendere come certe tasse, che sta in potere tuo diminuire se crescano soverchiamente, trovi modo a ridurle senza tuo pregiudizio: valga per esempio questo: dove tu renda grave il diritto di registro sopra il trapasso di proprietà avendo a comperare un podere del valore di tremila scudi, tu d'accordo col venditore porrai sul pubblico strumento tanto prezzo quanto basti a coprirti dall'accusa della lesione, e basteranno i mille e cinquecento scudi, gli altri millecinquecento tu passerai a mano al venditore mercè ricevuta privata; donde avviene, che se prima il registro costava tre per cento, veruno pensando a frodarlo, tu riscotevi sul contratto la gabella di novanta scudi, mentre adesso, che l'hai cresciuto a cinque per cento tu non ne cavi più di settantacinque; vero è però che il legislatore mascagno ha previsto il tiro, e dove il Percettore trovi alterato il prezzo a danno del fisco cresce a suo modo e manda la gente al tribunale; di qui odio contro il Percettore, querele nei tribunali, liti che si possono vincere come perdere, aperta a due imposte la porta agli arbitrii, e quello, ch'è peggio, se a qualche misero toccò la sventura di avere ad alienare il suo a prezzo vile per soprassoma dovrà pagare la tassa come se glielo avessero pagato il giusto: orribile legge! di fatti cagione d'inestimabili querimonie! ella, come si presagiva, non approdò allo erario secondo le ingorde voglie; e chi la fece, dopo aver promesso riformarla, adesso si vanta aver fitto cotesto cavicchio nella Italia.—Ma che ci sta a fare il cervello dentro cotesti benedetti crani? Se ce lo avessero messi come un cencio sudicio nella conca del bucato a questa ora avrebbe ad essere lavato e asciutto al sole. Niente valse; che cavillando in ischiuma di parole inani, ecco a colpi di sofisma la setta ha conficcato il secondo chiodo alla Italia; il primo fu il trattato di Nizza, e di Savoia, il secondo è il trattato di navigazione; aspettate il terzo, e sarà messa in croce la Italia; ah! se mi si domandasse se più debbansi aborrire o tedeschi o moderati in coscienza penserei dovere rispondere, che voglionsi odiare con odio pari ambedue, benchè maggiore cagione la porgano i moderati: di vero quelli nemici sono, e si arrabattano a mantenersi serva una terra conquistata, mentre questi poichè la bindolarono a cui l'aveva col proprio sangue redenta anfanano adesso a riporla in servitù. Giusto giudicio cada sopra il vostro sangue, talchè i vostri successori ne abbiano spavento[1].
[1] «Giusto giudicio dalle stelle caggia
Sopra il tuo sangue, e fie nuovo et aperto
Talchè il tuo successor temenza ne aggia.»
Dante
Sovvenuti da cotanto amico si dice, che noi aderimmo al Congresso: quanto a me non ci credo; dacchè è chiaro come noi non possiamo, che scapitarci. I Sovrani, che ci riconobbero diranno: voi ci deste ad intendere, che il metallo popolano urlava infocato nella fornace, le volte ne tremavano, screpolavansi le pareti; se si commetteva a voi aprirgli la via voi lo avreste condotto a fondere una corona; all'opposto se stiantava da se irrompeva a gettare un berretto; in queste angustie io vi ho concesso fondere una corona: ora poi vediamo a prova, che la faccenda cammina altramente; dura la guerra ma no per la libertà, bensì per mantenere fermo un trono stabilito da Dio, e col consentimento nostro raffermato: così essendo ci piace la corona del Borbone come quella, che conosciamo fabbricata di metallo ugualissimo al nostro, e poi ci garbano meglio due corone che una, perchè quanti meno siamo a comandare tanto meglio ci torna, ed una contrapponendo all'altra rendiamo inani ambedue: la regia potestà l'è una tal cetra dove come più ci hanno corde peggiore suono manda. Poco preme a noi del Papa capo dei cattolici, moltissimo come capo di quella potestà spirituale, che interzandosi con la nostra ne fa una corda da reggere tutto il genere umano; non intendiamo, che la Italia si componga intera, anzi ripigli ognuno le sue spoglie, e torni a casa. Non ci opponete i voti dei popoli: con noi siffatti garbugli non giovano a scarrucolarci: ad ogni modo frego e da capo: fuori tutti da Napoli, fuori dalla Toscana, e dalla Emilia, e liberi allora da timore, e da lusinghe i popoli palesino la propria volontà.—
In tali strette a qual santo vi voterete voi altri? Al vostro amico di Francia? Dov'egli non abbia composto i fatti suoi, fingerà di sostenervi per avvantaggiarsi; se gli avrà assettati vi rinnegherà anco fuori del pretorio, e senza, che lo abbia ravvisato la serva[1]. Certo per voi non si rimarrà su la corda; considerate il tiro, che fece agl'Inglesi nella guerra di Crimea, e credete ch'egli voglia pigliarsi soggezione di voi? O non capite, ch'egli tenne ad arte fin qui spezzata la Italia come il mercante va al mercato con la moneta spicciola in tasca per aggiustare il prezzo della derrata?
[1] S. Matteo c. 16 v. 64.
Oggimai però torna vano spendere parole intorno a questo argomento, che il Congresso, mancata la Inghilterra, non si può fare; la vescica di Francia cadde sgonfiata al penetrare della punta di un ago inglese. Fin qui la fortuna arrise al Napoleonide, e mentre dura il vento prospero ogni uomo par pilota; adesso, che si mette alla burrasca gli spropositi fioccano, e veramente è tale questo della proposta del Congresso, dacchè avendo il fino che già accennai, bisognava scandagliare prima il terreno per non cascare dentro la fitta: ora poi fu mandato sossopra per ragioni così agevolmente pratiche, così ovviamente persuasive, che bene si acquista fama di leggerino chi prima lo promosse: donde noi giudichiamo o che non ebbe mai senno, o lo ha perduto chi si avventura a mettere in repentaglio la reputazione di prudente per cosa dove il civanzo è incerto, la perdita sicura; e comecchè ai Francesi non manchino spiriti vivacissimi, che anzi li possiedono in copia, vie più mi confermo nella opinione, che di Stato essi non intendano niente; e se questo ebbe animo di dire il Macchiavello in faccia al cardinale di Amboise ministro di Luigi XII non farà caso, che lo dica io qui dove veruno Francese ci sente.—
Smorzato il Congresso sottentra un'altra sequela di considerazioni piene di ambagi; e tu odi dintorno un domandare affannoso: «avremo la guerra?»
Gli oracoli tacquero, affermano gli scrittori cristiani, dopo la venuta di Gesù Cristo, i Profeti non costumano più, o li bruciano come il Savonarola, o li buttano nel Tevere come Brandano; degli Astrologhi non rimangono neppure le ceneri: a speculare il futuro non ci avanza altro telescopio, che l'intelletto il quale quando non ha le lenti rotte quasi sempre se le trova appannate. A Torino ci hanno vecchi repubblicani con un paio di occhiali di dodicimila franchi all'anno sul naso adesso vedono tutto monarchico, ed anco assoluto.
Noi pertanto con lo intelletto nostro ragioniamo così. Lo Imperatore di Francia guerra sembra non ne abbia a volere; suo fine prima di giungere al regno fu arrivarci, arrivato mantenercisi; magari! se starebbe quieto ad esclamare: Deus nobis hæc otia fecit; ma nè Dio si pigliò cura di lui, nè gli largiva ozi; i giorni suoi afferrò Nemesi dagli occhi senza palpebre, la Dea implacata, che veglia sempre, la quale gli contende posarsi; dov'egli si fermi le sue gambe, come quelle di Filemone, e di Bauci, barbificheranno nella terra, e ne sorgerà rigoglioso e potente l'albero della Libertà. Lo impero perchè duri bisogna, che procacci al popolo di Francia la recuperazione di quanto la Repubblica consegnò al primo Napoleone, e adempia alle necessità della Democrazia.
Ma dov'è questa Democrazia, e chi la rappresenta? Tutti e nessuno; per ora assai rassomiglia alla morte, la quale mentre non ha forma disforma tutte le cose, e come la morte è capo di vita novella: difficilmente accade e forse mai che l'uomo acconsenta in tutto e per tutto ad un'altro uomo; quindi screzi in casa, nel foro, e da ogni dove, anco tra quelli che si professano cultori di uno stesso partito; ma dai milioni dei singoli emanano a mo' di molecole spiriti di sensi uguali sottilissimi, e tenui, i quali aggregandosi moltiplicano; cresciuti a potenza mirabile compongono quella grande cosa, ch'è la coscienza pubblica, donna e madonna del mondo. Questa s'insinua nell'aria, la bevi nell'acqua, l'odi in tutti i suoni, ti squilla in ogni canto; se la cacci in prigione ti guasta il carceriere, se la mandi al patibolo si mette a predicare su la traversa della forca, se cammini ti sta allato come ombra, se giaci ti zuffola di sotto al guanciale, se dormi ti si pone a sedere sul cuore come sopra un cuscino. Ferro, fuoco, laccio, e veleno non valgono contro lei; gli hanno provati, e conobbero, che se ne alimenta per crescere.—Gli astutissimi sfidati poterla vincere hanno cercato agguindolarla e pare, che riescano; ma ella è una proroga, che talora si concede da lei per ferire meglio,… la sosta nella cappella del condannato condotto alla giustizia.
E che vuole mai la Democrazia? Con quale sacrifizio si placa questa terribile divinità?—La Democrazia si compone di anima e di corpo, quindi abbisogna del pane quotidiano di biada, e d'idee; l'uno senza l'altro non approda; con le idee sole tu plastichi un solitario, col solo pane un gladiatore. Napoleone III attese a seppellire l'anima dentro ad un pane; ed ha sbagliato per molte ragioni, e primamente perchè le anime non si seppelliscono dentro ai pani, come non si affogano dentro l'acqua benedetta; e poi perchè veruno al mondo per quanto potentissimo egli sia può sostituirsi in luogo della Provvidenza, ed il concetto di bastare al pane di trenta e più milioni di uomini si reputa infermità da curarsi con l'elleboro; anco a un milione non lo potrai dare, che scarso, e per tempo non lungo.—Di vero la Francia con quasi due miliardi di entrata dopo lo impero patisce un manco nel bilancio di 336 milioni a ragguaglio di un'anno per l'altro; ed ora di un tratto ci palesa per soprassello un vuoto di 900 e più milioni. La Democrazia va agitata da istinti immani, che brancolano come una volta l'Erebo, e la Notte dentro il Caos prima che l'onnipotente Architetto ordinasse il mondo; dentro le odierne forme sociali la Democrazia si sente scoppiare, tutto è dolore per lei, la vita come la morte; così non va bene, bisogna che muti; ma come mutare? Qui il nodo.—I sapienti almanaccano con certi sperimenti loro, che chiamano scienza, e i derivati suoi predicano assiomi, ma poi alla prova nè manco essi ci credono; arroganza antica di empirici: frai sapienti davvero Socrate ti afferma nella sua vita avere saputo non sapere nulla, Pirrone dubitava di tutto, santo Agostino di molto, san Tommaso di Aquino distingueva: i nostri divini intelletti all'opposto non distinguono mai, di nulla dubitano, tutto sanno. La Democrazia molto si arrovellò un giorno per le forme politiche degli Stati suspicando che per colpa, o per virtù loro ei prosperassero o intristissero; adesso ricreduta alle forme politiche non bada, o poco ella più che tutto pensa a mutare l'alveo al fiume della umanità. Che giova nascondere la faccia delle cose? Nè per ambagi, nè per dinego può farsi che le cose non appariscano e non sieno. La Democrazia se dal dispotismo ricavò sempre male, non sempre ebbe bene dalla Repubblica; che monta regno, e che monta repubblica? Agide e Cleomene Re sentirono pietà pel popolo, come si commossero per lui Tiberio, e Caio Gracco tribuni, tribuni e Re rimasero dai conservatori, o aristocratici, ottimati, moderati, o con quale altro più reo nome voi li vogliate chiamare, insomma i privilegiati che intendono circondare il privilegio col terrore delle leggi, e la mannaia del carnefice. Parecchi ed io con loro confidarono potesse cosiffatta trasformazione operarsi a mano a mano, e all'avvenante che si abbatteva il vecchio costruirsi il nuovo: i conservatori, o moderati che vogliamo dire (e si faceva per loro!) non compresero, o rifiutando comprendere proruppero in calunnie; e forse quanto divisammo non poteva accadere: in questo come nella più parte dei nostri disegni abbiamo conosciuto la verità della parola del divino maestro, che toppa nuova su panno vecchio non regge; grandissima parte di noi in premio dei travagli sofferti avrà fama nei posteri di trave in mezzo alla via, ostacolo al progresso della umanità; felice colui di cui le forze a spingere rinvenute uguali a quelle del respingere passerà senza infamia e senza lode: fie per noi desiderabile essere stimati uomini inutili.—Il moto, che agita i popoli rigettato indietro, poichè la scienza non gli trovò lo sbocco, glielo faranno trovare l'ira, e la necessità. Che aspetto presenteranno gli umani consorzi dopo gli eventi presagiti? Chi può dire che sarà della terra dopochè l'avranno solcata le lave dei vulcani?—Quello, che deve accadere accadrà; questa iscrizione si leggeva sopra il castello di Enrico IV nel Bearnese; sia permesso a me popolano usurpare la iscrizione del Re.
La Democrazia pertanto, secondo la opinione mia, sforzerà alla guerra il Napoleonide, ma non lo sovverrà, e nè egli vorrà essere sovvenuto: oggi costui si trova ridotto a tale, che non può stare con lei, nè senza di lei: preso pei capelli dalla Democrazia egli si ostinerà ad ordinare la guerra regia; e la Democrazia sola è capace di soffiare il vento, che spinge la tua bandiera in faccia al nemico; cotesto vessillo poi di qua o di là, che sventoli tu avrai sconfitta o vittoria; però che solo dalla Democrazia puoi ottenere i volontari, che fuggendo prima a Gemmappe portarono poi le aquile imperiali per tutta la terra ferma di Europa.—Con chi vorrà o potrà collegarsi il Napoleonide? E' vi ha chi dice con la Italia, e con la Russia, e sembra strano che la guerra mossa dagli strazi della Polonia andasse a finire con la lega della Russia; ma i tempi e l'uomo ci hanno avvezzi a bene altri contrasti, e te ne persuaderai solo, che tu confronti la impresa d'Italia con quella del Messico. Comecchè dunque siffatta lega non s'impugni, pure ne esecriamo il presagio nè la crediamo per nulla; avvertiamo ad altro. Lega con l'Austria non sembra possibile, imperciocchè la blandizie insidiosa del Messico rifiutata[1], palesa il suo animo alieno dalla Francia del pari che il Congresso non accolto dalla Inghilterra lo dimostra avverso; e veramente riesce duro a credersi, che l'Austria voglia scendere in campo per affrancare la Polonia di cui parte ella abbranca dentro ai suoi artigli; nè a lei talentano davvero le guerre, che mirano al riscatto dei popoli dalla servitù; lo stesso dicasi della Prussia su la quale molto ascendente esercita la Inghilterra; nè vediamo quale sarebbe il compenso della impresa zarosa: forse la promessa all'una ovvero all'altra potenza della Polonia riscossa di mano alla Russia; ma chi compra pelle di Orso prima, che sia preso? E poi qui occorre conquista doppia: prima vincere la Russia, poi la Polonia. O vorrà il Napoleonide mettersi allo sbaraglio con solo la Italia, e forse con la Turchia? Quando Napoleone I si avventò contro la Russia, eccetto la Inghilterra, traeva seco alleata tutta la Germania, che allo improvviso gli si voltò nemica; sarebbe prudente che ci si avventurasse Napoleone III con la Germania avversa? Se lo facesse, la Italia dovrebbe, o potrebbe seguitarlo?
[1] Finalmente Massimiliano accettò, ma l'Austria ingratamente il sofferse, sicchè il concetto non muta in nulla.
La Italia non può seguitarlo; imperciocchè la Italia e la Francia portino le pene, quella di non avere preso, questa di averle contrastato Roma. Roma tolta in tempo di mezzo importava per noi stato se non perfettamente, almeno quanto basta ordinato: guerra civile repressa; massima parte di malcontento senza ragione di sorgere, e di durare; erario non florido, ma nè anco agli ultimi tratti; esercito intero, e non guasto da battaglie come vuote di gloria così piene di molto pericolo, e di ferocia, Roma per noi importa la trasformazione di ventidue milioni di stracci ammucchiati, dentro la bottega del rigattiere, in un popolo nobilissimo e potentissimo di ventidue, e più milioni di anime.
La Inghilterra abbisogna in terra ferma di uno stato forte sopra il quale appoggiarsi, non già per offendere, che non le giova, bensì per difendersi, cosa a cui molto ella bada; e fin qui ella si tenne l'Austria, nè le doleva (fosse genio o costume di antica domestichezza), nel quale concetto mi conferma il ricordo delle parole del Russell quando confortava gl'Italiani a riporre ogni loro fidanza nell'Austria ridivenuta mite: ma poichè la Inghilterra conobbe l'Austria dannata ad insanabile decadenza, ella, per quanto ci è dato giudicare, non era aliena, anzi si prestava volonterosa alla composizione del regno italiano, come quello che interponendosi tra la Francia, e la Inghilterra le avrebbe mantenute in pace. Ora finchè la Italia rimanga satellite della Francia la Inghilterra, sembra a noi, che sia condotta ad appoggiarsi su la Prussia, ovvero sopra l'Austria, o sopra ambedue. Se sia provvidenziale o funesto non sapremmo dire, ma certo egli è che tra Francia e Inghilterra vive uno spirito, che le sospinge perpetuo una contro l'altra, e dove la Italia per virtù propria, e per benefizio di fortuna potesse essere assunta alla dignità di araldo fra loro oltre ad acquistare per sè novella gloria, e più desiderabile delle passate assai, forse aprirebbe il varco ad ordine di cose, che fin qui è stato desiderio di anime innocenti o fantasia di poeti. La Italia poi più che altri ci apparisce capace a tanto ufficio, imperciocchè da lei ab antiquo emani aura di civiltà, ed è usa dare alle genti religione, riti, e nozioni di diritti, le quali cose tanto più volentieri si pigliano da lei quanto ella sa meglio vestire il buono con le amabili forme del bello[1]. Veramente l'appetito cieco, massime da principio, poteva ribellarsi da siffatto arbitrato, ed allora la Italia accostandosi colà dove la inchinava la giustizia, avrebbe eziandio con la minaccia della guerra prevenuto la guerra.—
[1] Qui ricordo come certa volta Cammillo Cavour, senza che il bisogno ce lo stringesse, scappò fuori in Parlamento con le parole:—egli non amare, nè intendere le belle arti.—Ond'io, che lo udii giudicai, che nè egli mai avrebbe compreso la Italia, nè mai l'avrebbe degnamente rappresentata: noi come i Greci non significhiamo con una parola sola bello e buono; però reputiamo che buono non possa essere chi ad un punto non sia bello. Chi si avvisa come il morto conte Cavour corre rischio di scambiare le tre Grazie con le tre Furie.
La Italia sembra a me ridotta a tale, che per sè nulla possa, e se mai segue la fortuna di Francia lo farà come il grano messo sotto la mola; vi rimarrà macinata; il perdere di lei è rovina, il vincere servitù: tuttavia messo da parte la volontà, ma donde cava ella la potenza per sostenere una politica propria, ed anco per comparire utile aiutatrice della politica altrui?—La Italia manca di armi sufficienti alla impresa: la setta empia, che fa cadavere tutto quello, che tocca, adulando sostiene possederne anco troppe: e mentisce: ma che monta per lei? Se la Patria avesse a dare il tracollo, le sue gambe sono già use ad inginocchiarsi davanti al nemico invasore; use le mani a picchiarsi il petto; e la bocca usa a recitare il confiteor d'infamia. Mentisce, imperciocchè l'esercito non sommi bene a trecentomila uomini[1]; cento e più mila ne sciupano tra la Sicilia, e Napoli; diffalcate gl'infermi, i presidii, gli addetti alle amministrazioni; avvertite, che tutti ad un tratto non si possono arrisicare; quelli, che rimangono sopra una carta, e ditemi poi quanti entreranno sul campo? Che se vi attentaste scemare i soldati nelle provincie meridionali, e forse anco altrove con Roma arrotatrice di masnadieri, il Borbone arrovellato per la mandra rapita, le trame dei sacerdoti iniqui, le ire degli spodestati, gl'interessi inciprigniti, l'agonia di ricattarsi, e ahimè! la inerzia altresì, o il corruccio degli uomini liberali, per me dubito, che correremmo presentissimo pericolo che avvenisse a noi come ad Uguccione della Faggiuola, il quale mentre esce di Lucca per ricuperare Pisa arrivato a mezzo cammino perde anco Lucca. Su i soldati volontari non parmi ci si possa fare capitale, e ciò per due ragioni; la prima, che il Governo non consentirebbe chiamarli, la seconda, ch'essi non ci vorrebbero andare. Quanto al Governo una volta, che con pertinacia stupenda, e spesa enorme li licenziò non sembra, che senza biasimo potrebbe radunarli da capo, e poi non ci ha di questi pericoli considerando la perseveranza del ministro della guerra a sbrattare l'esercito di ogni labe garibaldesca; per ciò che spetta ai volontari, sicuro occorrono uomini della natura dello insetto, che non sembra pago dove prima non si sia arso intorno al lume, ma non crederei che queste voglie si partecipassero dai garibaldini.
[1] Il Ministro della guerra ha affermato averne di più; lo ho affermato:…
E quanto ai volontari in brevi accenti mi giovi ripetere quello, che apertamente già ne dissi altrove, avendo avuto a sperimentarli io. Importa distinguere tra volontari che non pigliano la ferma dagli altri che la pigliano; e poi tra quelli che si assoggettano a regolare disciplina, e gli altri che ci repugnano; per ultimo fra quelli che si danno e gli altri che ricevono gli ufficiali. Chi non piglia ferma, e procede senza legge, e si sceglie il capo non mica per obbedirlo bensì per istrascinarselo dietro tra i cattivi è pessimo. Ricordai altrove come Gasparo di Coligny grande ammiraglio di Francia, costretto ad accettare nelle guerre di religione chi veniva veniva ebbe più volte a dire, che aria tolto a reggere piuttosto una legione di diavoli, che una compagnia di volontari; ed avverti, che i volontari del Coligny spettavano la più parte alla nobiltà campagnuola, mentre i più dei volontari odierni uscivano dalla popolazione delle città. La elezione dei capitani messa in balìa dei soldati se dannosa sempre io per me non saprei, ma nuoce certo negli esordii, però che allora prevalgano gl'imbroglioni, mentre dopo combattute parecchie battaglie potrebbe darsi, che la virtù prevalesse. Faceva mestieri pur troppo a non pochi fra i volontari la provvista quotidiana come di pane, e di carne così di cappotti, e di scarpe; le armi se invendute nabbissate; nè questo è tutto: forse in verun corpo come tra i volontari si trovano estremi, imperciocchè vi accorrano giovani i quali per ordinario possiedono facoltà di scansare la leva, ed uomini che dell'anima loro non sanno proprio, che farsi; nè mancano eziandio coloro che tu non patiresti al tuo fianco, eccetto sul campo di battaglia. E bada bene, che non sarebbe giusto, nè arguto respingerli, dacchè essendo mossi da animo buono possono rigenerarsi nel battesimo del sangue, e se da cattivo ci è il caso, che per via onorata scemino alla Patria gli umori malsani che la travagliano. Per la quale cosa riesce difficile maneggiarli prima, e dopo la guerra, imperciocchè adoperando rigidezza sovente meritata dai secondi, offendi i primi, mentre se ti comporti benigno rendendo a questi i degni premi, promuovi con pericolo, e non senza scapito della tua reputazione gli altri. Nè qui le difficoltà cessano; anzi appena furono tocche da me; tuttavia pon mente a questo, che se l'arte di governare i popoli, in ispecie nei tempi grossi, fosse pari a quella d'impagliare i fiaschi gli uomini di stato si troverieno ad ogni svolta di canto; e strano medico ti parrebbe colui, che sgomento o imperito a guarire i mali desse allo infermo di una stanga sul capo per medicina.—E poi le milizie regolari sono proprio scelte con la diligenza di chi mette assieme il vezzo di perle alla sposa? importa non buttare legna sul fuoco, ma davvero, tra lo agitare la camicia insanguinata dinanzi agli occhi del popolo infellonito, e scolpare ogni eccesso ci fie lecito domandare qual sia più tristo, e più nocivo alla Patria? Io per me, quando penso alla rigidità con la quale i Romani punivano ogni più lieve fallo in fatto di disciplina, non arrivo a capire la ragione per cui i Governanti nostri nieghino, o scusino colpe, che per debito sacrosanto avrebbono a ricercare, e a percotere.—Là dove si voglia opporre, come cessata la guerra riescano carico molestissimo i volontari, noterò che carico non meno molesto proviamo le milizie ordinarie: entrambi conservate divorano le sostanze del paese, entrambi dimesse ti empiono le carceri; in altri tempi quando era lecito manifestare il proprio concetto passò fino in proverbio, che la guerra fa i ladri, e la pace gl'impicca. Se oggi la guerra faccia i ladri non cerchiamo; bene però possiamo dire essere molto verosimile li partorisca la pace, ed è per questo, che noi divisavamo un dì trasformare il soldato in agricoltore tirando partito da terreni incolti, e per salvatichezza malsani; nel quale disegno ci confermava la necessità di respingere vie via nella campagna le braccia, che affluiscono nelle città dove le menano il desiderio di guadagno più largo, o di lavoro men duro, così che mentre le industrie manifatturiere nelle quali la Italia non può prevalere patiscono ribocco di cultori, le agricole poi ne sentono difetto.—
Proseguendo il mio discorso affermo, che la impedita annessione di Roma al Regno italico ci abbia condotto in termini di pecunia, che ormai non vedo come ci si possa trovare rimedio, almeno ordinario; ed anco questo tra gli altri tutti gravissimi è male delle rivoluzioni, o se pure vuolsi, delle trasformazioni tronche a mezzo. Per questo caso tu patisci gli strappi del vecchio, e non ti approfittano i rammendi del nuovo. Adesso la rivoluzione a mo' del bronzo, squagliato per fondere il Perseo, che Benvenuto Cellini lasciava improvvido in balìa altrui, ha fatto migliaccio,[1] e si chiede virtù più che umana a farlo liquefare; poichè quando potevamo non volevamo, adesso ci tocca a volere come potremo, se pure è volere quello che la necessità ci pone quasi giogo sul collo.
[1] Vita di Benvenuto, Cellini, p. 276.
Quando gli stati o per volontà propria, o per forza altrui operano rivoluzione o trasformazione patiscono scompiglio più o meno intenso, tuttavia sempre molesto. Chi va a prova di forza si cava meglio d'impiccio, almanco pel momento, però che detti la legge sopra la punta delle baionette. Le sono cose, le quali si devono dire, che la piaggeria al popolo, codarda quanto quella, che usiamo verso i re, torna agli stati più funesta assai: i Tedeschi invasori incutendo paura radunavano più agevolmente moneta, che non poterono i nostri Reggitori quantunque santissimi. Corrotti siamo fino al midollo, e con la perpetua iattanza di civiltà veliamo la putrefazione nostra a mo', che si usa coprire col tappeto di velluto ricamato di oro il cadavere quando si porta al camposanto; non l'amore di Patria, bensì il terrore del bastone straniero fabbrica la chiave onde si aprono gli scrigni di questo immenso ghetto, che la gente moderata appella Italia.
Ai Rettori delle rivoluzioni volontarie fanno mestieri sagacia grande, e virtù: importa ch'ei procedano lieve, lieve, che le carni sono scoperte e per poco s'infiammano, ed io ho creduto sempre, e tuttavia credo, che le regole generali, e le teorie della scienza sul principio delle rivoluzioni non approdino, anzi nocciano, e molto: a guidare gli esordii delle rivoluzioni, per mio avviso, si desiderano uomini ricchi di partiti; i quali nella moltitudine delle contingenze o varie, o discordi, o contrarie si schermiscano con rimedii empirici, sempre mirando a disporre la materia così, che un giorno accolga volonterosa l'ordinamento scientifico.—
Non si vuole negare, nè io già lo nego, come in siffatti negozi riescano più agevoli i consigli, che i fatti; quando di teorie fu mai penuria? Le pratiche sempre proviamo corte ai bisogni; poichè con le rivoluzioni volontarie non puoi valerti di sevizie, e potendo non lo dovresti; nè giovando andare loro di contro col prezzemolo al naso, a qual santo votarci noi non sappiamo.—Io l'ho pur detto sopra, di regole generali non hassi punto a fare parola; voglionsi uomini ricchi di partiti; e rimedii lì per lì escogitati ed apposti; nè solo in fatto di moneta, ma sì in ogni altro argomento politico mi apparve sempre inane e peggio mettere fuori quelli, che ai giorni nostri chiamansi programmi; e se anche io gli adoperai consentii piuttosto all'andazzo del tempo, che ad una mia persuasione; di vero se essi contengono generalità non rilevano, anzi sovente ingannano e la corda filata con la canape repubblicana non ti strozza meno stretta della fune tirannica; indicare poi rimedii speciali senza il caso di doverli applicare egli è un'ammannire cerotti prima, che il fignolo nasca. Se Casimiro Perier, o Cammillo Cavour tornassero al mondo e mi squadernassero in faccia un manifesto da disgradarne ogni più sterminata dichiarazione dei diritti dell'uomo, uccello accivettato io non cascherei sul vergone; che se all'opposto venisse un Washington, o un Kotschiusko, o un Bolivar, od altro divino spirito, onore di questa natura umana, e dicesse senza più parole: «in me confida» io gli porrei il capo in grembo. Capisco, che a questo modo corriamo pericolo grande; e sarà sempre un bel civanzo poterne fare a meno; ma quando non si può, Siena per forza[1].
[1] Questo modo proverbiale nasce dal costume praticato dai vari municipi toscani di presentare l'offerta a Firenze nella festa di S. Giovanni; la quale accadeva così: un banditore sotto la loggia dei Lanzi chiamava per ordine di precedenza le città; i deputati delle quali dopo avere risposto si facevano innanzi a deporre la offerta: ora essendo stata chiamata Siena dopo il conquisto di Cosimo dei Medici, i rappresentanti della medesima incapaci a reprimere il rancore esclamarono: per forza. Il popolo conservò la memoria del successo, e ne compose un proverbio. Se a cotesti tempi costumavano i Giornali non avrebbero mancato assicurare che i deputati di Siena avevano risposto allo appello con grida frenetiche o per lo meno entusiastiche.
Tamen, per dirla a mo' del Macchiavello, due partiti fino d'ora si possono annunziare; il primo consiste appunto nel liquefare il migliaccio rivoluzionario crescendo il fuoco come adoperò il Cellini col buttarci sopra la catasta dei quercioli secchi da più di un'anno, che gli aveva offerto madonna Ginevra moglie del Capretta; e quando il metallo cominciasse a schiarire, e a lampeggiare gittarci sopra anco il pane dello stagno, e dopo il pane piatti, scodelle, e tondi di stagno quanti ne fossero in casa[1]. Molti lo hanno accertato prima di me, ed io più volte lo dissi e lo affermai: a volere che gli uomini sentano, ed operino eroicamente fa mestieri agitarli; la quale sentenza vera in ogni condizione del consorzio umano, comecchè meno imperfetto, torna a capello nella infelicissima del nostro. Le cose oggi sono ridotte a punto, che non farebbe maraviglia se il primo grido dei pargoli a mezzo usciti dall'alvo materno fosse: «quanto per cento mi assicurate per vivere, se no torno dentro….!» La Patria diventò un commercio, la Libertà un'affare, respublica negotiosa come ai tempi della decadenza romana: la più parte degli uomini, guardateli bene, portano segnato il prezzo tra ciglio e ciglio, come i bauli, le sacche, i ninnoli, ed altra siffatta roba vendereccia nelle botteghe dei mercanti, con la differenza, che su questi ci si legge: prezzo fisso; su gli altri no, però che il valore cresca, o scemi secondochè sul mercato vi sia maggiore o minore richiesta di viltà.—A rischio di riuscire sazievole io vo' ripetere, che, battendo alla porta dello Interesse, ei non può darti altro, che uccellatori di strade ferrate, o di appalti, o di cariche, o di gladiatori per dodicimila franchi all'anno, o legislatori per tremila franchi al mese, soccorritori della Patria al saggio[2] del venti per cento l'anno, o impresarii di tempii dedicati a Venere pandemica, o nobili offerenti a conquistarti col grimaldello in mano, e mercè il premio di seicentomila franchi una corona[3], che male si piglia e peggio si tiene se non per virtù di spada, o fornitori di pompe funebri, o scorticatori di capretti, o conti Bastogi.
[1] Cellini, loc. cit.
[2] Laggiù tra i Piemontesi dicono tasso. Ci siamo arrangolati a capacitare cotesti buoni fratelli nostri come qualmente il tasso sia una bestia, che dorme assai, di cui occorrono due specie tasso cane, e tasso porco, il quale è anco buono a mangiare: gli abbiamo avvertiti altresì, che il tasso è un'albero, e tutto invano; tasso in Piemonte significa saggio, pro, interesse, frutto, ragione, e cambio, per la quale cosa, ed in virtù della egemonia piemontese si hanno a tirare in mezzo di strada tutte quelle parole italiane vecchie, e valerci di questa piemontese nuova. E già parecchi Toscani con docilità non mai commendevole a bastanza nelle splendide scritture, e dicerie loro bellamente l'adoperano.
[3] Quanto qui adombriamo adesso è oscuro. Il tempo lo chiarirà.
E strana cosa, mentre così si ragiona, ed opera da cui dovrebbe con gli atti porgere esempio imitabile al popolo riarso, estenuato, e reietto, che in onta all'eccessivo travaglio tira l'anima co' denti, gli s'intronano gli orecchi gridando: «la Libertà è cara, bisogna pagarla…. Ma, il popolo esclama, dove si trova ella questa Libertà per la quale assottiglio il pane alla mia famiglia, e do il sangue dei miei figliuoli?—Io la conosco come i dannati la gloria del paradiso. Voi sempre in cima, io sempre in fondo, voi sempre gaudenti, io sempre tribolato. Per me intendo Libertà quella che mi accerta vita men dura, e mi leva dall'angustia dell'ignoranza: questa amo, e per questa patirei ogni disagio: la vostra di povero mi ha fatto misero. Per farmi vedere maggior lume voi mi ardete la casa.—Voi bandite inclito versare il sangue per la Patria, ma riscattate il vostro a suono di danaro; i miei figliuoli vanno esenti ad un patto, ed è, che per manco di cibo, o per troppo di fatica vengano sparuti, o cresciuti si guastino. Qui si lapida adesso la umanità co' nomi, e con le apparenze generose si crocifiggono i popoli, la concordia significa tradimento, ordine la morte, libertà servaggio; come altra volta la misericordia era un coltello, e con un va in pace si mandava giù l'odiato innocente per un trabocchetto.»
Guai allo stato, ed a noi tutti guai se il popolo, confrontati i mali della tirannide con quelli della falsa libertà, un giorno brontoli: «torni il tiranno, almanco egli mi saziava la fame!»
Quale il fuoco, tale l'anima umana: per crescere l'ardore dei carboni tu li sbraci; la luce alla fiaccola tu la sventoli; commuovi forte l'anima umana e manderà calore, e luce.—Allora nell'agitazione degli affetti i popoli vetusti decretarono a Giove l'ecatombe, sagrifizio di cento bovi, non consultate o neglette le necessità dell'agricoltura, onde temperando più tardi lo incauto zelo, la stessa religione interpetrò per ecatombe non avere inteso significare i padri il sagrifizio di cento bovi, bensì cento gambe di bovi, e così venne ridotto il macello da cento a venticinque teste. Con l'animo agitato dal pericolo, e dal furore di superarlo, e' fu che gli Ateniesi allo approssimarsi dei Persiani votarono a Diana immolarle tante capre quanti avrebbero ucciso nemici; i quali salirono a numero così strabocchevole, che non trovandosi in tutta l'Attica capre sufficienti al sagrifizio, bisognò ridurre il voto a cinquecento per anno; a questo modo ridotto durava anco ai tempi di Senofonte, che ce ne ha lasciato il ricordo[1]. Nè a me giova moltiplicare esempi cavati dalle antiche o dalle moderne storie quando pure ieri io ne vedeva sotto i miei occhi la conferma, conciossiachè disputandosi fra noi sul modo di sovvenire certa sventura fraterna, il popolo non trattenuto dalle parole dei savi, i quali facevano considerare come accadendo gl'infortuni quotidiani, ed uno pur troppo più lacrimabile dell'altro, prudenza persuadeva a risparmiare il danaro tenendone in serbo una parte, ed una parte donandone, divinamente improvvido si rovesciò le tasche dicendo: «a domani qualcheduno penserà.» I santi solo ed il popolo pronunziano col cuore: «Deus providebit,» perchè davvero essi credono in Dio, ed essi solo meritano che Dio risponda alla loro fede.—
[1] Anabasi, 1. 3. c. 2.
La storia ci ammaestra l'esempio quanto sia contagioso così pel male, come pel bene; sebbene pel male due cotanti più, ond'io penso che amore desterebbe amore, generosità moverebbe generosità, e se taluno oltre a pagare i consueti balzelli per diventare popolo veracemente, costituire la Italia, uscire dall'uggia, e dalla umiliazione del presente avesse a deporre nell'erario mezza la sua entrata, a patti che l'avanzo bastasse ai bisogni della famiglia, e suoi, per me credo, che lo farebbe.—Che se altri irridendo opponga: «o chi lo para da mettere in esecuzione il suo proponimento?» Si risponderebbe: che a questi Governatori sempre ricusammo pecunia, però, che fino dal ministero Cavour a noi parve il concetto del governo viziato; c'increbbero gli uomini, ma più il disegno; conoscemmo la riga tirata obliqua, la quale quanto più sarebbe stata prodotta, di tanto sariasi dipartita dalla via retta. Anzi le mie parole novissime in Parlamento furono profferite per negare la riscossione provvisoria della rendita pubblica, avversando la opinione di tali, che si professano amici, quanto me, e più di me del vivere libero. Ora hassi a giudicare mal vezzo di animo stolidamente maligno intimarci a depositare il nostro danaro in mano a gente in cui non confidiamo, e che per opinione nostra servirebbe ad allungare l'agonìa della Patria. Come spontanei commetteremmo il nostro avere a tali a cui costretti innanzi di dare un soldo ci lasceremmo pestare nel mortaio come Anassarco?—Tanto varrebbe, come dice il proverbio, pagare il boia perchè ti frusti. E prima di dare, tirando un frego sul passato, vorremmo essere sicuri, che di ora in poi non ci si facessero mangerie come rescriveva Cosimo dei Medici allorchè stanziava i trecento scudi pel restauro del bagno di Montecatini[1]. Ancora parrebbe giusto, che le bocche inutili si cacciassero via, dacchè se lice cacciarle dalle città assediate dalle armi non ci biasimeranno se lo facciamo noi assediati dai debiti. Oltre le bocche inutili le bocche indegnamente fameliche si hanno a sfrattare; e chi tira paga, provvisto secondo la condizione ai bisogni suoi e della famiglia, la lasci anch'egli per un'anno alla Patria.—A questo modo raduneremo danaro e subito. Le sono fisime queste, ci schiamazzano dietro, ma tutto ciò, che minaccia l'interesse acquistato, o lo interesse in procinto di conseguirsi dai conservatori chiamasi fantasia, e peggio, nè si contentano a parole, bensì lo lacerano coi fatti: quale impresa onorata cotesti uomini perduti non vituperarono delirio prima dello esito? E riuscita qual'è la impresa di cui non si approfittarono? L'aquila imperiale, il leone repubblicano capitati nelle loro mani, mantrugia mantrugia, tramutarono in pollo, e in capretto per arrostirli poi; e col sangue dei martiri li spruzzarono, affinchè riuscissero più saporosi a mangiarli. A fine di pasto propinarono ai pazzi sublimi defunti per avventarsi più rabbiosi sopra i viventi, finchè a posta loro non fossero morti vincendo nuova pietanza per essi.—Perchè ci lodino, la nostra sorte vuol'essere quella di Epaminonda a Mantinea, vincere la battaglia per loro e poi morire.—
[1] Il rescritto tutto di mano di Cosimo I suona così: «veggasi, e provveggasi, ci si spendano attorno fino a trecento scudi, e non vi si facciano mangerie.»
Consideriamo questi uomini pratici, questi moderati, i quali, secondochè altra volta notammo, tolsero questo nome al modo stesso degli antichi Imperatori, che Affricano, o Asiatico, o Germanico appellaronsi per le stragi, che menarono in coteste parti di mondo; moderati per avere assassinato la santa moderazione; consideriamo, dico, questi uomini alla prova: con qual norma regolarsi non sanno; ora rendono omaggio allo scambio libero, ed ora lo rinnegano, anzi la stessa legge in parte lo accarezza, e in parte lo schiaffeggia; durante la stessa sessione un Ministro scema il porto delle lettere, perchè il buon prezzo cresce lo spaccio, e nello spaccio sta il guadagno; un'altro aumenta il costo dei trasporti sopra le ferrovie, perchè il rincaro quando l'oggetto è necessario non dissuade la gente da procurarselo. Fanno, e disfanno: adesso pare, che consentano, quanto all'aumentato prezzo dei trasporti, a rimettere le cose come prima e ne hanno presentato la legge al Parlamento, che ne voterà la soppressione con la medesima ressa insensata, e servile con la quale testè ne votava la instituzione: trafitti dal successo i Ministri piegano il capo a mutare la legge sul bollo e sul registro, senza però rimettere di un pelo dell'arrogante pertinacia a volere sgararla nelle proposte che sbalestrano a vanvera, nè i fidi Acati a cessare di un attimo dal servire cotesti buoni Signori di coppa e di coltello. Se tu avverti ai quotidiani svarioni economici contrastanti fra loro, e agli atti schiaveschi dei nove Ministri nostri tu pendi incerto se avrai a definire il Ministero o confusione divisa in nove capi, o trattato delle servitù in nove volumi.—
Economie non seppero, nè vollero fare: promisero prima, poi, secondo il solito, non attennero, e parvero, e furono modi di usuraio che abbindola lo scapestrato per cavargli di sotto il babbo morto. Alla prova ogni Ministro difese il suo bilancio con la ferocia di quei di Saragozza che contesero ai Francesi casa per casa, e stanza per istanza. Curioso poi è questo, che nonostante il crescere delle spese vantano economie, come se tu potessi consolarti di civanzo fatto, dove ti mostrino come invece di aggravarti del doppio ti hanno stremato solamente di un terzo. Per inquisire le ladronaie mancò il coraggio ai nostri uomini di stato ai quali sembra spediente imitare gli ordini religiosi, che negano sempre quando odono accusato reo di grave colpa un frate; con l'arco del dosso lo difendono, e poi di subito tramutatolo di Arno in Bacchiglione sopiscono o credono avere sopito lo sconcio fatto; Rimasta ferma la spesa possiamo senza tema di andare lontano dal vero, asserire che il disavanzo annuale batte in quattrocento milioni, o giù di lì. Alla fine del 1865 quando nel pozzo di San Patrizio avremo buttato la barca, e il palischermo salderemo con un debito nuovo di 766 milioni; questo affermano i moderati, figuratevi gl'intemperanti! Non mancarono persone amiche al Ministero per ammonirlo come essendosi riscontrato nel bilancio del Brasile un manco di quaranta milioni tra la spesa annuale e la entrata i rappresentanti della nazione ne menassero scalpore quasi fosse loro cascato addosso il finimondo, nè si tenessero quieti finchè non ebbero ottenuto il pareggio. La Francia dopo lo impero, che aveva a fondare la pace perpetua, s'indebita di trecentotrentasei milioni l'anno, e se non provvede corre a vele gonfie alla ruina; su di che tu giudica se le spese della Francia possano razionalmente confrontarsi con quelle d'Italia, e se fie dato alla Italia sostenere un carico al quale non regge la Francia.—Antico è il vizio, nè si vorrebbe senza ingiustizia apporre in tutto al presente Ministero; se non lo creava il Cavour, lo crebbe a dismisura, a mo' del mercante sbilanciato negl'interessi che tira innanzi riavvallando le cambiali alla scadenza; certo se non fu egli che disse: «dopo me il diluvio» lo penso, e lo fece.—
Se a Ludovico Ariosto era commesso assettare le faccende dello erario io penso, che ci si sarebbe disposto con fantasie alquanto meno bizzarre di quelle del Minghetti, comecchè facilmente più leggiadre; le si conoscono dall'universale; esse consistono in quattro maniere di balzelli; tassa sopra le rendite mobili; dazi sopra la consumazione delle derrate cresciuti; nuovi dazi imposti: per ultimo il conguaglio sopra la tassa prediale: da quello che avrebbero gittato si augurava dentro quattro anni mettere in pari la uscita con la entrata ordinaria.
Economie veramente non se ne sono fatte; ma in mancanza di meglio si ripromettono da capo; partiti vecchi, e soliti a comparire in tutte le vigilie delle votazioni dei bilanci,—tappeti del Corpus Domini, che si levano dalle finestre passata la processione. Simili promesse il Ministro adopera per abbarbagliare i deputati come il fanciullo piglia il sole dentro lo specchio e lo vibra negli occhi ai viandanti[1].
[1] Le economie magnificate dal Ministero sovente sonano scherzo amaro levando a mo' di esempio 5 milioni, e dovrebbero essere 10, dalle spese ordinarie, e portandoli nelle straordinarie per sopperire alle garanzie assunte dallo Stato in pro dei concessionarii delle Strade Ferrate.—Discorso del Dep. Saracco. Tornata 11 Decembre 1863. Paghiamo più che in Francia la giustizia, l'amministrazione interna, più a ragguaglio la guerra, più la marina, degl'ispettori di lavori pubblici ne possediamo tre cotanti più che in Francia….!
Dalla prima tassa il Ministro faceva capitale cavarne un cinquanta milioni, e tanti ne distribuì sopra le provincie italiane, assegnando a ciascheduna la sua quota: la quale misura era desunta da quattro fondamenti, i quali furono chiariti inetti a partorire giudizio buono, onde i censori ne proponevano altri, i quali a posta loro erano ripresi come fallaci: stando a quel modo le cose pareva razionale si rigettassero tutti, e su norme più idonee si stabilisse il giudizio; ma questo ai Ministri del regno italico sarebbe sembrato troppo grave scandalo, però tennero fermi i fondamenti loro, accettarono i proposti, e composto così un guazzabuglio di spropositi, stimarono ne uscirebbe spillato l'archetipo perfetto; di vero, anco Dio o non cavò fuori dal caos la luce? Nè i Ministri sè estimano niente meno di Dii, e del non avere saputo o voluto torre Roma al Papa si consolano di un'altro furto, che gli hanno fatto; hanno rubato a quel meschino di Pio IX la sua infallibilità.—
Ed è anco più strano questo altro, che il Ministro avendo prima chiesto da simile balzello cinquanta milioni, poi per istralcio si accomadasse a trenta; su di che mettiamo da parte la sconvenienza di vedere il Governo, che adopera col Parlamento a mo' di creditore di fallito; ci sembrerebbe onesto, che il Ministro domandasse leale quello, che a punto gli abbisogna o giù di lì; ma venti milioni meno su cinquanta dimostrano che o il Ministro non seppe quanto gli occorreva, o chiese pensatamente troppo per procurarsi stoppa a tappare buchi inopinati, e questo, è metodo che meritamente si biasima, imperciocchè palesi incapacità, o malafede nel Ministro, il quale chiese più che gli bisognava, e insipiente prodigalità nei Deputati, che glielo concedevano.
Adesso poi sento, che dal complesso delle nuove tasse il Ministero spera cavare somme inferiori a quella, che egli si augurava prima raccogliere dall'unica sopra la rendita mobile; e qui confesso, che mi si annebbia lo intelletto; e tanto danaro si raffida riscotere a patto, che fruttino dal primo di gennaio 1864; che se per quel dì non fossero leste non fa nulla, perchè si darebbe loro virtù retroattiva, come dicono i Forensi[1]. In virtù di quale dottrina le leggi su la gabella delle derrate possono retrotrarsi, il Ministro saprà; a noi non riesce levarci a così alto volo; e nè anco per le altre si potrà, non mica per la ragione, che simile principio equivarrebbe ad una lanciata nel costato del diritto; la maggioranza del Parlamento italiano usa saltare a piè pari bene altri ostacoli, che questi non sono, bensì per la confusione, la fatica, e il rammarichio che persuaderebbero la carne non valere il giunco: ma il Ministro imperterrito s'incoccia, e dice avere fede che ciò possa farsi, e se non potrà farsi subito si farà più tardi; inoltre ha fede che fruttino quanto presagiva e più; dove questa fede avesse a mancare egli trasporterà la sua fede ad altre fonti, e in altri cespiti, la quale cosa significa che riuscita indarno la corda ti darà la ruota, e, se non bastano, l'eculeo, l'assillo, e il fuoco alla pianta dei piedi. Come poi possano sperimentarsi leggi finanziarie fino a strappare la corda, lasciarle poi, tentarne delle nuove senza capovolgere lo stato per me e per altri sono tali abissi d'ingegno, che al solo affacciarmici mi gira il cervello[2].
[1] A queste enormezze sovversive ogni nozione di gius è stato mestieri rinunziare.
[2] Discorso del Sig. M. Minghetti 12 Dicembre 1863.
Rispetto alle gabelle sopra i consumi cresciute, e alle altre imposte, uomini intendenti, e amici del Ministero non mancarono ammonirlo: «mala via tieni; dazio aumentato risponde a consumo diminuito. Già ne hai esempio in Patria: fuori osserva: la Inghilterra, la quale tre volte infedele al principio ormai levato alla dignità di assioma nella scienza ha voluto aggravare la tassa del caffè, del tè, e degli spiriti, e tre vide percossa terribilmente questa rendita della finanza; nella sola Irlanda scapitò l'erario centodiciassette milioni, e seicentocinquantamila franchi; cresciuto il dazio anco sul tabacco, nella sola Irlanda resultò un meno di Libbre 4,070,000, sgabellate[1].» Il Ministro di sè glorioso a ciò non bada bambinante in quel suo riso di San Luigi Gonzaga. Anco gli amici, come gli avversari, gli aggiungono: «pensa, o uomo a cui la somma potestà della Italia avrebbe dovuto cascare sul capo come il tegolo su quello di Pirro, pensa che le nuove tasse sono torchi stringenti le pietre dove non incontrino il correspettivo della ricchezza pubblica, nè questa può essere nata così di punto in bianco. Tu operi gravemente quello, che il Senatore Gianni uccellando consigliava al Granduca Pietro Leopoldo scorrucciato perchè la gabella delle porte fruttava meno del presagio:—ne apra delle altre Altezza, e le gabelle raddoppieranno.» Non basta; quei dessi amici, ed emuli altresì continuano a dirgli: «avverti, per Dio! che la Italia ti sta nelle mani pari a vaso di alabastro ad un fanciullo; se mai ti cascasse in terra per colpa tua si ridurrà in minuzzoli. Mira, i popoli scontenti hanno dato sempre di fuori per angustia: i Napolitani di Masaniello pel dazio su le frutta, gli Americani di Washington per la gabella della carta bollata, e del tè, i Corsi del Paoli pei seini, e pel mezzo baiocco del mendicante di Bozio; causa non mediocre della rivoluzione siciliana del 1860 fu appunto la tassa del registro; e tu pensi applicando di un tratto quattro tasse le quali non lasciano illesa parte del corpo sociale, che egli non si dolga? Senti, o non riscoterai niente o poco, o metterai la salute dello stato a repentaglio.» Il Ministro inebriato di numeri si canta un ditirambo finanziario, e dacchè tacciava altrui di fatuo non dubita, che noi lo stimeremo da ora in poi uomo sodo[2]. Bene sta che la legge su lo aumento del 10 per cento su i trasporti su le ferrovie deva levarsi, perchè la è vecchia, che quanto meno pregio pretendi di una cosa e più ne spacci: per la medesima cagione il Ministro pensa a ridurre in termini comportabili la legge sul bollo, e sul registro: e per la medesima ragione il Ministro s'intora a crescere il dazio su le derrate!
[1] Senatore Marliani—Lettera a Marco Minghetti.—Strano sarebbe parso un dì, oggi consueto è questo, che mentre il Minghetti affermava avere fatto suo prò degli avvertimenti del suo amico Marliani in verità non ne aveva seguito pure uno, e l'amico Marliani gli aveva orato contro al Senato nello schema di legge sopra la tassa della ricchezza mobile
[2] Per ben due volte nel Discorso sopra le interpellanze del Barone D'Ondes Reggio al Minghetti bastò l'animo di rimproverare il Barone di leggero!
Dopo le tasse, a rattoppare lo sdrucio tirerà fuori centocinquanta milioni di Buoni del Tesoro, ma questi Buoni rispondono a rendite scontate per adoperarne il prodotto in occorrenze straordinarie; dove le rendite non si trovino, i Buoni equivalgono a quel modo di cura, che i Cerusici chiamano autoplastica, il quale consiste a reciderti per esempio una fetta di natiche per rifarti il naso tagliato. Al Ministro non fanno specie i 150 milioni di Buoni del Tesoro, anzi confessa crescerli fino a 300; ma e' sono ninnoli; e quanto al pagarli torneranno i Narbonesi gente dabbene a consolazione del Ministro nostro, i quali prestavano il danaro in questo mondo per riaverlo nell'altro[1].
[1] Valerius Maxim. l. 2, c. 6. n. 10.
Ci hanno i Beni demaniali, che si arebbero ad alienare per un centottanta e più milioni se vuolsi conseguire il bilancio tra la entrata, e la uscita del 1864, ma chi se ne intende afferma gli antichi beni demaniali giungere appena ai centodieci milioni[1] dai quali fa mestieri defalcarne dieci pel Conte Bastogi, il quale si disciplina, come un'anacoreta nella Tebaide, con le strade ferrate per la salvezza d'Italia cara a lui quanto la pupilla degli occhi suoi e più; e poi bisogna sbatterne anco altri dieci, che il Governo dimette ai popoli meridionali affinchè se ne costruiscano strade, dunque una novantina di milioni. Che se vi fosse errore, fuori le stime, e vedremo. Le stime verranno, non ci è furia; furia ci è nel votare i bilanci; all'altro penseremo a tutto agio. Oltre questi beni demaniali affermano avanzarci i possedimenti della cassa ecclesiastica: ottimamente, ma quali e quanti sono eglino? Secondo che tempo farà e' sommeranno a duagio infino a treagio, ed hacci di quelli del popol nostro, che li tengono fino a quattragio[2]. Una voce credibile ci assicura l'amministrazione della cassa ecclesiastica in iscompiglio, e veramente da siffatta universale epidemia non sapremmo in qual modo potesse andarne immune l'amministrazione della cassa ecclesiastica; e come seguenza di questo stroppio non saldaronsi i conti ai creditori di quella, al contrario appaiono arretrati fino al 1860; e chi ha da avere si gratti; e ciò potrebbe capacitare taluni non noi, sperti che tutti i nodi, gira e rigira giungono al pettine. Ma volendo dare un taglio sul più o sul meno come reputeremo possibile vendere, durante l'anno 1864, i vostri centoventiquattro, o come altri pensa che ne farebbe di bisogno, duecento milioni di beni? In arroto ai centocinquanta milioni di Buoni del Tesoro che occorre (oltre i 150, che già ci sono) buttare sul mercato, e con lo sconto della moneta all'8, al 9, e non si prevede a quanto per cento;—imperciocchè le cause della carestia del danaro non sembra sieno per cessare adesso, là dove sieno vere quelle, che allegano. Altri con molto senno notò, che avendo ad alienare per sopperire ai bisogni del 1863 cinquanta milioni di beni demaniali il Ministro e la Commissione assai confidavano sopra la istituzione del Credito fondiario, la quale essendo mancata la vendita procede lenta, e infelice. Ora se ciò avvenne nel corrente anno per cinquanta o come cammineranno diverso le faccende nell'anno 1864? Forse il Credito fondiario venne accolto? Il Ministro Manna, avendo fitto nel Parlamento con mirabile agevolezza la pala, si avvisò piantarci così di straforo anco il manico, ed incontrò lo scoglio: il soperchio ruppe il coperchio, e il Credito fondiario fu riposto in soffitta come i trabiccoli a giugno.—Il mercato del danaro proviamo scarso, e non si vuole la mente di Galileo per prevedere, che le vendite si opereranno con meno facilità andando innanzi per lo stremarsi delle borse nelle compre antecedenti. Il Ministro dopo consumata la fede ora mette mano alla speranza (un vero saccheggio a tutte le virtù teologali, sicchè noi altri possiamo chiudere bottega) e ci squaderna in faccia gli ostacoli avere a sparire; proporsi vendere all'asta o per trattative private; sconterebbe i prezzi pagabili a rate dentro cinque, e dieci anni… e poi chi ha detto morto il Credito fondiario? E fosse, o che i morti non resuscitano? E basta; chi se ne intende, immagini che cosa ciò voglia dire; se non ti si struggeranno i beni demaniali in mano come pallottola di neve, poco ci correrà.—Ancora, secondo che io considero, il Ministro non bada a questo: come alienando i beni demaniali, i beni della cassa ecclesiastica, e le strade ferrate viene ad alterarsi tutto il bilancio, conciossiachè ti facciano fallo le rendite di tutti questi, che il ministro chiama, forse per rimembranza arcadica, cespiti; e mentre cessa la entrata dura la uscita delle pensioni, e degli obblighi assunti verso i creditori della cassa ecclesiastica, nonmenochè degl'interessi mallevati agl'impresari delle strade ferrate.—
[1] Il ministro Marco Minghetti in un'estro pindarico gli stimò 218 milioni. Tornata del 14 febbraio 1863. Il deputato Pasini e con lui la Commissione tira per le falde il Minghetti e gli dichiara, che ha preso un granchio di 108 milioni.—Sono più i diavoli, dice il proverbio, e il Minuetti si fonderà di certo su questo proverbio.—Ora troviamo che i beni demaniali calcolati in massa fino a 400 milioni sommano a 200!
[2] Parole di scherzo che il Boccaccio fa dire al prete da Varlungo G. VIII n. 1.
Questo è lo stato nostro restando le cose come si trovano; caso mai rompesse la guerra a cui ricorre il Ministro per provvedere i danari?—Il Ministro quando sentirà il governo potrebbe convertirglisi in croce da trovarcisi un bel dì confitto sopra lo butterà in terra; ovvero nicchierà come donna partoriente: «su, amici, su, votatevi le tasche, che, me auspice, vi colmaste fino all'orlo, su….» Vedremo allora: alla svolta ti provo. Però se dal passato è concesso argomentare il futuro hassi a credere, che la parte Moderata continuerà l'esempio dei ranocchi i quali stando pure col muso fuori dall'acqua del padule si tuffano sotto al primo stormire della procella per ricondursi al consueto gracidìo tosto che torni l'aura serena e la dolce stagione.—Allora e' converrà, che taluno si voti alla salute della Patria. Lo assista Dio secondo i meriti suoi, e le benedizioni le quali, fino da oggi, noi gli mandiamo dal cuore: dove (e a pur pensarlo ci tronca lo affanno) fosse nei fati, che ogni sforzo abbia a riuscire invano a lui, e a noi desideriamo la morte;—perchè è amaro, oh! è amaro dopo tanto alito di speranza lasciare scritto per epitaffio da apporsi sopra la tomba: cercando Patria e Libertà sono morto «schiavo[1].»
[1] E tanto accadde al conte di Schlabrendof, il quale svisceratissimo della Rivoluzione di Francia, disperato delle umane sorti la vigilia della sua morte si apparecchiava il seguente epitaffio: «civis civitatem quærendo obiit octuagenarius» Écriv. mod. de l'Allemagne.
Intanto pongo per debito qui le parole del deputato Saracco uomo temperatissimo, e non avverso al Ministero: «avete voi pensato, che per entrare in lizza liberamente non a rimorchio di estranea potenza, e sostenere l'urto di tanti nemici i quali ci disputeranno questo sacro suolo d'Italia ci vuole danaro, e molto danaro? Eppure, ch'io mi sappia, danaro noi non abbiamo, all'opposto siamo scoperti di oltre 500 milioni, però che sarebbe chimera grande immaginare alla vigilia della guerra la possibilità di vendere beni demaniali, e mettere in circolazione Buoni del Tesoro.—Al primo rumore di guerra i forzieri si aprono di preferenza alle grandi potenze le quali in simili casi ricorrono al pubblico credito.—In così grave condizione di cose non si farebbe atto di accorgimento pratico pigliare fino da oggi le provvidenze opportune onde il giorno della prova non si converta in giorno di sventura per la Patria?[1]»
[1] Tornata 11 Dicembre 1863.
Dal discorso del Ministro, in aumento di ciò che sono venuto a mano a mano allegando, si cavano lo seguenti proposizioni.
Al primo di Decembre egli possedeva in cassa quattordici milioni, resto dei 500 già scontati, e 200 da scontare, i quali non pativano riduzione come dubitava il Polsinelli bensì erano effettivi; con questi si riprometteva sopperire in parte allo sbilancio del 1864: ora tu che hai senno mira svarione: possono elleno sostenersi effettive le cedole della rendita da vendere? Sta a lui fissarne fino da ora il prezzo venale? Col caro del danaro, ed i rumori di guerra sa egli, sappiamo noi di quanto rinviliranno? I diari ci affermano per sicuro l'alienazione di 75 milioni di questa rendita al Vicario di Mammone su questa terra al saggio del 71 per cento, che atteso la imminente riscossione del 2 e mezzo d'interesse fa 68 e mezzo; nè ferma lì, che io vorrei vedere tra ceralacca, e spago quanto ci si debba aggiungere. Ciò è male, e questo altro è peggio: se aliena 75 dei 200 milioni nel 1863 si ha da credere, che il prodotto si serbi per le occorrenze del 1864, o non piuttosto per pagare gl'interessi del debito pubblico a fine di anno?—Certa volta un banchiere, di quelli che vanno per la maggiore, mi ammoniva così: «quando ella vedrà il Governo creare debiti nuovi per pagare gl'interessi del debito vecchio la non si stia a confondere, e si tiri addirittura da parte; gli è il segno dei topi, che lasciano la casa minacciata dalla ruina.» Ora che facciamo noi da molto tempo in qua? Ad ogni modo questo pongasi in sodo, che i 200 milioni non possono bastare al saldo parziale dello sbilancio del 1864. Il Ministro però nega la vendita, e sarà vero, perchè il Rothscild non ne avrà voluto fare la compra, o allora gl'interessi si pagheranno co' Buoni del Tesoro, e fie pur sempre fermo che gl'interessi si saldano col capitale[1].
[1] Ora sentiamo che la vendita è accaduta alla ragione del 65 e centesimi per cento!
Intorno alla difficoltà di accomodare altri 150 milioni di Buoni del Tesoro in tempi così difficili, per iscarsezza di moneta e per presagi di guerra, il Ministro sta come torre fermo, che non crolla nelle sue virtù teologali (eccetto la carità) di collocarli con vantaggio. Per lui 300 milioni di Buoni del Tesoro, senza riscontro delle rendite da riscotersi in saldo di loro, e' sono ninnoli di cui non vale il pregio trattenere la brigata[1].
[1] Il discorso dei signor Pasini ha due parti; la prima per mantenere il credito alla sua relazione; la seconda per lavorare di straforo l'amico Minghetti—Anch'egli non reputa i Buoni del Tesoro sconti di rendite avvenire, e ci mette a riscontro i disavanzi passivi, i quali non ci avrebbero ad essere, e anch'egli li biasima. Quando la mala pratica cesserà i Buoni del Tesoro saranno cambiati senza provvista nel bilancio pubblico.—Quanto alla difficoltà di alienare beni, e in misura da saldare i debiti nè il Pasini, nè il Minghetti movono verbo; il Pasini poi fa buono fino al 1864; di quanto avverrà dopo pensi a cui tocca. Anco ci è parsa strana la risposta che la tassa della rendita mobiliare, e della prediale non può venire meno alla somma contemplata a cagione della quota apposta ad ogni Comune, come se il busillis istesse nello assegnarla, e non nel riscoterla.
Il Ministro non ha promesso mai bilanciare le spese straordinarie dentro i quattro anni, che per queste la Italia dovrà masticare fave per un pezzo; ma in ogni evento la Italia avrà proprio debito a lui, e all'onorevole suo predecessore Sella di averla salvata da fallire ordinariamente; quanto a fallire straordinariamente è un'altro paio di maniche: di questo egli se ne lava le mani nel 1867, e sempre.
Il Ministro non vede perchè abbia a rimanere inefficace la tassa sopra la rendita mobile; nè manco la vede al pareggiamento della imposta prediale: queste hanno da operare fino dal primo dì del 1864[1]: quanto a quelle sul consumo delle derrate non può negarsi, bisognerà aspettare; ma non fa nulla, bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come fa la luna.
[1] Era così; adesso si è renunziato, diminuita la rendita il manco cresce.
Certo, nè anco il Ministro nega che vuolsi renunziare al pareggio delle spese con le rendite ordinarie pel 1867; e ciò che rileva? Se non avverrà pel 67, sarà pel 77; pel 97; per qualche sette sarà; e poi per lui non rimase, che tanto benefizio comparisse, le sue brave leggi ei compose, ed ordinò, e non potersi appuntare lui se il Parlamento non le mise a partito, come nè anco fie sua la colpa caso mai gli Italiani non pagassero i balzelli; colui che tolse ad avvezzare l'Asino a starsi digiuno, quante volte gli levò la biada il suo dovere lo fece, se poi l'Asino in capo a sei giorni volle morire, la colpa è dell'Asino, non dell'Asinaio.
A colmare il vuoto ci si butteranno dentro i beni demaniali; se non bastano questi, dietro a loro i beni delle casse ecclesiastiche della Italia settentrionale, e media; e se si trovassero corti anco gli altri delle province del mezzogiorno. I quattrini si trovano, o Signore! che ci vuole mai a battere moneta? Nulla; portare l'oro e l'argento alla zecca perchè te li conino, operazione semplicissima a cui basta l'ingegno del Ministro, e ce ne avanza.
Leggesi su per le storie, che le Castellane d'Inghilterra, venute meno le provviste, mettevano su la mensa al nobile marito un piatto con dentro un paio di sproni: a questa cena, se la dura così, io temo riserbata la Italia; per me credo, che il signor Minghetti, il quale è uomo di lettere, abbia imparato dalla lettura del Canto del Conte Ugolino a comporre i suoi poemi di Finanza, però che l'ultimo suo meni dirittamente la Italia a mangiarsi le mani per colazione.—
In onta a ciò, e al troppo più, che potremmo dire ogni cosa sarà non pure approvata, ma laudata, e levata a cielo, imperciocchè ormai gli avversari nostri non possano più come una volta sostenere che noi divide la opinione del metodo da praticarsi diverso per comporre la Italia: questo per taluno può essere, ma dai più ci separano cause bene altramente profonde. I nostri nemici tacciono, e così adoperando si gloriano savi; se così è sbrancate sette bufali e collocateli dentro le nicchie dirimpetto i sette sapienti della Grecia; essi tacciono perchè loro sta lo ingoffo in gola; se mai favellano borbottano come quelli, che tengono sempre il boccone in bocca: rettile di nuova specie, il Moderato si assidera finchè dura il tempo del ragionamento; quando poi spira l'aura dello errore e della servitù si rizza fischiante, e velenoso a mordere la Libertà, che lo sopporta. Miralo! cieco e incatenato ai suoi compagni contro la Patria, e la Libertà pari a Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, il quale privo di vista, è fama, che così facesse insieme alla sua baronìa nella battaglia di Crecy[1].—Chi non ha le mani pure, vada prima a purificarsi, e torni poi a sagrificare nel tempio, comanda il Vangelo, e noi chiunque tira soldo, e tiene ufficio di governo non apra labbro, se gli cale la fama, nei Parlamenti, e rifugga da parteciparvi, che le intenzioni Dio solo guarda, e l'uomo diritto ha da aborrire ogni sembianza, che sia vile. Prima a costui per la salute della Patria non parve abbastanza appiccare fuoco al Vesuvio, ora con poco spazio di tempo accostato ai geli delle Alpi, anch'essi non reputa sufficientemente ghiacciati: prima il popolo voce e braccio di Dio, adesso polvere soffiata dal Demonio su questa terra; o dove te sacramenti sincero, e immune da ogni vile talento, sarà, ma comincia dallo affermarlo senza il boccone in bocca: sputa i dodicimila franchi; sputa la cattedra; sputa la strada ferrata; sputa la badìa, sputa, e sputa o poi parla. Capitani allo esercito, Professori alle università, Giudici ai tribunali: la sua parte ad ognuno. E gli Avvocati dove? In paradiso a tenere compagnia a Santo Ivone, che ci entrò (dicono) di contrabbando.—Lo dissi e lo ripeto, il popolo ha proprio sete di onestà.—Noi pertanto abbiamo bisogno di Roma sia che dobbiamo ridurci in pace, ovvero rompere in guerra; o procediamo congiunti con la Francia, o ci separiamo da lei; o soli vogliamo combattere le nostre guerre, o in compagnia di Francia combattere le comuni: così durando nè per noi siamo buoni nè per altrui.—