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LA VITA DI GIULIANO

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Flavio Claudio Giuliano, nacque nel 331, in Costantinopoli, da Giulio Costanzo, fratello dell'imperatore Costantino e da Basilina, che apparteneva ad una nobile famiglia bitinica, congiunta con uno dei principi della Chiesa, Eusebio, vescovo prima di Nicomedia, poi di Costantinopoli. La madre moriva pochi mesi dopo la nascita del figlio, che perdeva anche il padre, quando appena aveva compiuti i sei anni. L'imperatore Costantino, morendo nel 337, lasciava tre figli, Costantino, Costanzo e Costante. Questi tre figli, degni di un padre il quale, sebbene avesse abbracciato il Cristianesimo, eguagliava per la disinvoltura nei delitti domestici, i più efferati dei suoi predecessori13, iniziarono il regno con lo sterminio dei parenti, di Giulio Costanzo, loro zio e padre di Giuliano, del figlio maggiore di costui, di un altro zio, e di tre cugini, figli di un altro fratello di Costantino.

La responsabilità di tali delitti pesa tutta su Costanzo, [pg!22] a cui era toccato il governo dell'Oriente e che risiedeva a Costantinopoli, dove avvenne la strage. Costanzo ha cercato più tardi di scusarsi di quell'orribile misfatto, di cui si pentiva, attribuendone la causa ad una rivolta militare14. Ma la scusa non è ammissibile, perchè l'esercito non aveva nessun interesse nella scomparsa di quegli eventuali pretendenti, mentre Costanzo, per natura sospettoso di tutti e di tutto, e traviato da cortigiani che volevano guadagnarsene l'animo e la fiducia, doveva facilmente essere indotto ad un delitto che, del resto, era nelle tradizioni della famiglia. E, se anche si volesse tener per valida la frase di Eutropio, il quale dice che la cosa avvenne Costantio sinente potius quam iubente, è chiaro che si avrebbe affermata una di quelle ipocrisie che salvano le apparenze, ma lasciano intatta la realtà.

Non furono risparmiati, in questo eccidio, che i due ultimi figli di Giulio Costanzo, Gallo e Giuliano, ritenuti, pel momento, innocui per la loro tenera età. «Costantino — scrive Libanio — morì di malattia, ma la spada fece strage di tutta la sua famiglia, tanto dei padri quanto dei figli. Il fratellastro di Giuliano, maggiore d'anni di lui, scampò dall'eccidio, salvato da un'infermità che si credeva gli avrebbe data la morte, Giuliano dall'età, perchè appena slattato»15. Qui c'è una grave inesattezza, perchè Giuliano, nato nel 331, aveva sei anni alla morte di Costantino.

Quei tre scellerati Costantiniani vennero ben presto alle mani fra di loro. Costantino fu ucciso nel 340. [pg!23] Rimasero Costante che tenne per sè l'Occidente, e Costanzo che regnò sull'Oriente, finchè, ucciso anche Costante dall'usurpatore Magnenzio nel 350, Costanzo ebbe nelle sue mani tutto l'impero.

Durante questi tragici avvenimenti, il piccolo Giuliano cresceva a Costantinopoli, presso la famiglia materna, educato, come narra Ammiano, sotto la direzione del vescovo Eusebio di cui era lontano parente16. Se non che, assai più che l'influenza del vescovo, sentì quella del pedagogo a cui fu affidato all'età di sette anni, ed a cui, certo, è dovuta la prima piega del suo spirito impressionabile e vivace. Quel pedagogo era un eunuco, già vecchio assai, che l'avo di Giuliano, come questi ci narra nel Misobarba17, aveva dato maestro a Basilina, la madre di Giuliano, [pg!24] quando era fanciulla, onde guidarla nella lettura di Omero e di Esiodo. Mardonio, così si chiamava, doveva essere un letterato pieno di ammirazione per la coltura e per le tradizioni elleniche. Libanio lo chiama «insigne custode di sapienza»18. Nella frivola e cristiana Costantinopoli, costui cercava di avviare il discepolo all'esercizio delle più severe virtù, opponendo alle abitudini corrotte e molli del mondo in cui viveva il rigore ideale della filosofia e della saggezza ellenica.

Ma qui noi lasceremo la parola allo stesso Giuliano, il quale, nel Misobarba, ci fa una vivace descrizione del sistema educativo, tenuto con lui dal suo pedagogo. Onde dare al lettore la possibilità di comprendere, nel suo vero significato, questo brano interessante, dobbiamo dirgli, precorrendo le future analisi, che il Misobarba è una satira pungente diretta dallo sdegnato imperatore contro gli abitanti di Antiochia, a cui egli era venuto in uggia per la severità dei suoi costumi. Non bisogna, dunque, dimenticare che il discorso di Giuliano è ironico dalla prima all'ultima parola. «A me — dice Giuliano agli Antiochesi, deplorando ironicamente l'educazione avuta — l'abitudine non permette di lanciare d'ogni parte tenere occhiate, onde parervi bello, non nell'anima, ma nel volto. Eppure, voi avete ragione! I molli costumi sono la vera bellezza dell'anima. Ma il mio pedagogo mi insegnò a tenere gli occhi a terra, quando andavo a scuola. Io non vidi mai teatro prima che avessi il mento chiomato più del capo. E mai, per fatto mio, ma, tre o quattro volte, per ordine dell'imperatore mio parente. Perdonatemi dunque. Io offro al vostro [pg!25] odio chi lo merita più di me, il mio uggioso pedagogo, il quale, anche allora, già mi contristava, insegnandomi a battere una sola strada. Egli è il vero colpevole del contrasto in cui mi trovo con voi, perchè egli elaborava e quasi scolpiva, nell'anima mia, ciò che allora non era affatto di mio gusto, ma che, a forza d'insistere, finì per farmi parer gradito, abituandomi a chiamare serietà l'essere rozzo, saggezza l'essere insensibile, e forza d'animo il resistere alle passioni, e il non trovarvi piacere alcuno. Figuratevi che, spesso, per Giove e per le Muse, quel mio pedagogo, mi ammoniva, quando era ancor fanciulletto, dicendomi: — Non lasciarti trascinare dai tuoi coetanei, che frequentano i teatri, ad appassionarti per gli spettacoli. Ami le corse dei cavalli? Ve ne ha una bellissima in Omero. Prendi il libro e leggi. Ti parlano di mimi e di danzatori? Lascia dire. Danzano assai meglio i giovanetti Feaci. E là tu troverai il citarista Femio ed il cantore Demodoco. E il leggere, in Omero, certe descrizioni d'alberi è più dilettevole che il vederli nel vero. Io vidi a Delo, presso l'ara d'Apollo, un rampollo giovinetto di palma erigersi al cielo. E leggerai della selvosa isola di Calipso, dell'antro di Circe, e del giardino di Alcinoo. Tu ben sai che nulla di più bello potrai mai vedere.

«Forse, voi desiderate che io vi dica il nome e l'origine di quel mio pedagogo. Egli era barbaro, per gli dei e per le dee. Scita d'origine, ed aveva il nome di colui che persuase Serse a far guerra alla Grecia. Portava quella qualifica, tanto onorata e rispettata venti mesi or sono, ora adoperata per offesa e per disprezzo, voglio dire ch'egli era eunuco, allevato dal mio avo, onde spiegasse a [pg!26] mia madre i poemi di Omero e di Esiodo... Avevo sette anni quando fui dato a costui. Da quel giorno, egli mi educò, seguendo sempre un sol metodo d'insegnamento. E, non volendo, egli stesso, conoscerne altri, e non permettendolo a me, riuscì a rendermi odioso a voi tutti. Ma ora, finalmente, se vi pare, libiamo alla sua memoria e facciamo pace. Egli non sapeva che io sarei venuto a voi, nè, dato anche che io venissi, che avrei avuto un tanto impero, quale me lo diedero gli dei, facendo violenza, credetemelo, ed a chi doveva trasmetterlo, ed a chi doveva riceverlo... Ma si faccia la volontà degli dei. Forse se il pedagogo avesse previsto tutto ciò, avrebbe preso qualche provvedimento, affinchè io potessi sembrarvi aggraziato. Ma ora come mi sarebbe possibile deporre e dimenticare quelle rozze abitudini che furono coltivate in me? L'abitudine, si dice, è una seconda natura. Combattere la natura, è grave cosa, distruggere il lavoro di trent'anni è più grave ancora, sopratutto quando è stato compiuto con tanta fermezza. — E sia così — imagina Giuliano che gli rispondano gli Antiochesi — ma perchè mai ti viene in mente di ingerirti negli affari e di far da giudice? Certo anche questo non ti insegnò il pedagogo, il quale non sapeva che tu avresti regnato. — Mi ammaestrò — risponde Giuliano con acerba ironia — quel vecchio esecrabile, che voi, ben a ragione, vituperate, come il vero responsale della mia condotta19. Ma sappiate che lui pure era ingannato da [pg!27] altri. Certo, più volte, nella commedia, giunsero a voi questi nomi, Platone, Socrate, Aristotele, Teofrasto. Ebbene, quel vecchio stolido, persuaso da costoro, persuase me pure, quando era giovinetto ed amante dello studio, che, se io fossi diventato, in ogni cosa, loro imitatore, sarei, insieme, diventato migliore di ogni altro uomo»20. Da questo brano tanto interessante ed avvivato dalla più pungente ironia, risulta che il vecchio Mardonio educava il suo allievo imperiale in un'aura di puro ellenismo. Nessun precetto, nessun esempio cristiano era posto davanti al fanciullo, il quale si abituava a vedere l'origine di ogni virtù negli insegnamenti degli antichi poeti e pensatori del Politeismo, e la causa della decadenza, della corruzione e del vizio nel prevalere del Cristianesimo, quale a lui si rivelava nel mondo ecclesiastico e cortigiano di Costantinopoli. Questa educazione spiega il nascere delle prime tendenze del fanciullo, ed è la chiave della frase di Ammiano che ci dice come: a rudimentis pueritiæ primis inclinatior erat erga numinum cultum, paulatimque adulescens desiderio rei flagrabat21.

Questa educazione, che doveva lasciar tracce profonde nell'animo impressionabile del fanciullo, fu presto interrotta. Morto, nel 342, il vescovo Eusebio che aveva l'ufficiale sorveglianza del piccolo principe, sorveglianza, del resto, da lui esercitata in modo affatto superficiale, così da non accorgersi che il pedagogo segretamente piegava l'animo dell'allievo all'antipatia pel Cristianesimo, l'imperatore, pauroso, fors'anche, [pg!28] di veder sorgere un rivale nel fanciullo che cresceva sotto gli occhi di tutti, nella capitale dell'impero, lo mandava insieme al fratello Gallo, salvato, lui pure, dall'eccidio dei Costantiniani, in una specie di reclusione, in un solitario castello della Cappadocia, chiamato Macello, descritto dallo storico ecclesiastico Sozomene come un luogo di delizie22. I due giovanetti vissero sei anni in quel ritiro, circondati da schiere di servi, ma fuori affatto del movimento intellettuale e politico del mondo. Giuliano ricorda quegli anni con grande amarezza nel suo discorso agli Ateniesi. «Che dirò io di quei sei anni, passati in un podere altrui, senza che nessun estraneo potesse avvicinarsi a noi, o che potesse avvicinarci alcuno dei nostri antichi conoscenti? Vivevamo esclusi da ogni efficace insegnamento, da ogni libera conversazione, nutriti fra lo splendore dei servizi domestici, ma costretti ad esercitarci coi nostri servi, come se fossero nostri compagni, poichè nessun nostro coetaneo era ammesso vicino a noi»23. Giuliano osserva che, mentre suo fratello Gallo, in conseguenza delle abitudini, prese in quel soggiorno, divenne rozzo e violento, egli fu salvato dal germe di filosofia, e vuol dire di dottrina ellenica, che già esisteva in lui. Ma non dobbiamo prendere letteralmente le parole di Giuliano. Se era vero che la splendida prigione dei due giovani era chiusa ad ogni soffio di influenza filosofica e politeista, pare, invece, che, intorno ad essi, energicamente si esercitasse l'insegnamento dottrinale del Cristianesimo.

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È assai interessante il leggere ciò che dice della reclusione dei due principi Gregorio di Nazianzo. Non è possibile una più recisa contraddizione con le affermazioni di Giuliano, non è possibile un più radicale travisamento della verità, per intento polemico. Gregorio rappresenta il perfido Costanzo come un modello di bontà, e Giuliano come un mostro d'ingratitudine. Ora, quando si ricorda che Costanzo, oltre ai suoi delitti domestici, alla sua condotta crudele, determinata dall'influenza dei cortigiani e degli eunuchi, era stato il più forte sostenitore dell'Arianesimo, per lui trionfante, possiamo misurare dalle lodi che Gregorio gli profonde, mentre avrebbe meritato i più acerbi rimproveri da parte di un Cristiano, e Cristiano ortodosso, tutta l'ira feroce che il tentativo di Giuliano aveva sollevata nei dominatori della Chiesa, i quali hanno, per un istante, paventato di perdere la vittoria, a sì caro prezzo acquistata.

Narra dunque Gregorio24 che Costanzo aveva voluto salvare Gallo e Giuliano dall'eccidio di tutti gli altri Costantiniani, avvenuto senza che egli ne avesse colpa, onde farsene compagni ed aiuto nell'esercizio dell'impero. Pertanto l'umanissimo imperatore li fece educare, con tutto lo splendore di un trattamento regale, in una delle sue ville — così descrive Gregorio il domicilio coatto di Macello — circondandoli con uomini sapienti e religiosi. E i due giovanetti erano tanto infervorati nel culto divino da assumere gli uffici del clero, così che leggevano al popolo congregato i libri sacri, e dimostravano uno zelo speciale nel culto dei martiri. Se non che Gallo — dice [pg!30] Gregorio — violento nell'indole, era sincero nella sua pietà. Giuliano, invece, nascondeva, sotto l'apparente devozione, le perfide tendenze dell'animo25. E Gregorio racconta una storia miracolosa. I due fanciulli, Gallo e Giuliano, si erano accinti a costrurre due santuari ai martiri, gareggiando nel dispendio e nel lavoro. L'opera di Gallo fu presto condotta a compimento, ma quella di Giuliano veniva sempre interrotta, perchè sconquassata dai movimenti del suolo, indizio che i martiri rifiutavano l'omaggio di chi doveva più tardi rinnegarli. I due fratelli si esercitavano anche in dispute retoriche e filosofiche, e Giuliano prendeva sempre, e con calore più vivo del conveniente, la parte dell'Ellenismo, col pretesto di esercitarsi a trovare argomenti per la tesi più debole, ma, in realtà, per esercitarsi a combattere la verità26. In mezzo alle esagerazioni ed alle leggende, si riscontra anche qui, come in quasi tutte le notizie di Gregorio, un fondo di verità; vi sono, nei suoi discorsi, dei lampi che danno alla figura di Giuliano un rilievo vivente.

Che, del resto, l'alto clero cristiano non perdesse di vista quei rampolli imperiali, lo rileviamo da Giuliano stesso, il quale, in una lettera scritta quando già era imperatore, ricorda che il vescovo Giorgio d'Alessandria gli mandava a Macello, ond'egli li ricopiasse, alcuni dei volumi della sua ricca biblioteca27. È strano, assai strano che questa educazione, esclusivamente cristiana, continuata per un quinquennio, [pg!31] abbia, bensì, servito a dare a Giuliano una conoscenza singolarmente profonda dei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma, insieme, non sia riuscita che ad acuire, nell'animo del giovanetto, l'antipatia per la religione in cui veniva allevato. Ciò non può spiegarsi che, per la spaventosa corruzione in cui era caduto, in Oriente, il Cristianesimo ariano. Ariano era Costanzo, ariani i prelati che frequentavano la corte e che occupavano le sedi più cospicue. E si comprende come l'animo di Giuliano, già imbevuto degli austeri insegnamenti del suo pedagogo Mardonio, e già inclinato a veder nell'Ellenismo la fonte di una pura, perfetta moralità, si sollevasse indignato contro lo spettacolo a cui assisteva e coltivasse, nel segreto dell'anima, mentre prendeva parte ai servizii del culto cristiano, propositi di rivolta. Se, invece di un Eusebio, di un Giorgio e degli altri ecclesiastici ariani che lo circondavano, egli fosse venuto a contatto con un Atanasio, con un Ambrogio, con un uomo, infine, che sapesse tener immune il Cristianesimo dai veleni inquinatori del tempo, forse si sarebbe volto da tutt'altra parte di quella che ha preferita. Lo stesso odio che, giunto al fastigio della potenza, e quando già era irremissibilmente compromesso, sentì per Atanasio, il solo personaggio cristiano, contro il quale, come vedremo più tardi, iniziasse un procedimento di persecuzione, ci prova come egli sentisse tutta la differenza che esisteva fra il Cristianesimo ariano e l'ortodossia atanasiana e vedesse che quest'ultima costituiva lo scoglio contro cui avrebbe urtato la nave dell'Ellenismo.

Federico Rode, in un libriccino, tenue di mole, ma denso di pensiero e di erudizione28, non è di questo [pg!32] parere. Egli dice: «Anche fatta astrazione della circostanza che non già il vero Arianesimo, ma, bensì, l'Arianesimo temperato di Eusebio dominava alla Corte e quindi anche nell'educazione di Giuliano, dobbiamo insistere sulla circostanza che Giuliano, nella sua polemica, attacca non già l'Arianesimo, ma tutto il Cristianesimo ed anzi specialmente gli Atanasiani. È cosa affatto vana il discutere se Giuliano avrebbe potuto diventare proclive al vero insegnamento di Gesù, poichè dove, al suo tempo, avrebbe egli potuto trovare quell'insegnamento? Presso Atanasio, no di certo. Prevenendo la teologia critica del secolo decimonono, già Giuliano aveva constatata la grande differenza che correva fra il Cristo degli scritti primitivi del Nuovo Testamento e il Dio del Simbolo niceno».

Tutto ciò sarebbe vero se Giuliano avesse abbandonato il Cristianesimo, perchè si fosse urtato contro le difficoltà razionali che gli offriva la metafisica cristiana paragonata alla dottrina originaria di Gesù. Certo, in questo caso, l'ortodossia atanasiana non avrebbe giovato meglio dell'Arianesimo a tener in carreggiata lo spirito indagatore di Giuliano, anzi, gli sarebbe, forse, stata più aspra ad ingoiare. Ma Giuliano ritornò all'Ellenismo, non già per effetto di riflessioni filosofiche, ma per ragioni di sentimento, e, certo, una delle prime, fra queste, era il disgusto che gli metteva lo spettacolo della corruzione di cui il Cristianesimo era contaminato, corruzione riconosciuta eloquentemente dallo stesso Gregorio, il quale non esita ad affermare che i Cristiani perdettero nella prosperità la gloria acquistata nelle persecuzioni e nelle sciagure29.

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Ora, è innegabile che tale corruzione era assai più avanzata nell'Arianesimo, la religione della corte di Costanzo, che nell'ortodossia la quale si stringeva intorno alla grande figura di Atanasio. Nell'ortodossia il Cristianesimo aveva conservato una parte almeno della sua efficacia moralizzatrice, e, se questa efficacia si fosse esercitata, fin dai primordi dell'educazione, sullo spirito del giovanetto Giuliano, lo avrebbe forse guadagnato ad una religione che sarebbe stato costretto a rispettare.

Erano passati cinque anni dal principio della reclusione a Macello, quando l'imperatore Costanzo, mosso dalla difficoltà di tenere, nelle sole sue mani, tutto l'impero, cambiava, d'un tratto, di condotta verso i cugini, e chiamava il maggiore, Gallo, all'altissimo ufficio di Cesare, che, secondo la gerarchia stabilita da Diocleziano, voleva dire vice-imperatore, la prima figura nell'impero dopo quella dell'Augusto, del capo supremo. Giuliano, nello stesso tempo, era richiamato a Costantinopoli. Qui, a quel che ci narrano Socrate e Sozomene d'accordo con Libanio, gli si pose al fianco il sofista cristiano Ecebolio, un curioso personaggio, il quale passava, con tutta disinvoltura, dal Cristianesimo all'Ellenismo, a seconda degli umori dell'imperatore regnante30. Ecebolio seguiva gli ordini di Costanzo, ed, insieme agli eunuchi di corte, cercava di disciplinare l'ingegno inquieto dell'allievo, e ciò con grande dispiacere di Libanio, il quale avrebbe voluto [pg!34] spargere, lui, il buon seme in quell'anima generosa, e doveva, invece, constatare che un malvagio sofista era stato prezzolato ad infondere nel giovanetto il disprezzo degli dei31.

Se non che, i progressi di Giuliano negli studi e la simpatia ch'egli destava cominciarono ad insospettire Costanzo. «Temendo, dice Libanio, che una città grande, e che esercitava una grande influenza, non fosse sedotta dalle virtù del giovane, e ne venisse a lui qualche pericolo, si risolve di mandarlo a Nicomedia, che non presentava eguali pericoli, e gli diede facoltà di istruirsi». La paura è cattiva consigliera. Risoluzione più imprudente non poteva esser presa da Costanzo, perchè Nicomedia era allora il focolare principale dell'Ellenismo, e vi dimorava appunto Libanio, il principe dei retori del tempo, il leader, come or si direbbe, del partito ellenista, Libanio che, com'egli stesso dice, aveva preferita la pace serena di Nicomedia alla perigliosa tempesta di Costantinopoli. È vero che Costanzo, nel mandare Giuliano a Nicomedia, gli aveva imposto, dietro i consigli di Ecebolio, di non esser mai presente ai discorsi di Libanio. Ma il giovane entusiasta se li comperava scritti e li leggeva avidamente. Ed il retore, con una scusabile vanità, ci narra che era tanta la prontezza d'ingegno di Giuliano che, malgrado l'imposta separazione del maestro e del discepolo, questi riusciva ad imitarne lo stile, meglio degli scolari che gli stavano d'intorno, così che, anche negli scritti posteriori, si risente la parentela coi suoi32.

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All'influenza di Libanio un'altra si aggiungeva ancor più efficace, ed era quella dei filosofi neoplatonici, Edesio, Crisanzio, Eusebio, Massimo, il più importante di tutti, i quali vivevano in Nicomedia o in altre non lontane città dell'Asia. Qui è propriamente il momento psicologico della carriera di Giuliano. Presso quei filosofi, che lo iniziavano ad un sistema in cui la conservazione dell'antico si univa alla soddisfazione di quelle esigenze di pensiero che avevano promossa l'apparizione del Cristianesimo, e che poi il Cristianesimo stesso aveva rese più forti, il ventenne Giuliano sentì chiara ed irresistibile la sua vocazione, e si convertì con profondo entusiasmo al culto degli dei. Per quanto la cosa fosse tenuta segreta, pur qualche indizio ne trapelava. «Dalla bocca d'ogni ben pensante, esclama Libanio, s'innalzava la preghiera che quel giovanetto diventasse il signore dell'universo, e fermasse la rovina del mondo e soccorresse gli infermi, lui che sapeva risanarne i mali»33.

Libanio e Socrate si accordano nell'attribuire al filosofo Massimo il merito, secondo il primo, la colpa, secondo l'altro, della conversione di Giuliano. Massimo era ritenuto come un santo dal politeismo. Eunapio34 narra che, entrando egli una volta nel tempio di Diana, in Efeso, la statua della dea sorrise di compiacenza, e si accese la lampada ch'essa teneva in mano. Giuliano si esaltava in questa atmosfera di misticismo; ma doveva nascondere i suoi entusiasmi, perchè la notizia di ciò che faceva era giunta a Costanzo, il quale subito se ne insospettiva, e Giuliano, per non [pg!36] cadere in disgrazia, ciò che, sotto Costanzo, voleva dire essere trucidato, dovette riprendere nell'apparenza la vita e gli esercizi del cristiano. Ma il suo spirito era irremissibilmente compromesso nell'Ellenismo. Il seme che il vecchio Mardonio aveva deposto in lui, maturato dall'odio contro il persecutore della sua famiglia, dalla reazione contro il sistema di uggiosa compressione in cui era stato allevato, dal rimpianto delle glorie antiche che andavano svanendo, da un'aspirazione ad un'alta moralità che dal Cristianesimo cortigiano non poteva essere soddisfatta, aveva trovato nel Neoplatonismo dei suoi maestri, mescolanza curiosa, come vedremo a suo tempo, di razionalismo platonico e di misticismo superstizioso, l'ambiente opportuno per svolgersi e crescere, così da soffocare ogni altro rampollo intellettuale che in lui fosse stato trapiantato. Dal soggiorno in Nicomedia, nel 351, al giorno in cui partendo dalla Gallia, ribelle contro Costanzo, apertamente invocava gli dei dell'antico Olimpo, dovevano passare ben dieci anni. Ma, in questi dieci anni, il politeista ellenico, che rimase nascosto in Giuliano, attingeva, dal segreto, un crescente fervore, e non cessava un istante dal corroborarsi con maggiore fermezza nella presa risoluzione.

Giuliano rimase, per tre anni, tranquillo, assorto negli studi, quando nel 354, improvvisamente, si vide di nuovo travolto nei pericoli e nelle agitazioni. Costanzo, riprendendo le antiche abitudini, e prestando orecchio alle insinuazioni dei cortigiani che lo circondavano, faceva assassinare, a Pola, Gallo, il fratellastro [pg!37] di Giuliano, da lui, tre anni prima, chiamato alla dignità di Cesare. Nel suo manifesto agli Ateniesi, Giuliano parla, con ardente indignazione, di questo delitto di Costanzo. Egli ammette che Gallo fosse uomo rozzo e violento, ma ne attribuisce, come vedemmo, la causa all'educazione che aveva ricevuto. In ogni modo ciò non scusa la scelleraggine di Costanzo, il quale «per le istigazioni di un eunuco, di un ciambellano, e più ancora per quella del capo dei cuochi, consegnò ai suoi più feroci nemici, perchè lo uccidessero, il cugino, il Cesare, il marito di una sua sorella, il padre della nipotina, del quale egli stesso aveva prima sposata la sorella, al quale era legato da tanti doveri di parentela!»35. Lo sdegno di Giuliano è naturale e spiegabile. Però, per essere completamente nel vero, bisogna aggiungere, ciò che Giuliano tace od, in parte, attenua, onde colorire a suo modo il quadro, che Gallo era un vero Costantiniano, un uomo di una crudeltà stolta e sfrenata, il quale, nei pochi anni in cui ha governato l'Oriente, avendo al fianco la moglie Costantina, un vero demonio, degna figlia di Costantino e degna sorella di Costanzo, aveva sparso a torrenti il sangue. Ammiano dice che fra i due fratelli, Gallo e Giuliano, correva la medesima differenza che era corsa fra i figli di Vespasiano, di cui Tito era un esempio mirabile di temperanza e di saggezza, Domiziano un mostro di ferocia36.

Era naturale che Costanzo, avendo ucciso Gallo, non volesse lasciar libero Giuliano, e ne temesse le possibili vendette. Infatti, lo chiamava a Milano e lo [pg!38] teneva sette mesi sotto rigorosa custodia, e non sarebbe, certo, sfuggito alla morte, sebbene da gran tempo non avesse avuto relazioni col fratello, se, come egli ci dice «qualche dio, volendo salvarlo, non gli avesse procurata la benevolenza della bella e gentile Eusebia»37. L'intervento di Eusebia, la moglie dell'imperatore, dà un'aria romanzesca a questa parte della vita di Giuliano. L'entusiasmo con cui il perseguitato principe parla della sua protettrice, e il coraggio con cui essa seppe difenderlo dai numerosi nemici che Giuliano aveva fra i cortigiani di Costanzo, fanno credere che non solo la causa della giustizia e della pietà, virtù sconosciute alla corte dell'imperatore, ma un affetto più profondo e personale muovesse Eusebia nella sua provvidenziale iniziativa. Ammiano ci narra, lui pure38, che Giuliano sarebbe certamente perito, per le nefande istigazioni dei cortigiani — nefando adsentatorum cœtu perisset urgenter — se, per un'ispirazione divina, non fosse intervenuta Eusebia. Costei primieramente ottiene che Giuliano sia allontanato da Milano e mandato, per qualche tempo, a Como, poi finalmente riesce a persuadere Costanzo a concedergli un'udienza. La cosa non era facile perchè Costanzo stesso non pareva inchinevole al colloquio col cugino, e poi perchè il maestro del palazzo, eunuco potentissimo presso l'imperatore e nemico acerrimo di Giuliano, cercava di tirar le cose in lungo, pel timore che i due cugini nel vedersi, si riconciliassero39. Pare che, nell'udienza, Giuliano, certo, con l'aiuto [pg!39] di Eusebia che aveva preparato il terreno, riuscisse a scolparsi40. Il fatto è che fu rimandato libero, e che gli si permise di andare a ritirarsi in un piccolo podere di Bitinia, ereditato dalla madre, il solo possesso che gli fosse rimasto, perchè l'onesto Costanzo — ὁ καλὸς Κωνστάντιος — dopo avergli ucciso il padre, gli aveva portati via tutti i beni paterni41. Ma qui non finiscono i benefici di Eusebia che teneva, sul suo protetto, gli occhi aperti. Giuliano era in viaggio per la Bitinia, quando, egli non sa precisamente il come, ma crede per le calunnie del suo nemico, si riaccendono i sospetti nell'animo di Costanzo. Eusebia ne prende occasione per rendere a Giuliano un nuovo servizio e, per lui, il più gradito. Ottiene dal marito che muti la destinazione del possibile pretendente, ed invece di mandarlo nel lontano Oriente dove potrebbe preparare la vendetta di Gallo, lo condanni a domicilio coatto ad Atene. Era davvero un correre incontro al desiderio di Giuliano. Il giovane entusiasta punto non si incaricava di politica imperiale, non aveva nè ambizioni di regno, nè desiderio di ricchezze e di vendette. Egli non chiedeva che di poter sprofondarsi ne' suoi studi, non aveva che una passione, quella dei libri, non aveva che un'intensa aspirazione, vedere la Grecia, la sua vera patria, ch'egli amava di intenso affetto42; la sede ancora brillante di quella coltura ellenica a cui egli aveva dedicata la sua vita.

Giuliano non fu lasciato che pochi mesi ad Atene, [pg!40] ma questi pochi mesi hanno avuto, come lo affermano i suoi contemporanei, una grande influenza sull'animo suo. Egli teneva ancora celate le sue convinzioni religiose, ma ciò non gli impediva di infervorarsi negli studi ed anche nella conoscenza dei Misteri, che costituivano il principale atto di culto di quel simbolismo politeista di cui Giuliano voleva fare la religione del mondo. Eunapio, Socrate e Sozomene insistono tutti sull'importanza che ebbe, nella vita di Giuliano, la sua dimora in Atene. Ma i due narratori più autorevoli ed interessanti sono, come sempre, Libanio e Gregorio. Libanio dice che, presentatosi Giuliano ai professori di Atene, e offertosi ad un esperimento, si trovò che ne sapeva più dei maestri, così che «solo di tutti i giovani che accorrevano ad Atene, ne ripartiva, avendo insegnato più che imparato. Pertanto si vedevano continuamente intorno a lui degli sciami di giovani, di vecchi, di filosofi, di retori. A lui guardavano anche gli dei, ben sapendo ch'egli avrebbe risollevato il patrio culto. Quando parlava era, insieme, ammirabile e modesto, poichè, checchè dicesse, subito arrossiva. Di questa sua mansuetudine tutti godevano, e i migliori traevano profitto dai suoi insegnamenti. E il giovinetto aveva intenzione di vivere e di morire in Atene, e ciò gli pareva il colmo della felicità»43.

Nulla di più curioso che il contrapporre a questo ritratto disegnato da Libanio il ritratto disegnato da Gregorio. Costui, che, come sappiamo, era coetaneo di Giuliano, si trovava pure ad Atene, per addestrarsi, nell'università letteraria di quella città, in quell'arte oratoria ch'egli doveva, più tardi, adoperare, [pg!41] con tanta genialità, a difesa dell'ortodossia nicena. Gregorio e Giuliano erano condiscepoli; il futuro teologo, vivendo al fianco del futuro apostata, aveva agevole occasione di scrutarne l'animo e di studiarlo in ogni sua mossa, per quanto Giuliano cercasse ancora di tener celate le tendenze e le convinzioni già in lui radicate. Nel ritratto disegnato da Gregorio è evidente l'intenzione ostile del pittore che vuol darci un'imagine odiosa. Ma, con tutto questo, a me non pare che il ritratto possa dirsi una caricatura. C'è un'espressione di verità nella figura che balza fuori dalle pagine del polemista. La vita così singolare ed agitata di Giuliano, le contraddizioni di cui è piena, la subitaneità delle sue risoluzioni, il suo eroismo disperato, la versatilità inquieta del suo ingegno, si accordano, forse, assai meglio coll'imagine turbata, enigmatica, un po' convulsa che ci presenta Gregorio che coll'imagine serena e sorridente tratteggiata da Libanio. «Io — dice Gregorio, scrivendo dopo la morte di Giuliano — aveva, già da tempo, sospettato di lui, fin da quando mi trovavo in Atene. Era egli venuto colà, poco dopo la catastrofe di suo fratello, avendone ottenuta licenza dall'imperatore. Due erano i motivi che gli facevano desiderare quel soggiorno; il primo, il lodevole, era di conoscere la Grecia e le sue scuole, l'altro, che non si diceva e che solo a pochi era noto, era di conferire segretamente coi sacerdoti e con gli impostori, poichè l'empietà non si sentiva ancor sicura del fatto suo. Fu allora appunto che io divenni un sagace indovino del carattere di lui, quantunque io non sia di coloro che hanno a ciò una naturale disposizione. Ma mi aveva fatto indovino l'anomalia del suo contegno e la singolarità delle sue distrazioni. A me parevano [pg!42] indicare nulla di buono il collo dondolante, le spalle agitate, l'occhio vagabondo, che intorno intorno guardava, e che aveva in sè qualche cosa del maniaco, il piede vacillante e che sembrava mal lo reggesse, le narici spiranti orgoglio e disprezzo, i lineamenti del volto ridicoli ed altezzosi, il riso immoderato e scoppiettante, i cenni di assenso e di diniego senza ragione, la parola che s'interrompeva ed a cui sembrava mancasse il fiato, le domande disordinate e irragionevoli, non migliori le risposte, intralciantisi le une le altre, senz'ordine di ragionamento. Ma perchè discendere a tanti particolari? Io lo vidi prima che agisse quale poi lo conobbi nell'azione. E, se fossero presenti alcuni di coloro che allora mi ascoltavano, attesterebbero senza esitanza la verità di ciò che dico. E ricorderebbero che, alla vista di quegli indizii, io esclamai: Quale mostro l'impero romano nutre nel suo seno! — Ma allora io fui chiamato ed imprecato falso profeta!»44. Che vi sia, in questa descrizione, una buona dose di esagerazione, non è dubbio. Essa contrasta troppo recisamente, non solo con quanto dice Libanio, ma, ciò che più importa, con la descrizione dell'onesto ed imparziale Ammiano. Ma, lo ripeto, vi deve essere anche qualche cosa di vero. La figura di Giuliano qui è vivente. Se non che, Gregorio vuol vedere le manifestazioni di un mattoide in ciò che altro non era se non il contegno sospettoso di un uomo che doveva gelosamente celare i suoi sentimenti, di un uomo che si sapeva circondato da nemici, di un uomo in cui la prudenza, consigliata dalla ragione, si trovava in lotta costante con l'audacia naturale [pg!43] dell'anima. Ma come è drammatico ed interessante l'incontro, nella scuola di Atene, di questi due giovani, destinati a diventare terribilmente nemici l'uno dell'altro, e che già si spiavano a vicenda con quell'acume che dà l'odio istintivo. Se Gregorio fu singolarmente sagace, Giuliano, al quale la già lunga esperienza della sua vita tribolata acuiva la prontezza dell'ingegno, non lo sarà stato meno del suo condiscepolo, e, certo, avrà presentito in Gregorio uno dei futuri difensori del Cristianesimo. Il suo contegno inquieto, tutto a scatti ed a mosse incoerenti, era probabilmente, almeno in parte, un artifizio per nascondere agli occhi scrutatori del compagno il segreto della sua anima di ellenista fervente, i suoi propositi e le sue speranze.

Mentre Giuliano studiava ad Atene, maturavano per lui inaspettati destini. Una congiura militare, supposta, più che scoperta, a Sirmio, in Pannonia45, la rivolta di Silvano nella Gallia, domata con la proditoria uccisione di Silvano stesso46, e le continue devastazioni perpetrate dai Germani nella Gallia indifesa, avevano spaventato Costanzo. Ondeggiante fra il sospetto e la fiducia, stiracchiato fra diversi consigli, spinto finalmente dalla grandezza del pericolo, e, certamente, premuto da Eusebia, l'imperatore chiamò a Milano il cugino Giuliano47. Con quanto dolore lo studente [pg!44] abbandonasse Atene, ce lo narra egli stesso nel suo manifesto agli Ateniesi. «Quale torrente di lagrime io versassi e quanti gemiti, tendendo le mani verso l'Acropoli vostra, e pregando Minerva di salvare il supplice e di non abbandonarlo, lo possono attestare molti di voi che l'hanno veduto, e più di tutti la stessa dea a cui io chiedeva di farmi morire in Atene, prima che partissi. Ma la dea mostrò col fatto di non voler tradire il suo devoto, poichè mi fu sempre guida e mi circondò di custodi, chiamando degli angeli dal Sole e dalla Luna»48.

Giunto a Milano, si ferma in un sobborgo, e non vuole entrare nella Corte imperiale, malgrado le insistenze dei cortigiani che, presaghi della sua prossima fortuna, gli stavano al fianco, e lo costringevano a meglio curare le vesti ed il contegno, così da trasformare lo studente di filosofia in un soldato ed in uomo di corte49. Eusebia, intanto, cercava, con mezzi ripetuti, di infondergli coraggio e confidenza in lei. Egli vorrebbe, invece, persuaderla a rimandarlo da Milano, e le scrive una lettera, anzi una supplica, che finiva così: «Possa tu aver figli, eredi dell'impero, possa dio concederti tutto quanto desideri, ma rimandami a casa più presto che puoi»50. Poi riflette a ciò che sta per fare, teme di compromettersi, inviando a Corte una lettera per la moglie dell'imperatore. Nel silenzio della notte prega gli dei di rivelargli ciò che deve fare, e gli dei gli annunciano che, se manda quella lettera, è un [pg!45] uomo morto. Allora Giuliano fa a sè stesso un ragionamento che a lui pare tanto persuasivo, da riprodurlo intieramente nel manifesto agli Ateniesi. «Io penso di oppormi agli dei, e pretendo di giudicare di ciò che devo fare meglio di coloro che sanno tutto. Eppure, la saggezza umana, applicata alle cose presenti, non riesce che a stento ad evitar gli errori... ma la saggezza divina va all'infinito e, tutto vedendo, insegna la via diretta e agisce pel meglio. Gli dei sono gli autori di ogni cosa ed attuale e futura. È, dunque, naturale che essi conoscano il presente. E tosto mi avvidi che ragionavo meglio di prima. E pensando ai nostri doveri, soggiunsi: Tu ti sdegneresti, se qualcuno degli esseri che tu possiedi ti privasse del suo servizio, o chiamato se ne fuggisse via, fosse anche un cavallo, una pecora, un bue. E tu che sei uomo, e non degli ultimi e dei più vili, vuoi privare di te stesso gli dei e ti rifiuti a ciò per cui essi vogliono usarti? Guarda di non agire stoltamente e di non offendere la giustizia divina. Invece di strisciare e di adulare per timore della morte, gittati nelle mani degli dei; fa ciò che vogliono e lascia loro la cura di te stesso, come faceva anche Socrate. Prendi le cose come vengono; riferisci tutto a loro, nulla acquista o afferra per te stesso, ma ricevi, senza esitanza, ciò che essi ti danno. Io mi convinsi che questo ragionamento, ispiratomi dagli dei, era il più sicuro ed il più conveniente ad un uomo equilibrato, poichè il correre ad un pericolo manifesto, per timore delle future insidie, mi sembrava cosa davvero avventata. Cedetti dunque ed obbedii, e così, in breve, mi si gettò intorno il nome e la clamide di Cesare»51.

[pg!46]

Che era avvenuto per porre Giuliano in una tensione d'animo così grande e penosa? Ce lo narra Ammiano Marcellino52. Giuliano, come dicemmo, era stato chiamato a Milano, perchè il complotto di Sirmio e la ribellione di Silvano avevano ridestati i sospetti di Costanzo. Quando Giuliano fu a Milano, ogni timore di congiura era sventato, e Silvano era caduto ed ucciso. Ma le inquietitudini dell'imperatore risorgevano e, questa volta, per ben più gravi ragioni. L'uragano barbarico, che, circa un secolo dopo, doveva rovesciarsi sull'impero, faceva sentire sempre più vicini i suoi fragori minacciosi. I Germani passavano il Reno, devastavano le terre orientali della Gallia, ed apparivano come un pericolo, come una forza che l'impero non era più capace di fronteggiare. Costanzo non era uomo da prendere in mano la somma delle cose e di porsi alla testa dell'esercito. Ma pur sentiva che le circostanze richiedevano uno sforzo supremo e il prestigio della suprema autorità.

Eusebia, la protettrice fervida di Giuliano, sa cogliere l'occasione e consiglia al marito di chiamare il giovane cugino a partecipare al governo dell'impero, nominandolo Cesare, ed investendolo di pieni poteri per l'amministrazione e per la guerra nelle Gallie. I cortigiani tentano di opporsi alla nascente fortuna del giovane Costantiniano, facendo balenare agli occhi di Costanzo i pericoli che possono venire dall'avere al fianco un collega d'impero, e gli ricordano la recente esperienza del cesarato di Gallo. Ma Eusebia insiste e vince ogni resistenza, e Giuliano è dall'imperatore nominato Cesare. Dalle parole che abbiamo riportato di [pg!47] Giuliano stesso parrebbe ch'egli avesse grandi esitanze ad accettare l'altissimo ufficio, perchè in lui rimaneva vivissima la diffidenza verso l'imperatore. Ma, come vedemmo, la fede nella saggezza della provvidenza, che vuol dire la fede in sè stesso, lo risolve a non resistere al suo destino, ed a lasciarsi avvolgere dalla clamide di Cesare.

Questo così radicale mutamento nella fortuna di Giuliano che, da principe perseguitato, passa, d'un colpo, ad essere collega dell'impero, in condizioni estremamente difficili, ispira qualche sospetto sulle intenzioni di Costanzo. Libanio addirittura le dichiara perverse. «Ed onde alcuno non si meravigli — egli scrive — che io chiami nemico di Giuliano chi se lo univa nell'impero, dirò quale fosse la ragione di tale unione. Non è già che colui vedesse con piacere un altro sul trono imperiale, e con le vesti purpuree; chè anzi, nemmeno in sogno, avrebbe sopportato quella vista. E perchè dunque fece un altro partecipe del suo potere? Da ogni parte egli era premuto dai barbari, ma sopratutto verso occidente. Un generale non bastava a rimettere le cose a posto, si sentiva il bisogno di un imperatore che fermasse la corrente. Ora, non volendo l'imperatore accorrere lui, e, d'altra parte, essendo necessario che si prendesse un collega, egli elegge, lasciando in un canto tutti gli altri, colui che aveva tanto offeso, certo, non dimentico di tutto il sangue versato, ma pure più fiducioso di chi poteva accusarlo che di quelli che dovevano essergli grati. Nè si ingannò.... Ma tosto egli sentì un pentimento irragionevole di quanto aveva fatto, e, in conseguenza di ciò, gli pose al fianco, coll'ufficio di consiglieri, non già esortatori, ma intralciatori [pg!48] di ogni bella azione»53. Ammiano che, probabilmente, era testimonio oculare, descrive la cerimonia solenne con cui, in Milano, fu data a Giuliano l'investitura dell'ufficio di Cesare. L'imperatore Costanzo, in presenza dell'esercito, tenne un discorso lusinghiero e incoraggiante per Giuliano. I soldati accolsero, con immenso entusiasmo, il nuovo Cesare, e battevano, in segno di gioia, lo scudo sul ginocchio. Fiammeggiante della porpora imperiale, egli rientrò nella reggia, seduto nel medesimo cocchio dell'imperatore. Ma, durante la via, sussurrava il verso omerico

Mi ha colto la morte purpurea e il destino onnipotente.

Per confermargli sempre più il suo favore, Costanzo gli dava in moglie la sorella Elena. Dopo un mese di festeggiamenti, ai primi di Dicembre del 355, Giuliano partì per la Gallia. Costanzo lo accompagnava fin oltre il Ticino, a mezza strada fra Lomello e Pavia54.

Così narra Ammiano, e da lui non discorda Giuliano stesso nell'elogio dell'imperatrice Eusebia ch'egli scrisse per attestarle la sua riconoscenza, elogio nel quale il nuovo Cesare, come negli altri due discorsi diretti all'imperatore Costanzo, cela, sotto la maschera della devozione, i suoi veri sentimenti. Egli pure narra le pompe solenni e i donativi ricevuti, specialmente da Eusebia. Ed insiste su di un pensiero tanto gentile dell'imperatrice che basta a dimostrarci come, fra lei e Giuliano, dovessero correre relazioni confidenziali ben più strette di quanto appare dai discorsi ufficiali. «Io voglio, egli scrive, rammentare uno dei [pg!49] suoi doni, perchè ne ho avuto un singolare godimento. Siccome essa sapeva che io avevo portati con me pochissimi libri, nella speranza e nel desiderio di ritornarmene a casa il più presto possibile, così me ne diede tanti e di filosofia e di storia e di retorica e di poesia da soddisfare largamente il non mai saziato mio desiderio dei loro colloqui, e da trasformare la Gallia in un Museo di libri greci. Non staccandomi mai da quel dono, non è possibile che mi dimentichi della donatrice. E, quando io parto per una spedizione di guerra, ho meco uno di quei libri come un viatico della marcia»55. Giuliano si esalta nell'esprimere l'ammirazione per la sua protettrice. «Quando io giunsi al suo cospetto, mi parve di vedere, in un tempio, ritta la statua della saggezza. La riverenza empì l'anima mia, ed inchiodò, per qualche tempo, i miei occhi al suolo, finchè essa mi esortò ad aver coraggio. — Le presenti cose, — disse — le hai da noi. Il resto lo avrai da Dio, pur che tu sia fedele e giusto con noi. — E non disse di più, sebbene sappia fare discorsi al pari dei più insigni oratori. Licenziatomi dall'udienza, io rimasi pieno di stupore e di commozione, parendomi di aver udita la voce stessa della saggezza, tanto dolce e mellifluo era alle mie orecchie il suono della sua loquela»56.

Ma, se cordiali e delicati erano i favori di Eusebia pel giovane principe, non pare davvero che fossero tutte sincere le dimostrazioni di fiducia di cui lo circondava l'imperatore. Nel manifesto agli Ateniesi, Giuliano afferma [pg!50] che la sua prigionia, diventando Cesare, si fece più grave, tale e tanto era lo spionaggio con cui lo seguiva, ad ogni passo, il sospettoso Costanzo. «Quale schiavitù — egli esclama — era la mia, quali e quante, per Ercole, le minacce sospese, ogni giorno, sulla mia vita! Vegliate le porte, vegliati i portieri, esaminate le mani dei famigliari, caso mai taluno mi recasse un bigliettino degli amici, servi stranieri. Appena potei condurre meco quattro famigliari, pel mio servizio più intimo, di cui due ancora giovinetti, due già adulti. Di questi, uno che conosceva la mia devozione per gli dei, seguiva con me, in segreto, le pratiche del culto, ed io gli aveva affidata la custodia dei miei libri; l'altro era un medico, il quale, solo dei miei molti amici e compagni fedeli, aveva potuto seguirmi, perchè non si sapeva che mi fosse amico57. Era tanto il mio timore che io credetti di dover proibire, con mio dolore, a molti miei amici, di venirmi a vedere, trepidando di diventar causa di sciagura per loro e per me. Del resto, Costanzo mi mandò con soli 360 soldati, nel paese dei Celti, a mezzo inverno, non tanto per comandare gli eserciti che là si trovavano quanto per obbedire ai loro generali, perchè aveva scritto loro e raccomandato di guardarsi da me più che dai nemici, caso mai io tentassi qualche novità»58.

I difensori che Costanzo ha trovato fra gli storici moderni59 mettono in dubbio la verità delle notizie [pg!51] date da Giuliano stesso. Ora, io voglio ammettere che ci possa essere qualche esagerazione e qualche tinta troppo caricata. Così non sembra giusto il trovare una ragione di lamento nell'esiguità della scorta militare che accompagnava Giuliano. Questi non doveva condurre in Gallia un nuovo esercito, doveva andarvi a prendere il comando degli eserciti che già vi erano. Ora, ciò posto e posto anche che il viaggio di Giuliano si faceva tutto in paese amico e tranquillo, una schiera di 360 uomini bastava all'uopo. Ma, quando Giuliano si lamenta di avere intorno a sè nemici e spie, deve esser nel vero, e gli avvenimenti che seguirono il suo arrivo in Gallia, l'ostilità latente, ma efficace, ch'egli trovò presso i suoi generali dimostrano chiaramente le intenzioni non schiette di Costanzo. Certo, costui aveva paura dei Germani, ma aveva paura anche del cugino imperiale. Avrebbe voluto salvare la Gallia, ma avrebbe voluto, insieme, che Giuliano non uscisse dall'impresa con troppo onore. In fondo, se Giuliano fosse stato sconfitto, così da liberarlo d'un possibile e temuto rivale, la sconfitta sarebbe parsa a lui una sciagura non priva di qualche conforto. E che l'impresa dovesse finire così, c'erano buone ragioni per crederlo. Chi mai poteva imaginare che quel principe di venticinque anni, che aveva passata tutta la sua vita fra sacerdoti e filosofi, che non si era mai occupato di cose militari, che, per la sua completa mancanza di contegno soldatesco, aveva destata l'ilarità e mosso gli scherni della corte di Costanzo, sarebbe stato capace di guidare un esercito? E la spedizione si presentava sotto tristi auspici. A Torino, giungeva a Giuliano la notizia che Colonia era stata presa e distrutta dai Germani, ed egli, comprendendo la gravità del pericolo, esclamava che a lui non rimaneva che di ben morire.

[pg!52]

Ma la popolazione della Gallia lo accoglie col più vivo entusiasmo. Egli entra a Vienna, presso Lione, allora la sede del governo della Gallia, fra turbe festanti e rinfrancate dalla presenza di un principe della famiglia regnante. E qui Ammiano ci trasmette un curioso episodio. In mezzo alla folla acclamante, una vecchia cieca chiede chi fosse colui che così si salutava, — Il Cesare Giuliano — le si risponde. — Ecco colui, essa esclama, che restaurerà i templi degli dei! —60. Era una voce che già era corsa, era presentimento, era l'espressione di un desiderio, nutrito da una parte del popolo? Il vero è che, in Giuliano, si sentiva l'eroe che avrebbe agitato il mondo delle cose e il mondo delle idee.

Il governo che Giuliano ha fatto della Gallia per un quinquennio è un episodio glorioso in mezzo alla decadenza dell'impero, ha segnato un momento in cui quella decadenza, di cui era imminente il vorticoso precipitare, è stata, per un attimo, fermata. Giuliano vi è apparso addirittura meraviglioso. La saggezza ed il valore con cui ha saputo condurre le lunghe ed ardue imprese contro i Germani, e rigettarli al di là del Reno, lo rende degno di essere eguagliato ai più grandi capitani dell'antichità. Qui si rivela tutta la genialità di un uomo che era nato con l'attitudine del comando e col talento delle grandi combinazioni militari. Ah, se Giuliano non si fosse esaltato e traviato nelle follie del neoplatonismo, e s'egli avesse [pg!53] avuto più preciso e sicuro il sentimento della realtà, che ammirabile imperatore sarebbe mai stato! Non fu che una meteora brillante, passeggera ed evanescente, quando avrebbe potuto essere uno dei fattori efficaci della storia umana, un vero e grande reggitore di popoli! Ma, dal punto di vista psicologico e drammatico, è appunto questa strana unione di un idealista esaltato, pieno il capo di ubbie mistiche e di idee fisse, e di un capitano geniale, di un soldato eroico, di un amministratore provetto che costituisce l'interesse della figura di Giuliano. C'è del Marco Aurelio in lui. Ma un Marco Aurelio eccessivo, squilibrato, intemperante. La genialità in Giuliano è assai più viva, in Marco Aurelio è più profondo il sentimento. L'imaginazione, che in Marco Aurelio era fredda e frenata, ed in Giuliano ardente e mobile, ha giocato a quest'ultimo un brutto tiro, facendogli credere vive ancora idee e cose, morte per sempre. E, siccome Giuliano, all'opposto di Marco Aurelio, sentiva assai più la forma che la sostanza delle cose, egli è corso dietro ai fantasmi della sua mente, sciupando miseramente la sua meravigliosa fortuna e le doti stupende che la natura gli aveva largite.

Ed ora diamo una rapida occhiata a ciò ch'egli fece in Gallia, prima di toccare il punto che più ci attrae nella sua vita, la tentata restaurazione del Paganesimo. Non potremmo formarci un concetto preciso ed un'imagine vivente dell'uomo, se non guardassimo, per un istante, al guerriero ed al duce che, uscendo dai santuari neoplatonici di Nicomedia e d'Efeso e dalla scuola d'Atene, prese in mano le redini di un'aspra guerra, ed ha condotto le sue schiere da vittoria in vittoria. Il misurato Ammiano Marcellino, che esprime l'impressione dei suoi contemporanei e che fu testimonio [pg!54] oculare delle gesta di Giuliano, si abbandona all'iperbole ed alla retorica, quando parla del giovane principe, e vede in lui un miracolo voluto da una legge divina. «In un batter d'occhio — egli dice — Giuliano tanto splendette da esser giudicato, per la prudenza, un nuovo Tito, eguale a Traiano pei successi guerreschi, clemente come Antonino, e, nelle indagini astruse della mente, paragonabile a Marco Aurelio, ad emulare il quale egli intendeva i suoi atti ed i suoi costumi». Ed Ammiano ben a ragione stupisce quando ricorda che quel giovane «dalle tranquille ombrie delle accademie, non già dalla tenda militare, tratto fuori fra la polvere di Marte, atterrava la Germania e, pacificate le regioni del gelido Reno, uccideva e incatenava i re barbari anelanti alla strage»61.

Giuliano passò l'inverno del 356 ad orientarsi nella sua nuova posizione, ad acquistare le necessarie nozioni di amministrazione e di pratica militare. Egli non sdegnava di addestrarsi nei più umili esercizi, ripetendo, di quando in quando, come consolazione ed incoraggiamento, il nome di Platone. Egli dava un mirabile e nuovo esempio di temperanza e di operosità. Sistematico ordinatore del suo tempo, e ciò spiega la mole immensa di lavoro da lui compiuto, si alzava, di notte, dal rozzo giaciglio su cui riposava, e divideva in due parti le ore che lo separavano dal mattino. Prima di tutto, segretamente innalzava una prece a Mercurio, eccitatore del pensiero, poi curava gli [pg!55] affari di Stato, il governo della provincia, i preparativi di difesa e di offesa. Esauriti gli affari, Giuliano si sprofondava nei suoi studi prediletti di filosofia, che, a nessun prezzo, voleva dimenticare, poichè per lui costituivano l'oggetto più interessante della vita. Ed, insieme alla filosofia, si occupava di poesia, di storia e si esercitava nella lingua latina. Giuliano era nutrito di poesia. Coi grandi antichi, Bacchilide era il suo autore favorito. E, pur troppo, alle scuole elleniche del tempo, s'era anche imbevuto di quella retorica formale e pedantesca che era la nota caratteristica della letteratura del tempo62.

Nell'estate del 356, Giuliano apre la sua prima campagna. Udendo che Autun era minacciata dagli invasori, vi accorre, la libera, poi con marcia fulminea, raggiunge la valle del Reno, la percorre da Strasburgo a Colonia, dove entra trionfatore, e dove stringe la pace coi re dei Franchi, atterriti da sì subitaneo e fortunato attacco63. In questa prima campagna parrebbe che Giuliano operasse d'accordo con un altro corpo d'armata, il quale, guidato dall'imperatore stesso, sarebbe disceso dalla Rezia e dall'alto Reno verso l'Alsazia. Ciò si dovrebbe dedurre da una notizia che Ammiano ci dà in modo affatto incidentale64. È strano che di questa mossa dell'imperatore nè Ammiano nè Giuliano parlino nell'esposizione delle gesta compiute durante l'estate del 356. In ogni modo, la mossa dell'imperatore, se anche avvenuta, non ebbe conseguenze importanti, e Giuliano, all'aprirsi dell'anno [pg!56] seguente, si trovò sulle braccia, in tutta la sua grandezza, l'impresa di liberare la Gallia dalle invasioni germaniche.

Giuliano va a prendere i quartieri d'inverno a Sens, dove, come dice Ammiano, portando sulle sue spalle la mole delle guerre che d'ogni parte dilagavano, si divide in molteplici cure per fronteggiare l'offesa, e per assicurare il vitto ai suoi soldati. Qui egli corre un ben grave pericolo, perchè i barbari, conoscendo la scarsità delle sue forze, lo assediano strettamente. Avrebbe potuto essere aiutato da Marcello, un luogotenente, che, con la cavalleria, trovavasi poco discosto. Ma Marcello era uno di quei generali che avevano avuto da Costanzo l'incarico non di soccorrere, bensì di sorvegliare Giuliano. Obbediente alla consegna, lo lasciò solo alle prese con le difficoltà della situazione. Ma la fiera resistenza di Giuliano scoraggia gli assedianti che, dopo un mese, si ritirano vergognosi e tristi pel loro completo insuccesso. Giuliano depone dal comando l'indegno Marcello, e costui corre a Milano ad accusarlo, confidando nella disposizione di Costanzo, il cui orecchio era sempre aperto alle accuse dei delatori. Ma Giuliano lo seppe prevenire, mandando a Milano il suo fidato Euterio, il quale prese con tanta efficacia le sue difese davanti all'imperatore, che, almeno per questa volta, le calunnie dei cortigiani e dei delatori rimasero inascoltate. Ed, anzi, a Giuliano venne affidato, senza restrizione e senza imposizioni d'altri generali, il comando supremo dell'esercito65. Se non che la campagna del 357 minacciò di condurre ad un disastro, per la slealtà di un altro luogotenente, [pg!57] Barbazio, che si lasciò sconfiggere dai Germani, per accorrere lui pure ad accusare Giuliano66. Ma le sue arti vennero a smarrirsi davanti alla grande battaglia che Giuliano guadagnava, presso Strasburgo, sulla coalizione dei principali re delle tribù germaniche, condotta dal più potente di essi, il re Conodomario.

Ammiano e Libanio sono concordi nel giudizio sulla condotta di Barbazio, debole ed insieme ispirato dall'odio contro Giuliano. Ma, nel racconto dei fatti, il retore e lo storico molte volte dissentono, perchè evidentemente attingono a fonti diverse, e, per verità, la fonte di Libanio pare, questa volta, preferibile a quella di Ammiano. Ammiano narra67 che Barbazio, piuttosto che prestare a Giuliano alcune delle navi da lui preparate per costrurre i ponti sul Reno, le abbrucciò tutte. Libanio, invece, ci dice che Barbazio, volendo agire indipendentemente da Giuliano, aveva costrutto un ponte di barche, onde invadere le terre dei Germani. Ma i barbari, anticipando di quindici secoli la trovata degli Austriaci alla battaglia di Essling, gittarono nella corrente del fiume, a monte del ponte, grandi ammassi di legnami, che, venendo ad urtare contro le barche, le sconquassarono, le affondarono, e le distrussero. Barbazio, che non era un Napoleone, fuggì spaventato coi suoi 30,000 uomini, inseguito dai barbari68.

La ritirata di Barbazio aveva sollevati gli animi dei Germani, e fattili sicuri di una completa vittoria sull'esercito di Giuliano. Da un disertore eran venuti a sapere che il Cesare non poteva opporre alla coalizione [pg!58] dei sette re barbari che 13,000 uomini69. Pertanto Conodomario, che guidava l'armata barbarica, risolvette di dare un gran colpo e di stabilirsi sulla sinistra del Reno, impadronendosi, con la distruzione del piccolo esercito romano, di tutta la Gallia orientale. Ma le speranze di Conodomario, pur giustificate dalla difficile condizione in cui la defezione di Barbazio aveva lasciato Giuliano, furono mirabilmente sventate dal geniale eroismo del Cesare. Bisogna leggere in Ammiano la lunga descrizione di questa battaglia, per ammirare la genialità soldatesca, la presenza di spirito, l'eroismo del giovane condottiero. L'esercito romano non era che la metà dell'esercito barbarico. Conodomario, «il nefando incendiatore della guerra — dice Ammiano — portante sul capo un elmo fiammante, guidava l'ala sinistra, audace e fidente nella gran forza delle sue membra, sublime sul cavallo spumeggiante, brandendo un giavellotto di spaventosa grandezza, cospicuo pel luccicare dell'armatura»70. I barbari avevano la certezza della vittoria. Tentare la battaglia era, da parte dei Romani, prova di singolare audacia. Ma Giuliano, questo filosofo, questo teologo, questo mistico e fantastico pensatore era, per un miracolo che non so quando mai siasi altre volte verificato, un uomo d'azione di strana potenza. Sul campo di battaglia, insieme alla prontezza del colpo d'occhio, aveva, in sommo grado, la facoltà di infondere nei soldati la fiducia, l'ardore della pugna, l'entusiasmo e la gioia del pericolo. Queste doti che rifulgono di singolar luce nella campagna di Gallia, [pg!59] ricomparvero non meno brillanti nella guerra contro i Persiani e sono uno dei lineamenti principali del carattere di Giuliano. Così avvenne che la battaglia di Strasburgo, voluta da lui e condotta con la più abile audacia, finì con una spettacolosa vittoria. L'esercito barbarico fu in parte ucciso nel combattimento, in parte gittato nel Reno. Il terribile re Conodomario, che tentava di fuggire e di nascondersi, fu fatto prigioniero, e, mandato da Giuliano a Costanzo, fu rinchiuso, a Roma, in un carcere sul Monte Celio, dove moriva71.

Di questa vittoria memorabile Costanzo ebbe più dispetto che piacere. Alla corte di Milano si chiamava Giuliano, per ischerno, Vittorino. I cortigiani finsero di dare tutto il merito alle sapienti disposizioni dell'imperatore, e costui si prestò alla stolta adulazione, per modo da lasciare, negli atti imperiali, una relazione della battaglia di Strasburgo, nella quale egli figurava come il tattico glorioso della giornata, dimenticandovi affatto il nome e le gesta di Giuliano «che, dice Ammiano, egli avrebbe profondamente nascosto, se la fama non sapesse tacere le cose gloriose, [pg!60] sian pur molti coloro che le vogliono oscurare — ni fama res maximas vel obumbrantibus plurimis silere nesciret»72.

Giuliano, per raccogliere i frutti della sua vittoria, passa il Reno, e si spinge nel cuore della Germania, cacciando davanti a sè i barbari atterriti da tanta audacia. E, finalmente, ricostrutto e munito un castello, innalzato da Traiano e poi abbandonato, e stabilita una tregua di dieci mesi con quegli stessi re che avevano combattuto a Strasburgo, ritorna nella Gallia e va a svernare a Parigi. In tutta questa campagna fu così meraviglioso il valore di Giuliano che, dice Ammiano, quasi si può credere a coloro i quali pretendevano che egli cercasse la morte, perchè preferiva cadere combattendo piuttosto che condannato, come il fratello Gallo. Ma una tale spiegazione non vale, continua Ammiano, perchè Giuliano, diventato imperatore, si illustrava con atti che non furono meno meravigliosi ed eroici73.

Nei quartieri invernali di Parigi, nella breve sosta che gli è concessa dalla guerra, a che pensa Giuliano? A rivedere i conti finanziari della Gallia, a discutere con Florenzio, il prefetto del pretorio, come sarebbe a dire il ministro delle finanze, per dimostrargli che la Gallia non può tollerare nessun aumento di imposte, e che, del resto, non ve n'era bisogno, perchè il bilancio bastava a tutte le spese necessarie. Il ministro rivolge i suoi reclami all'imperatore e questi esorta Giuliano ad aver fiducia in Florenzio. Ma Giuliano è irremovibile; non vuole neppur leggere lo [pg!61] scritto contenente le proposte di Florenzio, ed, in un momento di sdegno, lo scaglia a terra. Così, per la sua fermezza, la Gallia è salvata dalla rovina74. A ragione i popoli della Gallia eguagliavano l'amministrazione di Giuliano ad un sole sereno che risplendeva dopo squallide tenebre.

Il dissenso fra Giuliano e Florenzio, che fu certo una delle cause principali della sfiducia e dei rinascenti sospetti di Costanzo, aveva la sua origine in una ragione più personale di quella che fosse la pubblica amministrazione. Florenzio, seguendo le abitudini del tempo e del governo imperiale, rubava. L'intemerato Giuliano non poteva tollerare la cosa; da qui il proposito, in Florenzio e nei suoi colleghi, di liberarsi dell'incomodo principe. Un episodio, narrato da Libanio, illustra la situazione. «Avvenne — narra maliziosamente Libanio — che un cittadino accusasse di furto un magistrato. Florenzio, come prefetto, faceva da giudice, e, pratico com'era del rubare, ed essendo già stato comperato, espresse il suo sdegno contro l'accusatore, sentendosi compromesso col suo compagno d'arte. Ma, siccome l'ingiustizia era palese, e se ne parlava in pubblico, e ne prurivano le orecchie dell'autore, egli chiamò giudice il principe stesso. Questi, sulle prime, si rifiutò, dicendo che non era cosa di sua competenza. Ma Florenzio insistette, non già perchè volesse una sentenza giusta, ma perchè credeva che Giuliano l'avrebbe pronunciata d'accordo con lui, anche se si trattasse di un'ingiustizia. Ma, quando vide che la verità gli stava più a cuore dei riguardi per lui, ne ebbe gran dispiacere, e calunniando, [pg!62] con lettere, quel personaggio che aveva la massima fiducia di Giuliano75, lo fece espellere dalla reggia, come se traviasse il giovane principe al quale, invece, faceva da padre»76.

Noi dobbiamo tener conto di questi fatti singolari che ci rappresentano Giuliano come uno degli uomini più illuminati, più coscienziosi, più giusti che abbia avuto l'antichità. Da questi fatti noi dovremo poi trarre le naturali conseguenze, quando vorremo giudicare, nella sua reale consistenza, l'azione per cui egli è stato come infamato davanti alla posterità, voglio dire il tentativo di restaurazione del Paganesimo.

Le due campagne susseguenti del 358 e del 359 furono, per Giuliano, una serie di successi, pei quali l'audace e fortunato generale, non pago di liberare la Gallia, penetrava nel cuore della Germania, e sottometteva, ad una ad una, le più bellicose tribù. La slealtà dei nemici, che non tenevano i patti, se non atterriti dai castighi, e la difficoltà degli approvvigionamenti, la cui mancanza una volta rivoltava a Giuliano i suoi fidi soldati77, gli creavano, ad ogni passo, ostacoli ed impacci da scoraggiare ed abbattere qualsiasi abile condottiero. Ma egli non perdeva mai la presenza di spirito, la sicurezza del colpo d'occhio, l'opportunità dell'audacia, e così riesciva a portare la pace, l'ordine, la prosperità in regioni, ormai da lunghi anni sconvolte e che vivevano sotto la minaccia perpetua di invasioni disastrose. È bello udire con che legittima alterezza, ma, insieme, con quanta dignità, Giuliano parla dei suoi successi militari. «Nei due [pg!63] anni seguenti (la battaglia di Strasburgo) — egli scrive agli Ateniesi — i barbari furono del tutto espulsi dalla Gallia, moltissime città furono risollevate, e navi, in quantità, giunsero dalla Brettagna. Io riunii una flotta di seicento navi, di cui quattrocento da me costrutte in meno di dieci mesi, e con esse risalii il Reno, impresa non lieve, a cagione dei barbari che abitavano le sponde. Florenzio, anzi, credeva la cosa tanto impossibile ch'egli prometteva a quei barbari una mercede di due mila libbre d'argento, pur di aver libero il passo. Costanzo, avendo avuta notizia dell'offerta, mi scrive di darvi esecuzione, a meno che a me paresse troppo vergognosa. E come non lo sarebbe stata, se tale pareva anche a Costanzo, pur avvezzo a patteggiare coi barbari? Ma io non diedi nulla, e marciando contro di essi, con la difesa e l'assistenza degli dei, occupai il paese dei Salii, e scacciai i Camavi, avendo predati molti buoi e donne e fanciulli78. Così li atterrii tanto coi preparativi delle mie invasioni, che tosto mi mandano ostaggi, e assicurano il libero passaggio dei viveri. Sarebbe troppo lungo l'enumerare, e lo scrivere, ad una ad una, tutte le cose che io feci in quattro anni. Le riassumo. Tre volte passai il Reno: ricuperai dai barbari venti mila nostri prigionieri che si trovavano oltre il Reno; in due battaglie ed in un assedio [pg!64] presi migliaia di uomini, nel fiore dell'età; mandai a Costanzo quattro schiere di fortissima fanteria, tre un po' più deboli, due coorti di cavalieri valorosissimi; ora, per la grazia degli dei, io posseggo tutte le città, avendone riprese poco meno di quaranta»79.

L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico

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