Читать книгу Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 9

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[1] Froissard, Croni. t. 1. p. 238.

Contrariamente ai presagi, ci dicono uomini, che lo potrebbero sapere come lo imperatore di Francia si disponga a levarsi da Roma, lasciando libero, il popolo romano di eleggere il reggimento che meglio desidera: dopo quattordici anni e' sembra, che si voglia ricordare a Roma essere andato appunto per questo; gli è un po' tardi per la verità, ma meglio tardi, che mai. Certo Romolo per fondare Roma consultò gli avvoltoi dell'Aventino non i galli di Parigi: Roma si avrebbe a pigliare col dosso non già con la palma della mano voltata al cielo; in questo modo si chiede la elemosina: e noi andremo a Roma con la Libertà come il contrabbandiere col frodo sotto: non così, non così si salisce il Campidoglio a salutare le anime latine, bensì si scende nelle Catacombe a gemere sopra i martiri cristiani, e nondimanco pazienza! Purchè fosse…! Le memorie della romana grandezza io vo' confidare che a mo' della piscina miracolosa monderanno il popolo italiano della turpe lebbra della moderazione o fracida, o ladra, o codarda. Deplorabile cosa questa, che la gente la quale moderata si appella, per onestare la bruttezza loro abbiano inquinato gli affetti come i nomi più santi, non si potendo comprendere politica, etica, anzi neppure domestica economia senza moderazione.

E se fosse, come i nostri avversari si ripromettono ed io no, certamente noi avremmo a correre le fortune della Francia, con questa avvertenza però, che le fossero d'accordo con le nostre; ed anco se comparissero fino ad un certo punto diverse, non però contrarie; inoltre si avrebbe a porre mente, che le fortune le quali noi possiamo correre con la Francia approdassero alla Francia, ovvero alla Francia ad un punto e al suo imperatore, imperciocchè se favorendo gl'interessi di questo non giovassero alla Francia, e peggio se gli nocessero allora adagio ai ma' passi, che per cosa al mondo io non vorrei movere orma, la quale forse lo imperatore mi ponesse a credito, e certo poi la Francia mi appuntasse a debito. Mutabili le dinastie nel mondo; mutabilissime in Francia, la quale non ardua a pigliare, è una maladizione tenere: breve, io vorrei che l'aquila non mi portasse seco nè nei suoi voli, nè nella sua caduta, e cessando il principe mi rimanesse lo stato: concetto, che senza alterazione di amicizia non solo apparisce lecito, ma è doveroso professare ai reggitori di popoli. Rammentiamoci sempre di questo, che Cristo, il quale o Dio infatti, od uomo prossimo alla divinità, non disse parola mai che non palesasse tutta sapienza e sommo amore, bandì inesorabilmente «chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia.» E lo impero è surto dal sangue.

Adesso poi supponiamo il caso certo meno grato, ma giusta la opinione mia più verosimile assai, che i Francesi non intendano sgomberare Roma, che avanza a noi? Pigliarcela. Oppongono pieno di pericolo il partito: e veramente è così: dubitano possiamo precipitare nel mandarlo ad effetto: certo si corre rischio di rompercisi il collo. O dunque mal consiglio è il tuo? No, bensì l'unico prudente, e lascio da parte se animoso; unico prudente perchè a tale siamo ridotti noi, che altra elezione non ci resta, che tra la morte certa, e la morte probabile; rimanendo fermi noi fuggiamo l'acqua sotto le grondaie. Agevole riesce molto negare il danno, ma impedire che sia gli è un'altro negozio: ora da ogni lato compaiono segni di disfacimento; hanno creduto, e credono ricucire con filo di ferro, e precipitano nella buca dentro cui altri tracollò a capo fitto: che se pei reami antichi trovarono buona la sentenza che non hanno più ragione di vivere quando si appoggiano unicamente su la forza, verissima la sperimentiamo negli stati nuovi sorti dalla benevolenza del popolo.

Ci domandano il modo di pigliarla, e noi rispondiamo: «che giova dirvelo? Tanto voi non ardireste praticarlo: voi affermaste avere diritto su Roma, e poi allibiste rifiniti dalla paura; gli è fiato perso a favellare con voi; noi vi proveremmo uguali a Bertoldo, il quale non trovava albero che gli garbasse per esserci impiccato. Ve ne suggerimmo uno senz'armi e voi lo dileggiaste, e faceste dileggiare come delirio di cervello che abbia dato nei gerundi; ve ne mostrammo un'altro con armi, e voi lo malediste ribellione, e levando insegna contro insegna, crisma contro crisma, perfidi![1] spasimanti e urlanti di paura lo faceste affogare nel sangue; eravi un dì tale tra voi di voi non tristo meno, ma più sagace, che avrebbe acceso i moccoli a piè dei Santi per la mossa del prode uomo Giuseppe Garibaldi, e con tutte le sue forze lo avrebbe fatto sloggiare da Sicilia; traversato, che costui avesse lo stretto di Messina egli, senza posa, addosso; dov'ei levava il piede egli metteva l'orma, così a Napoli, e così al Volturno; relitte le terre sicule non lo lasciava per questo, all'opposto sempre dietro talchè le spalle di lui sentissero l'alito focoso delle sue nari: l'uno con molta mano di gregari fuggendo, e l'altro con molto esercito regolare inseguendo giunti su la piazza del Vaticano, arrestati, e arrestatori sarebbero entrati di amore, e d'accordo in San Pietro a cantare il Te Deum più sincero, che Dio ascolti da moltissimi anni a questa parte.» Questo avrebbe forse fatto il Cavour inetto a operare e ad operare grandemente, pure capace ad approfittarsi dell'operato altrui; adesso i suoi successori, il Ferrari ha detto si rassomigliano ai generali di Alessandro; nè manco per ombra! La politica che ora prevale è quella del cane dell'ortolano, il quale non mangia cavoli e non li lascia mangiare.

[1] «……..in Francia voi «Correre, insegna contro insegna, e crisma «Contro crisma levar, perfidi!» Adelchi

Provvidenza o Fortuna che sia voglionsi ammirare i casi portentosi pei quali l'uomo, che pure si stima avvisato, se altra volta pensò, che la volontà, e la forza di un popolo commesse ad un braccio di ferro potessero meglio ricondurre la Italia all'antica grandezza, ora bisogna, che si ricreda e confessi che Libertà interna ed esterna scaturiscano scintille di spada percossa di un colpo solo su la pietra. Ci fu un'ora in cui se fosse apparso un'uomo robusto, che nei plebei diletti non imbestiasse sua vita, in cui un'anima grandemente cupida, non ragnatelo a cui paresse disgradare Cesare od Alessandro chiappando una mosca, e portarsela a risucchiare dentro al buco; un'anima ferocemente disdegnosa, la quale avesse voluto agguantare Roma come si agguantano le corone, non già come s'intascano l'elemosine, e posto la mano dentro ai capelli d'Italia con alto grido detto a noi: «tacete, e combattete; finchè vive in questa terra uno schiavo allo straniero non vi è permesso favellare di Libertà.» Noi lo avremmo seguitato: noi gli avremmo messo in mano la rivoluzione come il fulmine in quella del Saturnio.—Forse era a temersi Cesare, ma ben venuto Cesare a patto che se ei ripugnava cibarci del pane della Libertà ci saziasse almeno di quello più duro della Gloria; non permettesse, che la nostra vista restasse contristata dalla gente vile che sta nell'atrio del tempio della Libertà, pubblicana perpetua da Cristo, e prima di Cristo per vendere e per barattare.—Quando gli Ebrei, vinte le colpe loro dalla moltitudine delle nostre, diventeranno nostri signori e padroni, questa gente vile li surrogherà nel ghetto a venderci ciarpe, e panni vecchi; delle loro anime non si gioverà nè manco il Demonio: non varranno il carbone che le abbruci.—

Ora poi il pericolo della prevalenza del solo è logorata; il giorno passò e non ritornerà più: invece dell'uno, che afferra le moltitudini, le moltitudini afferreranno l'uno, però che i popoli, levando un dito sollevino, e abbassino i loro capitani; i capitani senza soldati compaiono personaggi da commedia. Meglio così: sia dunque che la Francia ci conceda Roma in acconto di soldo per le armi italiano prestate alle sue guerre, o dobbiamo acquistarci Roma non consenziente, ed anco contrastante la Francia, ormai senza offerta spontanea di pecunia e di sangue per la parte dei cittadini italiani non si può.—

Voglia Dio, che quando di questo si persuaderà la gente non sia troppo tardi. Ad ogni modo con altro, che con parole il pro' cittadino è uso affermare la Unità della Italia.—

Noi abbiamo bisogno di Roma per salvarci dal flagello della guerra civile. Badate a questo sconsigliati e provvedete se non per la Patria, per voi.

Se tacere giovasse sarebbe ufficio di pessimo cittadino, anzi pure di nemico aperto favellare, e se le parole si reputassero vane dimostrerebbe il dirle animo tristo; parmi debito palesare il mio concetto però che spero le mie parole possano essere seme di bene, e capaci a partorire rimedi valevoli.—Affermano i principi di Piemonte avere sempre indirizzato i concetti loro ad unire in un solo corpo la Italia; e parmi piaggieria espressa, imperciocchè lasciando dei tempi remoti certo le donne, che durante la minorità dei figliuoli reggevano le provincie piemontesi ai tempi della discesa di Carlo VIII, e furono la duchessa di Savoia, e la marchesa del Monferrato, non pensavano a questo quando sovvennero di moneta e di gioie cotesto re ond'ei potesse mandare a ruba la Italia da un capo all'altro con opere piuttosto da predatore, che arraffa, che da principe, che conquista; nè a me sembra dovere aggiungere verbo per chiarire la inanità del vanto; che se per supposto si avesse anco a concedere dovremmo confessare, che i disegni dei principi del Piemonte per lo meno non differissero da quelli che concepirono eziandio le repubbliche dei tempi medi, e lo tentarono, e fu acquistare quanto più potessero signoria di popoli soggetti; così Venezia, e Firenze esercitarono dominio sopra le terre vinte, o comprate; nè i popoli proffertisi accettarono compagni, bensì vassalli; le storie ricordano, che solo dopo molto secolo la repubblica di Venezia accolse tra i senatori alcuni pochi Candiotti in rimerito della mirabile resistenza contro l'armata turca; fra i quali un Manin, donde discese quel Manin, che fu ultimo doge della repubblica tradita dal primo Bonaparte.

Non vuolsi mica fiore d'ingegno per capire come nella indole del popolo subalpino l'antico genio italico sia entrato poco, ed a stento: uomini positivi, e diremo così aritmetici sono i piemontesi, schifano la immaginazione per sè, l'altrui gli affatica; anco se taluno di loro n'è tocco le sue fantasie pigliano aspetto di forma geometrica, onde per ragionare l'assurdo, e mettere il disordine in architettura valgono oro. Anco gli edifizi offrono argomento a indovinare la disposizione del popolo, che li fabbricò, e quivi contempli per lungo ordine case uguali in tutto l'una coll'altra, sicchè da prima tu resti ammirato, poi ti uggisce, per ultimo la fastidievole regolarità ti ammazza: uomini, e mattoni ti appaiono formati proprio sopra un medesimo modello; costà da secoli passarono, e ripassarono lo spianatoio: chi mai fu il mal cristiano? Tutti; nè si potrebbe senza ingiustizia asserire che i principi amassero livellare più che i popoli amassero essere livellati. Il valoroso Ferrari ragionando del Bottero, e della sua Ragione di Stato, lo fece proprio toccare con mani, ed allorchè qualche principe si dispose non mica a dare libertà sibbene a smettere qualche prerogativa, ch'era vergogna di secolo civile, ebbe a toccarne dai suoi fedeli sudditi e servitori una ramazzina delle buone. Sequela altresì di questa quadratura di spirito parmi la tardità a mutare, e la perseveranza nel passo che hanno pure, se non a maltalento, con molta renitenza mutato. Chi dei popoli subalpini legge per avventura queste pagine non s'inalberi, dacchè mi garbi procedere alla rovescia di quello, che costumano i detrattori, i quali incominciano a levarti a cielo per flagellarti poi di santa ragione; dirò più tardi dei molti, e nobilissimi pregi tuoi; adesso ascolta e non battere, perchè se batti ti baratteremo lo scudo in cinque lire.—Pertanto il Piemontese ama piuttosto ordinare, che discutere; sentenziare dommatico, che dimostrare; favellare succinto (tranne gli avvocati, che formano classe a parte e parabolani li proviamo in tutto il mondo; il mestiere mangia l'uomo) e tuttavia male rispondente al concetto, nè terso, molto meno elegante, perchè dallo idioma sincero della Italia un dì appartati, e nè oggi vogliosi cultori di quello, come coloro, che intendono e vogliono impiombarci nella lingua il parlare proprio. Certo possiedono scrittori insigni, ma si conosce di botto, che appresero l'arte su i libri, onde il Botta adopera un tal quale stile, che ti sembra gittato sopra il modello del Casa o di qualche altro autore del secolo decimosesto; e il Gioberti ti turbina in mezzo una lavina di parole, elette se vuoi, ma così rimescolate, che è spasimo leggerle: dei minori taccio, i quali nè troppo studiosi dei classici, nè tutti in balia ai modi del dialetto, a leggerli ti alleghiscono i denti[1].

[1] Un dì la più parte dei parlatori piemontesi non si attentavano movere un braccio per accompagnare col gesto la orazione, uno solo ardiva con la mano diritta descrivere un quadrante dall'umbelico fino al fianco destro; ed un'altro audacissimo con ambe le mani segnava intorno al suo corpo un mezzo circolo; chi fosse questo Capaneo della tribuna piemontese non importa, ch'io dica, che ognuno capisce accennare io al Brofferio, cui Torino, in mercede del lungo apostolato di Libertà, lascia negletto, o si compiace vedere esposto al dileggio di schifosi profanatori di arti, che ormai, loro mercè, non si chiameranno più belle. Orologi in casse ti apparivano cotesti Oratori con la facondia a tic tac, e il gesto a lancetta che segna mezza notte passata. Io lessi già da certo scrittore francese paragonata la Camera subalpina ad un'assemblea di notari, e ciò per onoranza: se costui biasimava che avrebbe detto di peggio? Ma io spero, e non invano, che a questa ora il popolo di Piemonte abbia compreso che la Italia non è morto di cui i notari devano leggere il testamento, nè la Libertà uno incendio per mandare deputati acquaioli a spegnerla in furia.

Se pertanto presumono i Piemontesi impiombarci su la lingua la favella loro, tu pensa se tutte le altre o usanze, o pratiche, od ordini dove qualche volta gli assiste la ragione.—A questa superbia dette nome scientifico il Gioberti cavando fuori il vocabolo greco di egemonìa il quale denota sempre potestà soprastante così regia come popolesca, ed egemonìa chiamarono gli antichi la Luna effigiata con due pallide fiaccole nelle mani a rischiarare col lume accattato il sentiero ai sorvenienti. Il Gioberti col nome greco insomma volle farci palese, che i suoi conterranei possedevano diritto, abilità, ed anco dovere di plasticarci a similitudine loro, cacciarci quanti siamo Italiani dentro la forma dove fabbricano i mattoni a Torino; ed esemplificando contemplava nel Piemonte la Macedonia italica, e nelle terre nostre il Peloponneso, l'Attica, la scaduta Lacedemonia, e la Beozia d'Italia; costà sorgevano Filippo, e Alessandro, quì da noi retori, e artisti ornamento alla magnanima rudezza.—Cotesto ingegno tumultuario che chiappava le cose a volo, e di cento aspetti, che presentano, si fermava sopra quel solo, che porgeva rincalzo alla sua scapestrata immaginazione, non comprese come la egemonìa macedone si traducesse in tirannide, in guerre interminate e senza costrutto, in morte della libertà interna, in guerre civili, e per ultimo in servitù straniera.

Ma nel Gioberti più che in altri si palesò il tipo curioso di vestire con sembianze di ragione lo assurdo; mirabili i conati di lui per sottoporre le astruserie metafisiche a formule scientifiche, anzi a cifre arabiche, o a forme geometriche; miscela continua, e indigesta di astrattezze e di pratica; stellino[1] abbarbagliante di giudizi veri, e di falsi, di guizzi d'ingegno sublime, e di grullerie; breve, uomo che avrebbe provveduto meglio alla sua fama, o avvantaggiata la Patria se sortiva meno da natura o avventatezza, o fantasia, o le avesse sapute temperare di più.

[1] Stellino chiama il popolo, quel tremolare scintillando che fa l'acqua percossa dai raggi del sole: parola efficace parmi, ed io l'adopero.

Così battezzati egèmoni della Italia dal metafisico Gioberti (il quale per arroto voleva mettere nella egemonìa come socio d'industria anco il Papa), vestiti da domenica con un nome greco sempre più i Piemontesi sprofondarono nella prosunzione nella quale stavano fitti fino alla gola per disciplina di armi poche ed inferme, pure le uniche che potessimo reputare italiane, per topografia la quale li persuase che il nemico tremasse la loro virtù, mentre gli rispettava a cagione della positura, per l'esito fortunato della testardaggine messa in opera sopra popoli ridotti nella loro potestà, in fine per piaggerìa di tali che gli adulavano per dispetto di non avere livrea dai propri padroni, e per altre cause, che non importa andare tanto sottilmente investigando.—

Ora la egemonia si esercita, se non m'inganno, o per violenza, o per civiltà, o per violenza e per civiltà congiunte insieme. La violenza non partoriva mai la egemonia nel modo che la intendeva il Gioberti, bensì o l'annientamento del popolo subietto, o il rancore, che matura nel suo segreto la vendetta; nè la violenza egemonica approda meglio anco congiunta con la civiltà; di che pigliate esempio solenne da Roma, la quale, se ne eccettui la Grecia, poteva vantarsi civile sopra i popoli superati da lei; anco Napoleone I disse suo recondito disegno quello di passeggiare la civiltà armata pel mondo, e forse fu vero, non già perchè costui se lo proponesse, o ci pensasse, ma sì perchè l'uomo anco senza saperlo diventa arnese in mano alla forza arcana che affatica il secolo. I barbari si successero come in pellegrinaggio a Roma per pagare il debito di cotesta romana egemonia; la guerra di Spagna, i popoli, che per odio della tirannide tracotante si strinsero ai tiranni umiliati, i cosacchi del Don due volte in Parigi ad abbeverare i cavalli nella Senna saldarono la egemonia francese.—

I Piemontesi invece sostengono avere provato il metodo loro nella Liguria, e nella Sardegna con utilità manifesta dello stato.—Qui si considera prima di tutto come siffatta sentenza risponda a capello allo aneddoto delle anguille scorticate vive esposto un dì dal Windam nel Parlamento inglese[1], poichè quello, che riesce praticare col boccone il quale ti possa capire dentro la bocca, bisogna mettere da parte col boccone che sia capace ingolarti; e nè anco la Liguria, e la Sardegna potè a fine di conto masticarsi il Piemonte vivendo in cotesti paesi odio profondissimo contro di lui, un dì frenato dalla impotenza per via delle condizioni politiche di Europa, oggi temperato dalla necessità di costituirci in popolo grande e potente.—Alle teste gagliarde del Piemonte sembra adesso sia accaduto quello che avvenne al cavaliere, il quale avendo messo il piè nella staffa nell'atto di pigliare lo abbrivo invocò lo aiuto di Santo Antonio, e con tanto impeto il fece che innanzi di potere levare la gamba per inforcare l'arcione cascò giù capofitto dall'altra parte; per la quale cosa si doleva col santo, che troppa grazia gli avesse conceduta. Troppa Italia da masticare di punto in bianco alle mandibole subalpine: affermano taluni avere udito gentiluomini piemontesi impazientirsi dell'annessione delle provincie meridionali d'Italia come d'impiccio; e questo ho udito ancora io, e congratularsi con la fortuna, e con loro, che la Lombardia dopo un'ammannimento tedesco di dieci anni fosse tornata loro a mo' di bottino di guerra però che nella guisa, che ci venne nel 1848 non si sarebbe potuta mantenere, tanto fumava allora, e dalla Costituente fino ai rovesci delle maniche per le vesti militari non ci era da averne bene, mentre adesso domata, e castrata era proprio una pace….

[1] E non rincrescerà saperlo ai miei lettori. Si quistionava nella Camera dei Comuni intorno all'abolizione della tratta dei Neri proposta dal Willebeforce; la contrastavano i conservatori, e i moderati con la ferocia degl'interessi offesi, onde uno di loro di un tratto saltò su a dire, che non riusciva a comprendere la tenerezza nuova per la carne nera dacchè era tanto tempo, che se ne faceva la tratta, che ormai la ci si doveva essere avvezzata. Il Windam deputato della opposizione notò cotesto argomento potersi mettere di riscontro alla risposta di quel tale cuoco, che rampognato di scorticare vive le anguille prima di cucinarle si scusava dicendo: «avere sempre costumato così e secondo la sua opinione, essere scorso ormai spazio ragionevole di tempo, ond'esse ci si fossero avvezzate.»

Rimane la egemonìa della civiltà, la quale sarebbe unica che si vorrebbe accogliere, e meritasse durare: questa però desidera nel popolo, che la esercita un primato dal giudizio universale consentito, bontà quasi ineffabile, e arguzia profondissima in esercitarlo, e disposizione nel popolo subietto a lasciarsi fare: mentre se non possiedi le qualità del primato invece di prendere resti preso, come accadde ai Langobardi, ai Normanni e ad altri popoli stanziati qui in mezzo d'Italia. Vuolsi altresì che nel popolo egemonico la civiltà sia naturale, e propria non ascitizia; però che se ella sia accattata da altri non che tramandarla altrui, e' fie bazza se la mantiene egli; onde parrà, che meno, che ad altri la qualità egemonica si attagliasse alla Luna, di cui i raggi riflessi se danno luce, non fanno calore: ed anco la civiltà da stabilirsi non vada contro corrente, e trovi corrispondenza, altrimenti passa come olio nell'acqua, e tale fu la civiltà dei Saracini a Napoli, in Sicilia, in Sardegna, e nella Liguria dove attecchì un momento ma non potè cestire.—

Ciò fermo; ora voi altri uomini subalpini in che e come volete esercitare questo primato su noi vestendo la presunzione arrogante col classicismo del nome?—Già voi, ed i vostri più incliti, di civiltà non si talentano; e' sembra che piaccia loro e giovi essere considerati stirpe in linea diritta discesa dai vetusti allobroghi, o dai taurini entrambi celti, non gentile sangue latino[1]. Già lo dissi altrove, e qui ripeto, imperciocchè ai dì nostri queste anime di polpo poco sentano, e ritengano meno. Cesare Balbo desiderava l'appennino ligure si fendesse, e pertugiasse: più in là no, però ch'egli non consentiva: «che nemmeno fantasticando si lasciasse la immaginazione varcare altri appennini: hacci abbastanza di sangue meridionale, abbastanza di fantasia poetica, e d'ingentilimento italiano, aggiunti i Liguri ai Piemontesi; e troppo di gentilezza tornerebbe in effeminatezza.» Di fatti o che vogliono desiderare di più i Piemontesi: paradiso terrestre Torino; sancta sanctorum Torino: se ne contentino, e non cerchino migliore pane, che di grano: «hacci nel mondo, domanda a sè stesso il dabbene conte Balbo, hacci nel mondo paese più bello del Piemonte? Egli giace appunto a quarantacinque gradi equidistante tra l'equatore e il polo; tra l'arsura e il gelo. Il bene fisico come il morale deve stare nel giusto mezzo[2].»

[1] Gentil sangue latino

«Sgombra da te le vergognose some;

«Non fare idolo un nome

«Vano, senza soggetto….

[2] Balbo. Carta geograf. del Piemonte, p. 415-417. A Torino, in questo paradiso terrestre d'Italia, abbiamo goduto un freddo di 17 gradi sotto il O a mezzo giorno!

In virtù di primato di arti i Piemontesi non potranno certo attentarsi ad esercitare la egemonìa: costà l'architettura ci si trova come Cristo legato alla colonna per ricevervi battiture, quante fabbriche ci si fanno; una casa pare riflessa da cento specchi le abbiano posto dintorno; io non lo so di certo, ma ho temuto che da un punto all'altro mettessero su a Torino una Società in accomandita per fabbricare uomini e donne come a Nurimberga i burattini tutti di un conio. Molti assomigliano i casamenti di Torino alla mostra dei soldati, e mi sembra paragone, che non ritragga giusto la cosa; torna meglio in chiave rassomigliarli alle processioni delle povere orfane, che talora mi diedero il male di mare nel vederle per le vie di Torino; tagliate tutto a un modo dalle forbici della stupidità messe in mano alla beghineria: povere anime! con gli occhi bassi, le mani soprammesse sul ventre, con carni, che paiono mozziconi di candele avanzati alla novena di san Luigi Gonzaga.—E come in fondo alla processione di queste poverine anime tu vedi spuntare una figura, che tu credevi impossibile, eccettochè nel sogno dopo avere cenato con ceci, e pesce salato[1], e quì in Torino trovi viva e verde ad ogni svolta di canto; un mascherone da fontana per virtù d'incanto fatto capace di buttare fuori dalla bocca invece di sprilli di acqua versetti di salmi penitenziali, torto, e bistorto; con certe braccia lunghe da allacciarsi le fibbie delle scarpe senza pure chinarsi; e certi piedi, che nei giorni di riotta cittadina dispenserebbero da costruire barricate; un prete insomma in roccetto bianco, sul quale, caso mai presumesse significare la candidezza della coscienza di cui lo porta, si avrebbe a scrivere come i notari quando saltano un foglio nei protocolli: alba «per errorem!» Un prete con un berretto quadrato in capo su cui i tre spicchi predicano come tre predicatori in bigoncia, chè un prete non può essere bagnato e cimato prete dove non gli manchi uno spicchio o d'intelletto, o di cuore, o sovente di ambedue.—La similitudine capisco ancora io, che passa le proporzioni; di così lunghe ne adoperava Omero, ma comprendo del pari che se Omero mal fece non porge scusa a me di comportarmi peggio: insomma pari a questo prete in fondo delle processioni ti si mostra lontano lontano allo sbocco della via la cupola della cappella regia, che verun pasticciere al mondo nei suoi estri di pastafrolla ardirebbe imitare in un pasticcio quando anco glielo commettesse la demenza in persona pel dì delle sue nozze; e se dico il vero me ne richiamo a tutti, anco ai Cafri, anco agli Esquimesi, non però ai Moderati i quali con duegento cinquanta voti sarieno tomi da preferire quel coso alto che sta sul duomo di Torino alla cupola del Brunellesco. E la cattedrale di Torino o non vi pare ella una trappola tesa dalla religione per chiappare i topi miscredenti? Torino egemonico per arti in Italia con quel palazzo regio ameno quanto lo Spielberg villeggiatura allestita per gl'Italiani dalla nostra amica Austria! Con quel giardino dilettoso a vedersi così, che presso al quale perde il pregio di bellezza lo stradone dei pioppi che da Pisa mette al Gombo in foce di Arno! D'incanto passando in incanto, ecco il palazzo Madama congerie immaginata da Belzebub l'ultimo giorno di carnevale; lì prigioni, lì apparitori, lì littori (lo dico alla romana), lì guardioli, lì assessori di polizia, lì tormentatori, e tormentati, lì specola per contemplare le stelle, lì pinacoteca, lì senatori, lì fossati, dove si coltivano cavoli, o vuoi fiori, o vuoi cappucci. Sì signori; in piazza Castello, allato al palagio dei ministri, intorno all'aula dei senatori, e di tutte le altre degne persone ricordate qui sopra crescono all'ombra dell'aquila sabauda cavoli fiori, o vuoi cappucci. Certo bell'umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi rispose:—che aveva torto a farne le stimate; ammirassi al contrario la previdenza piemontese, la quale considerando di avere a surrogare via via i senatori defunti se n'era allestito un semenzaio sotto casa.—Così il Piemontese bizzarro; ma io protestai rimbeccando subito la insinuazione irriverente, dacchè è certo, che dei Senatori, come diceva lui, in Senato non ce ne ha che tre quarti, tutto al più quattro quinti, mentre gli altri la sanno lunga, e la sanno contare. E poi il semenzaio dei Deputati dove l'arebbono a mettere?—E il Piemontese di rimando: per ora non so, ma credo che aspettino di Francia un modello di stufa per coltivarli anco nei sidi del Gennaio. A cotesto palazzo dietro e dai lati prigione, fortezza, guardiolo e simili, appiccicarono davanti una facciata composta non so nè manco io di quanti archi sgangherati di un bianco sudicio, e dello stile che si chiama barocco; non mai fu vista l'architettura concia in guisa più feroce e truculenta: cotesto guazzabuglio ti fa l'effetto di un cagnotto dei tempi feudali che pensi essersi travestito mettendosi alla faccia ed in capo una maschera, ed una parrucca da marchese della reggenza. Ho detto che l'architettura non fu mai vista tanto barbaramente trucidata come nel palazzo Madama; ho detto male, supera la ingiuria il palazzo Carignano, che si deve definire così: ribellione in permanenza di mattoni cotti contro il senso comune; colà non occorre linea che vada diritta; storta la facciata, storte le scale di cui la prima a gradini convessi, e la seconda concavi, storta la sala: chi l'architettò e' fu un Guarini, che Dio riposi, e deve averlo disegnato in profezia, che un dì avesse ad essere la stanza del primo parlamento italiano, conciosiachè la strage del buon senso architettonico di cotesto arnese non può trovare degno riscontro altro, che nella strage di parecchi sensi, che quivi dentro tutto dì menano i Rappresentanti della nazione.

[1] I ceci a cagione della ventosità loro ed in generale tutti i legumi danno mal sonno.

Delle opere di scoltura questo dirò, che lo stesso signore Azeglio, non Massimo, ma quell'altro, che discorreva di arti, tutto che Azeglio fosse, gittò gli argini, buttando fuori roba da chiodi: se vuoi trasecolare va di grazia nella piazza del Municipio, e quivi contempla in mezzo quel gruppo che sembra composto di spinaci, ed è di bronzo, di parecchie figure armate in guerra di maglie di seta, disposte in atti di morto, di chi va a morire, e di chi ci manda; il Conte verde, però che il gruppo rappresenti l'effigie del Conte verde, (e tu lettore hai da sapere come qualmente in casa al tuo re ci fosse un Conte verde, e poi un Conte rosso: quanto al Conte verde, come vedi, egli si attenta comparire per le piazze; circa al Conte rosso ei se ne sta chiotto nella sua antica sepoltura pauroso, che il Questore di Torino non lo facesse portare diritto come un cero nella parte postica del palazzo Madama) al quale nell'uno, vale a dire nell'uno dopo il mille, un giorno venne voglia di piantare il ceppo donde nacque il nostro re in linea diritta diritta più di un fuso, secondochè attestano documenti registrati in Duomo, ed Ercole Ricotti nella Monarchia Piemontese stampata in Firenze dal Barbèra, il Conte verde, dunque in vaga positura mimica tiene levata la mazza d'arme su la persona di un guerriero circonciso (la circoncisione non si vede, ma chi voglia alzargli la camicia di bronzo la potrà vedere) il quale inclinato il fianco lo sta a mirare con l'estasi degli apostoli quando pioveva giù a stroscia lo Spirito Santo, e par che dica: «me la dai, o non me la dai, chè ad aspettarla io mi sento stracco?»

Hacci un simulacro del Principe Eugenio, che un po' mi parve dall'uggia di sentirsi da tanto tempo murato su cotesto piedistallo lo abbia preso la mattana, e venuto in furore con la parrucca arruffata, le vesti scinte, il collo ignudo voglia pigliare una rincorsa per andarsene, Dio sa dove, a finire; ovvero, povero uomo! (anche agli eroi siffatte cose incolgono) soprapreso nella notte dalla colica sembra, ch'ei siasi lanciato giù dal letto per arrivare laggiù colà dove confida rinvenire refrigerio. Questa smania di fare correre le statue, qualche malizioso affermerebbe, che a Torino si fa più intensa alla stregua che gli uomini vivi ci stanno fermi; di vero anche nel giardino pubblico il simulacro del Generale Pepe, non ricordando essere di marmo, scappa via; lo scultore dove non potè tradire la verità fu nella statua di Cesare Balbo: quelli, che lo videro vivo, ed ora lo contemplano di marmo, non si accorgono della differenza; però se marmo sono i suoi scritti, e marmo i suoi concetti, di marmo, non fu il suo cuore, quando balenò la speranza di erigere il monumento della Italia, e per la Italia diede più che il sangue del proprio cuore, quello dei suoi figli, e volontieri anco credo, che da quel marmo uscirebbero fiamme se gl'Italiani pigliassero il partito di mettere ogni cosa allo sbaraglio per diventare una volta padroni di sè. La statua della Italia pare una gessinaia lucchese che venda i medaglioni del Manin; quella del Gioberti in forma di modello sul quale i sarti provano i vestiti, a capo basso, con una mano al petto ti rappresenta giusto un penitente, che dica: mea culpa per avere creduto, e dato ad intendere, che la Italia potesse sorgere a dignità col Papa a Roma; del monumento di Carlo Alberto basti questo, che chi avesse a lavorare una saliera potrebbe cavarne un disegno, ma non dei migliori; anco su la piazza del Municipio havvi una statua di marmo di Carlo Alberto in tutto simile ad un cero pasquale cascato da parte. A mio giudizio la statua che solo ne meriti il nome è quella equestre di Emanuele Filiberto. Quanto ad arti pertanto immagino, che egemonìa non avrebbero a volere esercitare i Piemontesi, almeno mi parrebbe, poi facciano loro![1] Vediamo se in lettere a cosiffatta egemonia possano i Piemontesi aspirare; io mi guardo bene da contrapporre ai vanti loro Dante, e gli altri, imperciocchè se stesse a me ogni toscano, che rammentasse il nome di cotesti grandi indarno, io lo vorrei condannato in carcere per quindici dì con gli ultimi cinque inaspriti di pane e di acqua come soleva ordinare la buona anima del Radetzky, e poi gli fosse fatto divieto di mai più ricordarli finchè la Toscana non avesse partorito almanco una mezza serqua di uomini capaci di arrivare alla caviglia del piede dei grandi antenati. E' bisogna capirla una volta, che ogni generazione dee vivere del suo lavoro, come della sua sapienza, e della sua gloria; non fare come gli sciagurati perdigiorno i quali campano mangiandosi il capitale raccolto dai nonni. Nè mi uggiscono meno il vanto e la lode dell'antica civiltà etrusca, che affermano antecedente fino alla pelasgica, ed a certa degna persona che meco se ne congratulava risposi:—gran mercè, quantunque in coscienza io non mi estimi erede del re Porsenna, nè dei Lucumoni.—Chè se la civiltà toscana altro non seppe che somministrare i riti religiosi ai Romani, che furono detti cerimonie da Cere città sacra etrusca, e lo scettro, e la sedia di avorio, non che il manto purpureo ai re di Roma, io renunzio a questo retaggio di civiltà per me, e per tutti i miei discendenti in perpetuo; tra noi se il Piemonte si onora del Denina, del Lagrangia, del Galliani, del Botta, del Gioberti, del Pellico, dello Sclopis, del Balbo, del Cibrario, del d'Azeglio, del Mossotti, dello Alfieri e di altri simili, la Italia di contro a loro vanta caterve di uomini insigni in ogni maniera di sapienza umana; la Lombardia ha Scarpa, Volta, e Verri, e Beccaria, e Manzoni, e Grossi, e Cattaneo, e Ferrari, e Romagnosi; la Emilia Leopardi, Bufalini, Puccinotti, Matteucci; Parma, Giordani, Recanati, Leopardi; Napoli e Sicilia Colletta, Ranieri, Nicolini, Melloni, Piria, Pilla, gli Amari Emerico e Michele; Modena, il Nobili; la Toscana il Niccolini; il Ferrarese Monti; Venezia Ugo Foscolo; Verona Pindemonte, e via e via. A Brofferio oppongo il Giusti; e noto, che la satira di questo ultimo si spande per la Italia, e ci alligna, mentre quella del primo discolora, non mica per difetto d'immagini, ovvero di felici scappate, bensì perchè anteponendo il dialetto piemontese alla lingua italiana ordì tela municipale; e che razza di dialetto sia il piemontese che ve lo dica per me, tanto che udendo un giorno recitare dal buon Brofferio taluna delle sue canzoni piemontesi alla domanda ch'ei mi mosse: che me ne pareva, io risposi netto: me ne pare questo, che credendo avere appreso dalla mitologia che Apollo avesse scorticato Marsia; ora mi accorgo dello errore, almeno quì in casa vostra, dove sento Marsia cavare Apollo «dalla vagina delle membra sue.» Alfieri merita abitare eterno co' grandi che gli fanno corona…. le sue ossa bene stanno in Santa Croce a fremere amore di Patria, con insigne scandalo dei moderati a cui più dei fremiti garbano i belati o i ragli; ma egli è forza avvertire, che l'Alfieri voleva bene al Piemonte come gli occhi al fumo, ed aborrì viverci, e tra noi elesse morire; il fiero animo dell'Astigiano per noi cortese anco troppo esclamava ad onoranza della mia Patria:

«Deh! che non è tutta Toscana il mondo.»

come modesto soverchiamente in proposito dello idioma, che oggi presumono insegnarci questi bizzarri fratelli piemontesi egli scriveva:

«Stranio innesto son io su tosco stelo.»

[1] Per compire il quadro odasi quest'altra. Quando il conte di Cavour annunziò alla Camera, che di arte egli intendeva niente, disse la verità, e potei sincerarmene io stesso; avendomi egli dato la posta al suo palazzo andai, dove cominciando così per mio genio a considerare minutamente le scale le trovai luride, e su pei muri grommose di un colore di ranno dopo fatta la lisciva; la porta di casa esternamente vidi ornata di portiera di bambagino rosso con penero bianco appunto uguale alle portiere, che da noi in Toscana sogliono mettere alle baracche dove vendono il cocomero: dubitai avere sbagliato, ma no; egli era proprio il palazzo del conte di Cavour; aperto l'uscio entrai dentro una maniera di galleria ammirabile non mica per quadri, non per istatue, non per bassirilievi; di queste cose nè manco l'ombra, bensì di una doppia fila di scarpe e stivali……. Di quì fui intromesso in certa anticamera e la maraviglia crebbe; su le porte e pei muri notai talune figure colorate col sugo di regolizia, sedie vecchie, e sciatte, armadioli unti e bisunti ad uso di riporre i lumi; e poi certe urne, che di sicuro dovevano essere avanzate al catafalco di qualche atavo del nobile Conte; ma ciò, che più mi percosse fu il suo busto di marmo sopra un tronco di colonna messo proprio a canto alla soglia del suo studio, e mi percosse perchè i Romani in cotesto luogo solevano tenere incatenato il cane; però anco a catena avendo addentato qualche gamba sembra che al cane vivo trovassero spediente sostituirne altro o dipinto, o condotto a mosaico con la leggenda sotto: cave canem. Questo negli scavi di Pompei può riscontrarsi agevolmente; per la qual cosa io pensava: «cave Cavour! uomo avvisato è mezzo salvato!» Ammesso nello studio, intantochè il Conte terminava scrivere non so quale lettera, inventariai l'uomo; egli vestiva un gabbano da camera sudicio, e mi parve anco lacero, con uno straccio al collo, e in capo una papalina logori entrambi e laidi, stavasene accoccolato su di una tavoluccia dove scriveva in furia con molto disagio; avanti questa tavola ne vidi un'altra più grande dove notai una tazza di argento dono non mi ricordo di quale Municipio, o Consorteria. La stanza parata di carta con alquanti specchi nè più nè meno di qualunque sala di moderna osteria: non libri, non quadri, non arnesi che svelassero gusti eleganti od amore di arte. Lo studio rispondeva sul cortile, e dirimpetto alle sue finestre, levati gli occhi, vidi pendere giù dalle finestre del secondo piano pezze e fasce da bambini, onde la memoria corse ai due scolari brilli di cui racconta Heine nel Reisbilder quando aprirono l'armadio dell'oste e vi avendo trovato attaccato un paio di calzoni di pelle gialla di daino usati da lui quando faceva il postiglione, li presero per la luna, e volsero a loro una invocazione sul gusto dell'Ossian.—E questi, dissi fra me, è l'uomo, che ha da comprendere la Italia? Sarà! e mi strinsi nelle spalle; proprio come esclamai: sarà! e mi strinsi nelle spalle quando additandomi i Turcòs mi affermarono essere venuti in Italia a darci la Libertà:—Sarà! soggiunsi poi, ma se io fossi nei piedi della Libertà mi verrebbe la pelle di oca al solo vederli. Intesi dire altresì, che nella sua camera ei tenesse appeso il ritratto del Boggio; ond'io esclamai: mamma mia! il ritratto del Boggio sarebbe mai la Madonna della Seggiola del Conte di Cavour?—Non già, mi risposero, ma il signor Conte guardando la figura del Boggio, così a digiuno, si mette a ridere e ciò gli dà qualche minuto di buono umore.—Che il Conte di Cavour possedesse ingegno di certo non nego; impugno avesse capacità di Ministro italico; e dove pure in lui non difettasse la capacità a lungo andare non avrebbe approdato, perchè egli non chiamò mai le Grazie a spruzzarlo con la loro acqua lustrale. Il bello e il buono nella morale compongono una medesima cosa, e chi non ha senso di arte non può intendere la Italia.

E Botta visse esule da casa sua, e Gioberti altresì, il quale diverso dalla indole piemontese, pare favilla balestrata a Torino dalla eruzione del Vesuvio; e non sarebbe maraviglia, però che si legga, che quando prima ruppe il monte pauroso la lava andò a cascare fino in Alessandria. Se in arti, in iscienze, ed in lettere noi non possiamo insegnare niente ai piemontesi non ci si apponga ad jattanza se affermiamo nè manco noi altri italiani avere nulla da apprendere tra loro[1]. Per amministrazione si governano peggio della lombarda, e questo ho toccato con mano; quanto a legge per amore di unità incaponivano a volerci a parte nella beatitudine della corda, con errato consiglio non meno che con mente iniqua; imperciocchè se la morte abolita efficacemente è segno di buona civiltà acquistata, perchè dobbiamo noi altri toscani stornare alla barbarie, e non voi piemontesi allungare il passo per agguantarci sulla via della civiltà? Ma tutto questo suona prosuntuosa insipienza di curiali; di vero se per sopprimere la pena di morte si desidera stato più perfetto di civiltà, o con qual giudizio v'incocciate a mantenere questa pena, la quale tra le barbare è barbarissima, e tra le inique scellerata delle instituzioni umane? Per leggi civili portava il vanto Napoli; le industrie agricole migliori in Toscana che in Piemonte; nelle urbane Piemonte supera, ma contaci la Liguria, che parte di Piemonte fu per violenza, non però per indole, nè per volontà. Avanzano le armi.

[1] L'antica uggia non può fare a meno, che abbia partorito pessimi effetti difficili a vincersi: le nebbie del passato caligano sempre intorno al Piemonte, e se tu riscontri la temperie di cotesto paese sul termometro della Ragione di Stato del Bottero, tu trovi che l'aere non è per anco sereno di civiltà. Carlo Botta, tenerissimo del Piemonte sua patria, ci fa sapere come la università di Torino non fruttasse i buoni effetti che uomo se ne riprometteva in grazia della strettezza del governo, e dell'apparato militare. Il Denina, citato dal Botta, racconta come i letterati venuti da Roma, da Napoli e da Palermo alla stanza di Torino preferissero quella di Milano austriaca, però che colà le lettere e le scienze godessero di certa libertà ignota a Torino, con altre più cose gravissime che, se te ne piglia vaghezza, tu potrai leggere nel lib. 38 della Storia d'Italia sino al 1789. Altrove (lib. 48 della medesima Storia) il Botta esce fuori con queste parole, che mal per noi se non le cavassimo dai libri di un piemontese sfegatato: «gli studi si fomentavano a patto che da angusto e stretto cerchio non uscissero. Nissuna vita nuova, nessuno impulso, nissuna scintilla di estro fecondatore: un'aere greve pesava sul Piemonte e i liberi respiri impediva. Lo stesso vivere tanto assegnato del Principe (e doveva dire tirannicamente pedantesco) faceva, che la consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che nessuno dall'usato sentiero uscisse ancorachè più facili, più utili, e più dilettevoli strade in luoghi vicini di sè medesime facessero mostra. Dai duri lidi fuggivano Lagrange, Alfieri, Denina, Berthollet, e Bodoni, e fuggendo dimostravano, che se quella era terra per natura feconda gretto coltivatore aveva. Carlo Emanuele e Bogino si martirizzavano su i conti, e le generose aquile sdegnando quel palustre limo a più alti e più propizi luoghi s'innalzavano.» Quanta larghezza da cotesta ora in poi godessero gli studi nel Piemonte, anco in tempi recentissimi lascio, che altri dica: pure ieri i Gesuiti maestri, e donni dei cervelli piemontesi: no, veramente, a me non pare, e non parrà, spero, nè anco ai nostri buoni fratelli subalpini ch'essi possano presumere quanto a scienze ed a lettere di esercitare egemonìa sopra la Italia.

Di quali armi favellate voi uomini piemontesi? Quando tra noi fioriva la onorata milizia, di voi non ci giunse novella; nella scuola dei Bracci, e dei Piccinini, tra gli Sforza da Cutignola, gli Alviano, i Colleoni, e tanti altri famosi si ricorda unico il Carmagnola; più tardi tra i Colonna, i Pescara, Giovannino dei Medici, gli Strozzi, il Ferruccio, i Doria, i Sanseverino, gli Orsini, i Farnese, gli Spinola unico Emanuele Filiberto; di cui gloria immortale la battaglia di San Quintino, la quale non egli vinse, bensì il conte di Aiamonte, il principe di Brunswick, e i conti di Hornes, e di Mansfeldt; Emanuele Filiberto arriva tardo sul campo di battaglia, e quando i francesi rotti fuggivano inseguiti dai raitri; solo con le artiglierie egli disperse l'ultimo corpo di fanti guasconi, che combattevano, disperati della vittoria, per proteggere la ritirata; nè seppe usare poi della vittoria, chè proseguendo il corso prospero avrebbe preso a mano salva tutti i francesi senza eccettuarne pure uno; e questo chiariremo con prove espresse se a Dio piacendo mi condurrò a dettare la vita di cotesto duca di Savoia. Certo con gloria maggiore o minore trattarono le armi i principi di Savoia; con grande Tommaso, con massima Eugenio; ma se togli l'ultimo gli altri ebbero emuli pari se non superiori a loro; questi poi veruno. Nel periodo lungo delle guerre napoleoniche i più famosi capitani come Bertoletti, Pino, Teuliè, e Vacani uscirono di Milano, i tre Lechi o Mazzucchelli da Brescia, Lahoz e Peyri furono mantovani, Bianchini, l'eroe di Tarragona, bolognese, il maresciallo Bianchi da Corno, Viani veronese, Zucchi reggiano, Severoli faentino, Palombini di Roma, Fontanelli da Modena, Colletta di Napoli; solo due noti nelle storie dava tutto il Piemonte, più illustre il primo, che fu Rusca, meno il secondo nominato Serras; nella guerra del 1848 venne fuori il Bava capitano di abilità mediocre, e di cattiva fortuna; nel 1849 ebbero ricorso a capitano straniero con perdita di riputazione, e sciagura della impresa. Adesso fanno caso grande del Lamarmora, ma non tutti in lui ripongono fede; ad ogni modo gli preferiscono il Cialdini od anco il Fanti, i quali insieme al Cucchiari vengono da Modena. Quanto a Garibaldi ormai è convenuto che generale matricolato non si possa estimare; di fatti della milizia ei sa una parte sola, una sola, tutte le altre ignora, e questa una è quella di vincere le battaglie.

Questo intorno ai capitani; circa le milizie quando per tutta Italia andavano famose le Bande nere, ed anco la ordinanza della Milizia fiorentina le soldatesche del Piemonte si reputavano le più scadenti di tutte.—E perchè non paia avventato e maligno il mio dire, siami lecito riportare quanto trovo sparsamente scritto intorno ai capitani, e alle milizie piemontesi durante il secolo decimosesto nelle relazioni degli ambasciatori veneziani arguti nell'osservare quanto schietti nello esporre. Ora di queste relazioni io ne conosco cinque, stampate a Firenze; la prima è di Andrea Boldiù la quale è tratta dalla biblioteca Capponi insieme coll'altra del Lippomano, che al nostro scopo non approda; due ne somministra l'archivio reale di Torino e sono di Sigismondo Cavalli, e di Giovanfrancesco Morosini, l'ultima pubblicava il signor Cibrario. Quanto a' capitani; e ai soldati afferma il Boldiù: «ha parlato assai sua eccellenza; sebbene non ha terminato cosa alcuna di dare forma alle genti del suo paese nel modo che sono le cerne di vostra serenità, che si chiamano ordinanze; per le quali già ha fatto colonnelli e nominati molti capitani, pochissimi dei quali sono, come intendo, che abbiano comandato in guerra alcuna. E cercando io poi di sapere quanto si sperava, che potesse essere il numero di queste ordinanze mi viene affermato, che per servire nel paese ascenderiano a 24000 uomini, ma volendo condurli fuori non passeriano 8000, ma questi buoni veramente[1].» Il Cavalli più alla recisa: «di uomini da guerra, che abbiano servizio con sua eccellenza, nè dei suoi sudditi, nè di altri vi ho conosciuto persona di gran nome o valore, salvo che il Signore della Trinità, il quale vostra serenità avrà inteso nominare per le operazioni onorate che fece alle imprese di Cuneo e Fossano…. il signor Duca non si serve gran fatto di lui, prima perchè non vuole mostrare, che quello che fa sia per consiglio del medesimo; poi (nota, o riponi in mente lettore) perchè dove tutti gli altri suoi servitori gli parlano con molta timidità, lui per dire il vero O quando si trova in Corte parla più liberamente… per tal causa vive il più del tempo ritirato in casa sua. Vi è ancora il signor Masino, che a tempo di guerra era vice-duca, questi è galantuomo e cavaliere liberale, ma nel fatto di guerra non ha mostrato virtù sopra gli altri. Il conte d'Arignano ancora lui è prudente gentiluomo, ma non ha fatto operazioni, che, meritino essere rammentate più, che tanto. Restano alcuni privati capitani, che si possono riputare buoni soldati, ma non sono persone di grande portata[2].»

[1] Relazioni venete, Serie II, vol. 1. p. 136.

[2] Relazione dell'Oratore Cavalli. Relaz. degli Amb. veneti. S. II. Vol. II, p. 33.

Più spezialmente circa la qualità dei soldati, e l'indole dei piemontesi l'oratore Giovanfrancesco Morosini informa il Senato: «il letto loro è pieno di foglie di alberi per la molta povertà, del paese non tanto causata poi in effetto dalle lunghe guerre, e continue, che ha avute, quanto da una naturale viltà e dappocaggine di quei popoli; la quale ancora è causa, che con tutto che pei tanti anni continui sieno stati nudriti ed allevati nelle guerre, non sono però al giudizio di molti, da essere tenuti per molto atti allo esercizio delle anni per non dire, che sieno inettissimi a quello

Questa relazione del Morosini va copiosa mirabilmente di notizie intorno alla milizia del Piemonte; chi ne abbia talento (e lo dovrebbe avere, ma ne dubito, perchè la gioventù in mal punto oggi si mostra aliena dagli studi, massime storici) può esaminarla intera; al mio assunto giova cavarne questo altro tratto: «ha il signor duca, oltre alli presidi, una milizia di 16000 fanti bene armata sotto quaranta insegne, le quali prima erano 66, ma sono state questo anno ridotte al numero di quaranta, a fine di scansare le spese dei capitani, e degli officiali di 26 compagnie; e li fanti sono stati distribuiti in modo, che in ogni bandiera saranno 400 fanti, e sua eccellenza viene ad avere avanzato 5200 scudi all'anno. Queste genti sono al governo di 42 gentiluomini, tutti suoi vassalli, salvo che uno, ch'è il signor Guido Piovene suddito della serenità vostra e gentiluomo vicentino…… Questi tutti hanno nome di colonnelli e sono stipendiati diversamente l'uno dall'altro, avendo chi più, chi meno secondo la inclinazione di sua eccellenza. Questa gente, come ho detto di sopra, non è molto atta allo esercizio delle armi, salvo, che certa poca quantità verso Fossano, e il Mondovì, li quali per essere tra loro stessi in perpetua gara riescono più esperti, e pronti a menare le mani, che gli altri; ma quanto più sono buoni allo esercizio delle armi tanto più sono fastidiosi, ed insolenti ad essere governati, e disciplinati. Fa usare sua eccellenza molta diligenza per tenere bene disciplinata questa milizia facendo mostre spessissimo, alle quali molte volte si trova di persona sperando pure con questo frequente esercizio doverle levare da quella naturale pigrizia, che hanno; ma difficilmente credo, che vi riuscirà essendo più forte la natura, che l'arte[1].»

[1] Relaz. ven. S. II vol. 2. p. 130.

Da principio Emanuele Filiberto pare, che facesse capitale sopra i popoli di Savoia, sicchè Sigismondo Cavalli racconta egli avere, per lo scopo di assicurare i stati, «principiato a fare le cernide, ovvero ordinanze dei suoi popoli, ed obbligare ogni comune a dare tanti corsaletti, picche, archibugi, e morioni; e già quelli della valle di Aosta debbon essere in buono stato, perchè quando sua eccellenza passò di là, tornando di Savoia, volle vederne la mostra, la quale riuscì assai bene[1]» Senonchè Francesco Molino dopo dieci anni nel 1574 referendo al Senato così favella di cotesta medesima milizia: «i popoli che abitano la Savoia sono per lo più timidi, e vili: non si danno ad alcuno esercizio, e nè tampoco a quello delle armi, e fecero vedere questa poca inclinazione alloraquando il duca ordinò una milizia, per la quale avendo speso più di seimila scudi in arme, in poco tempo fu ritrovato, che dei morioni, e corsaletti se n'erano serviti a fare delle pignatte e degli spiedi[2].» e comecchè poco più innanzi afferma i popoli del Piemonte più atti ad adoperarsi, più capaci di disciplina, o più industriosi dei Savoini, non si sa bene con coteste premesse s'egli intenda più avvilirli ovvero commendarli.

[1] Relaz. ven. S. II. vol. 2. p. 37.

[2] Relaz. ven. S. II. vol. 2. pag. 246. Innanzi però di pigliare congedo dalle Relazioni degli Oratori Veneti giovi cavare da loro, a fine d'instituire i debiti confronti quale, la gratitudine del duca Emanuele Filiberto fondatore vero della casa di Savoia verso coloro che nella fortuna avversa lo sovvennero col sangue e con gli averi. «Quelli poi che sono stati fedelissimi a sua eccellenza e l'hanno in ogni tempo servita, si trovano di malavoglia, perciocchè quando aspettavano, tornati in Patria, ed a casa di avere alcuna mercede per essersi tanto tempo trovati spogliati di quanti beni avevano, vedono che solamente si danno a loro parole, ed all'incontro a quelli che sono stati totalmente contrari a sua eccellenza si danno maggiori onori, che vi sieno e sono adoperati prima degli altri, il che mette alle volte in disperazione tale, che prometto a vostra Serenità, che si conosce chiaramente che muterieno voglia se tornasse il tempo com'era prima della guerra. Relazione dell'Oratore A. Boldiù. S. 2. vol. 1. p. 441. Rispetto all'osservanza nella quale tenevasi il Consiglio di Stato, e le deliberazioni di lui..» In questo consiglio rare volte si trattano materie di stato, o solo allorquando vuole servirsi sua eccellenza delle deliberazioni di quello per causa sua, come fece ultimamente con accomodarsi con quelli suoi di Agrogna, perciocchè disse, che ciò fatto aveva perchè aveva così deliberato tutto il consiglio di Stato……Poi domanda sua eccellenza li pareri loro, e dice:—io intendo che si faccia così:—o pure si leva dicendo:—si delibererà poi—e molte volte occorre, che sua eccellenza non va al consiglio, e se vi si trova non si obbliga molto a quello, che sarà parso alla maggior parte di quelli, che vi sono. E dirò più, che io ho saputo per certo, che fu un giorno deliberata una materia d'importanza alla presenza di sua eccellenza, e di ciò fu commessa la lettera per la esecuzione al Signore Fabri secretario deputato a detto carico, ma sua eccellenza fece poi chiamare esso secretario in camera sua, ed ordinogli altramente, onde fu eseguito per lo appunto il contrario di quanto era stato deliberato con maraviglia di tutti quelli consiglieri suoi. Di modo che si può dire assolutamente che delle cose sue sua eccellenza intende, o vero vuole e delibera a sua voglia sola.» Il che si rassomiglia come uovo ad uovo al Consiglio convocato da Serse prima di rompere la guerra con la Grecia dov'egli dopo salutati i Satrapi, secondochè ci testimonia Valerio Massimo al capitolo quinto del Libro IX della opera sua, così prese a dire: «non ho voluto parere di fare le cose di testa mia, però voi vi avete a ricordare come vostro debito sia non consigliare bensì obbedire.» Adesso qualche cosa circa allo amore di Emanuele Filiberto archetipo dei Reali di Savoia per la onesta libertà dei popoli, nonmenochè dello studio ch'egli poneva a mantenere gli antichi loro diritti: «per dimostrazione di questa sua potestà, continua il medesimo oratore, che intende, che sia assoluta non ha voluto tenere li tre stati del suo paese, come l'obbligano le convenzioni antiche della casa di Savoia con li suoi confederati, osservate sotto ciascun altro principe passato.» Che cosa poi fossero questi tre stati si ha dall'altra Relazione di Francesco Morosini, il quale rincalza la testimonianza del Boldiù: «solevano al tempo degli altri duchi di Savoia essere divisi in tre parti, che loro dimandano stati, cioè cherici, gentiluomini feudatari, e gente popolare; li quali erano convocati dai duchi sempre quando volevano qualche donativo dal paese, o mettere qualche angaria ai popoli, e con questi si accordava il lutto. Ma dopo il ritorno in istato di questo signor duca, parendo a lui di averselo acquistato con la spada alla mano, e che la ragione di guerra voglia, che i popoli restino liberamente alla discrezion dei principi, perdendo ogni privilegio, che per lo innanzi avessero ottenuto nei tempi in cui si erano volontariamente dati, però non è mai parso a sua eccellenza di fare questa convocazione, ma ha voluto disponere a modo suo liberamente mettendo da se tutte quelle angarie che gli è piaciuto mettere, di che universalmente tutti ne restano male soddisfatti.

E tu considera fede, e giustizia: imperciocchè se i suoi dominii erano venuti in potestà altrui ciò doveva attribuirsi a difetto del debito del principe, il quale consiste appunto nel difendere i popoli al suo reggimento commessi, onde non egli ad altri, bensì altri a lui doveva farne pagare le pene. E questo come vero in massima si trovava verissimo in pratica, essendochè i popoli non fossero venuti meno alle difese, nè alla devozione; mancò il duca al popolo non il popolo al duca; anzi Chieri abbandonato si difese per modo, che quando il presidio ne uscì gli uomini e le donne pei patimenti sofferti parevano fantasmi; a Rivoli, disertate le sue campagne, vide morire mille persone, tra cui molte per fame, e tre soli nascere. Cuneo respinse l'assedio dei Francesi, affaticandocisi dintorno non pure gli uomini, ma le donne altresì, tra le quali famose Giovanna sorella al conte di Etremont, ed Eleonora dei Rabìa; la terra della Trinità in pena del pertinace soccorso apportato a Cuneo rimase dall'Annibault quasi distrutta: la difesa di Nizza, e il valore della Segurana conosca il mondo così, che ogni parola intorno a quella parrebbe soverchia.—La tirannica ingratitudine di Emanuele Filiberto tanto più offende ogni senso morale, che proprio contro la volontà espressa di Carlo III, suo padre, i Nizzardi gli salvarono Nizza, e lui. «In queste strette, attesta il Ricotti Storia della Monarchici piemontese l. 4 p. 252, l'ardire e la fedeltà dei cittadini di Nizza, e dei soldati parte Piemontesi, e parte Savoini, che presidiavano il castello, salvarono il Duca, e forse la monarchia.» Intimati dal Duca di consegnare Nizza al Papa Paolo III, ovvero allo Imperatore Carlo V. i Nizzardi rispondono: essersi dati a patto, che non venissero mai ceduti nè alienati senza il consentimento loro; e dove questo accadesse essersi riservati il diritto di resistere con le armi, e tanto oggi essere risoluti fare, e senza dare tempo alle risposte gridando: Savoia! costrinsero quel duca dappoco a tacersi scornato. Il presidio del castello preso odore che i Signori di Musinese e di Bourges, quegli capitano, e questi luogotenente volessero tradire, e forse era sospetto, li cacciarono via non senza un carpiccio delle buone; poi udendo che il Padre Carlo aveva menato il figliuoletto Emanuele Filiberto al bacio dei santi piedi di Paolo III padre di Pierluigi Farnese proruppero a furia sotto la guida di Aimone di Lullin, e di Grato di Provana, lo ripresero, e menatolo in castello giurarono difenderlo, finchè il fiato reggesse. Questo singolare duca di Savoia di certo non pensava a riunire sotto la sua dominazione la Italia, dacchè ponesse tanta smania a sottoporre i suoi sudditi alla straniera dominazione quanto altri ne mette ora a liberarneli, per modo che non contento se non si provava all'ultimo cimento, raccolti così soldati come cittadini Nizzardi nella piazza di San Giovanni egli prese a dire: «ma, signori, voi siete sudditi miei; io sono vostro principe e signore, o perchè dunque non volete, che il papa e lo imperatore alloggino nella città e nel castello quando ve lo dico io?» Risposero: «voi siete nostro signore, e sarete; viva Savoia!» e più pertinaci, che mai di non volere ammettere persona se ne andarono via: della quale risoluzione vivendo il duca in ansietà grande ebbe dal Provana il conforto di queste parole: «Non si dia pena Eccellenza, che questa volta le rape di Savoia, il burro di Piemonte, e il porco salato di Nizza hanno fatto insieme una pietanza, che ne anco il diavolo ne mangerebbe.» Emanuele Filiberto molti anni dopo, aggiunge il Ricotti su le testimonianze del Lambert, e del Gioffredo, confessava all'ambasciatore di Venezia avere potuto conoscere sicuramente che Carlo V. voleva rubargli Nizza per servirsene con Villafranca per iscala da passare dalla Spagna in Italia. Io non aggiungo parola però che mi parrebbe sciupare la impressione, che arreca tanto mostruosa ingratitudine. E nè manco era vero, che il duca avesse ricuperato il Piemonte con la virtù delle sue armi; egli lo riebbe per rimbalzo delle guerre con varia fortuna combattute tra Francia, Spagna ed Inghilterra; il trattato di Castello Cambresi non restituì ad Emanuele Filiberto nè tutti, nè definitivamente i suoi stati; la Francia conservò le piazze di Torino, di Chivasso, di Villanova, di Asti, di Chieri, e di Pinerolo obbligandosi a restituirle dopo assettate le sue differenze col duca per via di congressi, o di arbitri; e ciò avvenendo la Francia arebbe smantellato del Piemonte e della Savoia le piazze, che le sarebbe parso. La Spagna per converso terrebbe presidio in Asti e Vercelli finchè non isgombrasse la Francia. Inoltre toccò a Emanuele Filiberto, giovane di trentuno anno, chiudere gli occhi e mandare giù la pillola amara della moglie Margarita sorella del re di Francia donna attempata di 40 e più anni; nè questo è tutto: Nizza, la prode, e fedelissima Nizza, allora, come ai dì nostri, turpemente sagrificata imperciocchè pel trattato di Grudendal tra Filippo II e il duca rimanesse stabilito che il re metterebbe e pagherebbe il presidio del castello di Nizza, e dei forti di Villafranca; darebbe in dote 60 mila scudi a donna Maria figliuola naturale del duca: i castellani giurerebbero fedeltà al re e al duca, e morendo questi senza eredi il re diventerebbe assoluto padrone di coteste terre.—Gli scrittori piemontesi confessano siffatto accordo frutterebbe a Emanuele Filiberto eterna infamia, se la ineluttabile necessità non lo scusasse;—dacchè, essi aggiungono, il duca non avesse parte nel congresso, e fosse del tutto in balia della Spagna, salvo lo aiuto che per emulazione gli potesse venire dalla Francia; la quale cosa posto, che sia, come la raccontano, gli è falso espressamente il pretesto, ch'egli allegava per dominare assoluto, la liberazione dei suoi stati dal dominio straniero per virtù di arme.

Nè gli scrittori piemontesi negano questo; al contrario facilmente confessano, che sul cominciare del secolo decimosesto il difetto di coltura non era compensato con la gloria delle armi, le quali erano misere ed incerte; e la difesa dello stato non usciva già dalla copia, nè dalla prodezza delle milizie paesane, bensì dal danaro proprio, e dall'avarizia altrui.—

Ma non è vero, che negli altri stati d'Italia si procedesse a quel modo; anzi il vero è al contrario, nè gli stessi Scrittori piemontesi lo ignorano, dacchè lo stesso Ricotti nella Storia delle Compagnie di ventura in Italia ci attesti Firenze e Orvieto fino dal 1350 avere istituito i balestrieri del contado per affrancarsi dalla infamia della milizia mercenaria; e Venezia più tardi con l'ordinamento delle cerne; ed altri altrove; ma più che tutti da capo Firenze la quale a' conforti di Antonio Giacomino Tebalduccio, e di Niccolò Macchiavelli instituì nel 1506[1] la ordinanza della milizia fiorentina con le prescrizioni, e norme che si leggono per le storie, e da prima furono diecimila nel contado di Firenze solamente fanti, sei anni dopo si fecero anco cavalli nel numero di 500. Questa abolita dalla tirannide dei Medici, ecco Giovanni dalle Bande nere formare la stupenda milizia di cui la memoria ancora non langue, e sicuramente coll'occulto concetto di stabilirla arnese per acquistare gagliardo stato in Italia, e difenderlo contro ogni straniera soperchieria; da questa onorata scuola, cessata la tirannide medicea, risorsero le milizie fiorentine, e furono spartite in milizie del contado disposte in trenta battaglie, ed in milizie di città in quattro bande una per quartiere, ed ogni banda in quattro compagnie con sedici gonfaloni in tutto; da prima cavaronsi dagli uomini di diciotto fino a trentasei anni, e se n'ebbe un tremila all'incirca, ma forse più che meno nella sola città; più tardi si presero da diciotto fino a cinquantacinque anni, e in tutto se n'ebbe un cinquemila.—Nella vita di Francesco Ferruccio mi sono ingegnato quanto meglio ho potuto discorrere di questa gloriosa milizia, la quale non si mostrava come apparivano i soldati piemontesi allora pigri, grossieri, contennendi, e vili bensì tali che il Ricotti medesimo confessa: «colla modestia, e con la esattezza sia nel comandare sia nell'obbedire, con la perizia delle mosse, con la ricchezza delle vesti, e delle armi, non meno che con la concordia, ed unione diventò in breve soggetto di maraviglia ai più vecchi soldati[2].» Nè per questo solo ella fu maraviglia ai presenti, ed onorata memoria ai futuri, bensì per ferocia di magnanimi propositi, e per valore inclito.—

[1] Scritti inediti di N. Macchiavelli risguardanti la storia e la milizia, illustrati da G. Canestrini.

[2] Op. cit. p. 6. cap. 3.

Io non riporterò la testimonianza di scrittori fiorentini come quelli i quali si potrebbe per avventura supporre che procedessero parzialmente, ma sì di Carlo Capello oratore veneziano del pari che degli altri dei quali mi valsi per giudicare la qualità delle armi piemontesi; costui pertanto, scrivendo al serenissimo Doge gli afferma: «tuttavia non si perdono di animo e sempre con maggiore costanza si confermano in volere ovvero conseguire la libertà, ovvero portarsi di sorte, che se la perdono, speso, e consumato tutto l'avere loro non vi sopravviva alcuno, e solamente si dica: qui fu Firenze.[1] «E quanto più il pericolo stringe tanto maggiormente s'intorano a mettersi ad ogni sbaraglio. «Tanta, scrive il medesimo oratore il 14 Luglio 1530, è la costanza degli animi di ciascuno, tanto indurata la ostinazione di volere liberarsi che hanno deliberato pubblicamente patire ogni estremità, e subito, che il Ferruccio si scopra… uscire della città con tutta la gente di guerra e con quelli della milizia cittadina, e combattere e così vincere ovvero insieme con la vita perdere il tutto avendo determinato, che quelli che resteranno alla custodia delle porte, e dei ripari, se per caso avverso la gente della città fosse rotta abbiano con le mani loro ad uccidere le donne ed i figliuoli, e por fuoco alle case, e poi uscire alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta la città, non vi resti se non la memoria della grandezza degli animi di quella, e che sieno d'immortale esempio a coloro, che sono nati, e desiderano di vivere liberamente.»

[1] Lettere alla rep. di Venezia dell'Oratore Cav. C. Capello, Firenze 26 Novembre 1529.

Che se questa deliberazione, la quale non ha riscontro nelle storie, tranne nella giudaica, dove gli Ebrei difesero Gerusalemme da Tito imperatore menzogna di umanità, non sortì il suo effetto, il mondo lo sa, vuolsi attribuire alla codarda avarizia degli Ottimati, i quali allora adoperavano come la setta dei Moderati adesso, e al tradimento di Malatesta, il quale, come disse Matteo Dandolo allo ambasciatore del Duca di Urbino:—ha venduto quel popolo, e quella città, e il sangue di quei poveri cittadini, a oncia, a oncia.

Dopo cotesta epoca illustre, e lacrimevole non vale, per opinione mia, il pregio ricordare milizia italiana: entriamo nei tempi in cui il Filicaia lanciò nella serva Italia i due sonetti pari a due gridi di dolore, che c'introneranno perpetuo gli orecchi, finchè ella non sia tutta sgombra dagli stranieri.

—. . . . . Del non tuo ferro cinta «Pugnar col braccio di straniere genti «Per servir sempre o vincitrice, o vinta:

Quando la Francia si avventò alle alpi repubblicana in vista, ladra in fatti e tiranna, i Piemontesi o soli, o in compagnia degli Austriaci davvero mala prova fecero, nè possono cavarne argomento ad esercitare egemonìa.

Nel 1848 le armi piemontesi sembra che avessero virtù finchè mantennero l'ardore di che l'avevano arroventate lo entusiasmo popolare, e l'ira; poi giù giù illanguidiscono, e disperdonsi nello sbandamento più che battaglia, ed anco rotta di Custoza.—Nel 1849 Novara.

E Novara fu troppo peggio che sbandamento, se come allora la fama porse, e registrò la storia, si ebbe a chiamare presidio nemico per salvare la città dalla rapina dei nostri. Chè se le rapine novaresi taluno negasse oltre le testimonianze degli scritti io non saprei altrimenti provarle, non però delle genovesi di cui io stesso vidi i vestigi, ed udii i deplorabili racconti; nè valore, nè resistenza scusano, imperciocchè nè prodezza propria, nè gagliarda difesa, la quale è pure prova di animo generoso che vuolsi dai soldati massimamente onorare scusano le ladronaie; e per queste vanno offuscati i nomi d'altronde chiarissimi del Malboururgh antico, di Massena, di Soult; ed in ispecie del Rusca piemontese, della cui avara crudeltà si conservano memorie singolari[1].

[1] I suoi soldati un dì sorpresi da lui su l'atto di rubare un maiale senza turbarsi gli dissero seriamente: «Generale, lo rubavamo per voi.» E il Rusca non meno seriamente rispose: «io non ho bisogno che alcuno rubi per me.» Che sia benedetto! almeno non si nascondeva, all'opposto lo bandiva da se; di vero trovandosi a mensa con parecchi ufficiali ecco arrivare il fattorino della posta con lettere per parecchi fra loro; chiestasi e data scambievolmente licenza le lessero e trovarono come Napoleone desse ad ognuno o pensione annua, o dono; anche il Rusca ebbe la lettera e ci trovò lodi molte, e quattrini punti di che seco lui dolendosi i commilitoni egli gl'interruppe dicendo: «Ma no, signori, lo imperatore ha operato da quel savio uomo ch'egli è; ei sa benissimo che il fatto mio lo so fare da me!»

E mentre combatteste voi, forse gli altri Italiani filavano? Comecchè raccolti tumultuariamente, nè soldati come voi altri in genere, in numero, e caso con tutte le regole forse non seppero i volontari combattere, morire, e vincere?—Perchè mai si licenziarono quasi gente immonda? E perchè a disfarli fu speso maggiore moneta, che non impiegarono a farli? E soldati sembra a voi che sarebbero quelli i quali voi v'ingegnate plasticare sul vostro modello? Hanno a difendere la Patria, e di Patria nulla hanno da sapere; li presumete soldati cittadini e li pretendete tali in procinto di avventarsi in battaglia, sentano lo sprone delle parole concitate del Capitano, e proibite poi che apprendano, più ancora, che ammirino i gesti degl'illustri capitani del popolo. Col popolo di cui sono sangue, e nel quale, superstiti, avranno a rientrare non piglino usanza; ne stieno appartati, dimentichino sè essere figli, o fratelli; soldati unicamente hanno da diventare; ma in cotesto modo educansi gladiatori non già soldati italiani; così si allevano i mastini affinchè guardino gli orti dai ladri non s'instituisce milizia onore a un punto e tutela della Patria.—Grave fatto è questo e come pieno d'ingiusta diffidenza così a Dio non piaccia, che partorisca funestissimi effetti: dunque temete che il popolo vi contamini i soldati? dunque o il popolo non più si accorda con voi, o voi col popolo? Eppure cotesto popolo volle liberissimo ieri il regno italico con a capo il reale di Savoia. Come! ieri consenso, ed oggi forza? Di già a questo? Ma i reami abbattuti quale altra legge avevano tranne la forza? E non bandiste voi, proprio voi, che un governo il quale si appoggia alla forza ormai non ha più causa, nè ragione di vita?

E tacendo del valore delle armi nè manco gli ordinamenti militari vostri paiono così saldi da presumere in grazia di questi la egemonìa sopra gli altri italiani, imperciocchè non entrando nel ginepraio del come si spenda il danaro, noi vediamo fare, e disfare la tela dello esercito, secondochè mutano di tessitore; ed anco qui prego Dio, che non voglia, che invece di tessere una veste nuziale, il Ministro o piuttosto i Ministri non ci ammanniscano una Sindone, la quale sarebbe causa non già di adorazione, bensì di esecrazione perpetua.

Insomma se i Piemontesi sè amano e noi, e lo vogliamo credere, importa, che smettano il vezzo di presumere sè chioccia, e noi uova da lasciarci covare. Noi non patiremo certo nè tribù di Levi, ne tribù di Beniamino: fratelli vi amiamo, compagni vi accettiamo, disuguali no, molto meno padroni. Se la casa di Savoia diè lo Statuto al regno, ricordate come non fosse concessione sibbene restituzione; se lo mantenne Vittorio Emanuele il cuore e il senno lo sovvennero nello adempimento del debito suo, e n'ebbe rimerito di fama, titolo unico tra quanti apparvero principi sopra la terra, riconoscenza di popoli, e stato, che lo renderà superiore a molti potentati, inferiore ad alcuno. Nè noi neghiamo, anzi confessiamo volentieri, non mediocre conforto essere venuto agli spiriti liberali d'Italia vedere sempre ritta la bandiera italica in Piemonte, comecchè spesso pendente già lungo la stacca a mo' di vela nelle uggiose calme dell'Atlantico; e confessiamo altresì che quivi il talento per volere sia stato pari alla fortuna per potere, dacchè se la vostra terra non si fosse distesa oltre il crine delle Alpi, e a verun patto potesse sopportarla la Francia in mano all'Austria, voi come noi avreste dovuto con la morte nel cuore piegare il collo alla maligna onnipotenza dei fati. Come no? Perchè lo neghereste prosuntuosi? Le mura di Alessandria non rimasero contaminate da presidio tedesco?

Comprendo ottimamente avere a sonare le mie parole rudi; e giova appunto che sia così; gli adulatori dei popoli più funesti due cotanti, che quelli di un re, avvegnadio questi possa cessare da un punto all'altro, e allora morta la vipera spento il veleno, mentre il popolo forse dura fino alla consumazione dei secoli. Callimaco Esperiente nella vita di Attila racconta come il poeta Marullo avendo composto un poema (immaginate che poema!) in lode di cotesto Unno glielo presentasse a Padova fiducioso di premio, ma quando Attila seppe come costui lo facesse derivare da Dio, e lui medesimo salutasse Dio ordinò che poema, e poeta gittassero sul fuoco; ora il popolo nostro civile si approfitti dello esempio del condottiero barbaro emendandolo secondo la ragione dei tempi; lasci stare il fuoco, ma un tuffo nell'acqua ai suoi adulatori lo potrebbe dare. Io parlo per dire il vero, non per odio di altrui, nè per disprezzo, e se paleso animoso le gozzaie, mi muove studio di ovviare che intristiscano, anzi scompaiano. Fatuità somma credere, come oggi si costuma, che negando un danno possa torsi che sia: così quando schiamazzano la Italia è ricca confidano, che ciò empia le casse; ovvero la Italia ormai non può più disfarsi, e con questo pensano averla assicurata con nodo indissolubile: se simile insania non fosse per partorire funestissimi mali non varrebbe il pregio riprenderla, e nè anco indicarla, ma all'opposto io temo, che possa disfarsi perdendo occasione, che forse non si presenterebbe per più secoli a questa parte. Il passaggio in mezzo alle rivoluzioni assai si rassomiglia alla prova del fuoco, dove se ci era via a salvamento consisteva nel traversare del campione tutto, e di rincorsa, lo spazio incendiato. E bazza se allora le scottature erano poche! Se si fermava un'attimo, di lui non rinvenivi nè manco la cenere. Nei primi tempi delle rivoluzioni molti interessi laceri, o coperto, o palese travagliano lo stato novello; e da per tutto vedi scompiglio: ora preme più che mai in questo periodo climaterico l'universale trovi qualche compenso ai patimenti inevitabili; se gli assottigli il pane e tu ministragli copia più larga di libertà; se esigi piamente spietato il tributo di sangue, e tu mostra, ch'egli è per francare la Patria dalla dominazione straniera; la contentezza futura fa toccare con mano, che uscirà dal seme del disagio presente; i membri sparsi di un popolo ridotti come fratelli in una famiglia sola non pure soddisfano al precetto della religione, non pure all'ultimo provvederanno alla pubblica ed alla privata economia, ma altresì acquisteranno la potenza in ogni tempo necessaria, non già (Dio ne guardi!) ad offendere altrui, sì bene a difendere noi stessi. La divisione nostra risponde al Tedesco confitto nella Venezia, allo Spielberg, alle verghe, alle forche, alle fucilazioni, e forse, più amaro che questo, agli strazi quotidiani della gente galla.

Lo assedio di Roma

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