Читать книгу L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico - Gaetano Negri - Страница 8

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Or siamo giunti al momento fatale della vita di Giuliano. Sta per maturare l'evento che deve portarlo al vertice della potenza. Mentre il Cesare, nella Gallia e nella Germania, correva di vittoria in vittoria, Costanzo, in Oriente, si dibatteva fra le più gravi ed ingloriose difficoltà, in conseguenza della guerra che, da tanti anni, ferveva contro i Persiani e che minacciava di diventar un disastro per l'impero. L'animo meschino e perverso di Costanzo s'ingelosiva del cugino. Temendo che la continuazione dei suoi trionfi potesse sollevarlo ad aspirazioni d'impero, Costanzo, istigato da Florenzio, a quel che narra Ammiano80, pensa di troncargli le ali. A tale intento, manda a Parigi il tribuno Decenzio, coll'ordine a Giuliano di spedirgli, in Oriente, la parte migliore delle sue truppe, le legioni degli Eruli, dei Batavi, dei Petulanti e dei Celti, raccomandando di non frapporre indugi, così che quei soldati possano giungere in tempo di prender parte alla campagna della prossima primavera contro i Parti alleati dei Persiani. Il generale Lupicino doveva condurre quelle truppe. Giuliano prevede che l'ordine dell'imperatore non può eseguirsi senza contrasto e senza pericoli. Quei soldati barbari avevano [pg!65] preso volontario servizio, a condizione di non abbandonare i loro paesi. Era certo che si sarebbero rifiutati a lasciarsi portare nel lontanissimo Oriente, a morire lungi dalle loro famiglie. Lupicino, intanto, era assente, mandato, molto prima, da Giuliano, in Inghilterra, e Florenzio, prevedendo il temporale, si era ritirato a Vienna, e indugiava ad accorrere alla chiamata di Giuliano. Questi si trovava senza consiglieri, solo ad assumere la responsabilità, pressato da Decenzio, che sentiva il pericolo dell'indugio. Infatti, nelle legioni, correva un libello anonimo in cui fra le altre cose si diceva: « — Noi, come colpevoli e condannati, siamo cacciati agli estremi confini della terra, e le nostre famiglie, che, dopo tante sanguinose battaglie, liberammo dalla prigionia, saranno serve per sempre ai Germani»81. Letto questo libello, Giuliano, onde togliere ciò che pareva fosse pei soldati il maggior sacrifizio, dispone che le famiglie possano seguirli e fornisce i mezzi di trasporto. Decenzio insiste affinchè, dai luoghi circostanti, in cui erano alloggiate, le legioni siano concentrate a Parigi, donde prendere le mosse. Così si fa, e, raccolte le truppe nei sobborghi di Parigi, Giuliano le visita, le esorta, parla ad uno ad uno a quei soldati che personalmente conosce, e cerca di animarli con la previsione della liberalità dell'imperatore e dei premi che li aspettano. Poi raccoglie i capi ad un solenne banchetto, da cui questi si ritirano tristi e commossi, perchè la fortuna inclemente li privava, insieme, di sì giusto condottiero e della loro terra natia82.

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Tutto pareva ormai tranquillo, ed ogni pericolo di resistenza sventato, quando, nel cuore della notte, le legioni prendono le armi ed, accorrendo al palazzo, lo circondano in modo che nessuno possa fuggire. Con grida immense, proclamano Giuliano Augusto, cioè, Imperatore, e, al primo albeggiare, lo costringono a presentarsi e raddoppiano, alla sua vista, il festoso clamore. Invano Giuliano tenta di calmarli, promettendo loro che non avrebbero passate le Alpi, ed assicurandoli del perdono di Costanzo. I soldati s'infuriano di più, e, alzatolo sugli scudi, vogliono che si ponga in capo il diadema imperiale. Egli non ne ha. Ebbene, s'incoroni con una collana di sua moglie. Ma un ornamento femminile non conviene come emblema d'impero. Si prenda il pettorale dorato di un cavallo. Peggio ancora. E, allora, un vessillifero dei Petulanti, strappandosi una collana che portava come segno del suo grado, ne circonda il capo di Giuliano. Questi, che non ha potuto resistere alla pressione dei soldati, si ritira incerto, stupefatto, esitante nella reggia. Ma ecco che, il giorno seguente, fra i soldati, si diffonde la voce che Giuliano è stato segretamente trucidato. E tosto riprendono le armi e furiosi corrono alla reggia, e non si acquetano finchè il nuovo imperatore non viene al loro cospetto, rifulgente delle insegne del potere. Da quel momento, Giuliano assume apertamente la sua posizione, parla ai soldati come imperatore, loro ricorda le imprese insieme compiute, dichiara di confidare intieramente nella loro lealtà, e promette ricompense e promozioni. Egli spera ancora di evitare la guerra civile e di trovare un accordo con Costanzo, ma è risoluto a non indietreggiare, e si dice sicuro di sè stesso e della sua sorte. Anzi, ai più intimi racconta che, nella notte [pg!67] antecedente alla sua proclamazione, gli era apparso il genio dell'impero, e gli aveva detto: «Più di una volta, o Giuliano, io occupai il vestibolo del tuo palazzo, nell'intento di accrescere la tua dignità, ma sempre mi ritirai quasi respinto. Se anche ora non mi accogli, malgrado il parere concorde di tanti, io me ne partirò mortificato e mesto. Ma, tientelo bene in mente, io teco non sarò mai più!»83.

Di questi avvenimenti interessanti noi abbiamo il racconto, scritto da Giuliano stesso. Nel manifesto, da lui mandato al Senato ed al popolo d'Atene, nel momento in cui, rotto ogni indugio, egli moveva contro Costanzo, il nuovo imperatore narra come sia avvenuta la sua proclamazione. Quel racconto, che ci fa rivivere nella realtà, è, nelle sue linee principali, in completo accordo con quello che ci lasciava Ammiano. Dice Giuliano come egli fosse circondato da spie e da calunniatori, di cui nomina i principali, Pentadio, Paolo, Gaudenzio, Luciniano. A costoro si aggiunge anche Florenzio, in causa dei disaccordi finanziari di cui già trovammo notizia in Ammiano ed in Libanio. Costoro, primieramente, ottengono da Costanzo che sia allontanato il più fidato amico di Giuliano, Sallustio, che conosceva tutti i segreti di lui, e poi istigano l'imperatore a portargli via l'esercito. «Costanzo, forse solleticato dall'invidia delle mie imprese, mi scrive una lettera piena di offese per me, e di minacce pei Celti. E comanda che, senza distinzione, quasi tutte le truppe migliori, siano condotte via dalla Gallia, e affida l'esecuzione dell'ordine a Lupicino ed a Gentonio, e mi ammonisce di guardarmi [pg!68] bene dall'oppormi ad essi. Ma come dirvi ora ciò che gli dei hanno fatto per me? Io aveva in animo — gli dei stessi mi sian testimoni — di gittar via tutti gli splendori e le cure del regno, e di vivere in riposo, lontano dagli affari. Ma aspettava che giungessero Florenzio e Lupicino, il primo dei quali era a Vienna, l'altro in Brettagna. Intanto, cominciava una grande agitazione nei cittadini e nei soldati, e, in una città vicina, si spargeva, nelle legioni dei Petulanti e dei Celti, un libello anonimo, in cui si diceva assai male dell'imperatore; si lamentava l'abbandono della Gallia; e lo scrittore deplorava, insieme, le offese che mi erano fatte. Quel libello produsse in tutti una viva impressione, e i partigiani di Costanzo insistettero, presso di me, con tutte le loro forze, onde facessi partire i soldati, prima che simili scritti si spargessero nelle altre legioni. Non aveva intorno a me nessuno che mi fosse benevolo, ma solo Nebridio, Pentadio, e Decenzio che era venuto a comunicarmi gli ordini di Costanzo. Diceva io che conveniva aspettare Lupicino e Florenzio, ma essi non approvano e affermano che bisogna agire subito, se non voglio agli antichi sospetti aggiungere, come dimostrazione, questo nuovo esempio. E continuavano: — Se tu ora spedisci i soldati, il merito sarà tuo. Venuti quei due, Costanzo non darà il merito a te, ma a loro, e tu sarai accusato... — Si aprivano a me due strade. Io voleva andare per l'una, essi mi costringono a prendere l'altra, nel timore che quanto era avvenuto potesse essere pei soldati un principio di rivolta, e diventare causa di un completo disordine. E, per verità, quel timore non era del tutto irragionevole. Infatti, vennero le legioni, ed io, secondo i presi accordi, andai incontro, e loro annunciai l'imminente [pg!69] partenza. Passò un giorno, durante il quale io nulla conobbi delle loro risoluzioni. Lo sanno Giove, il Sole, Marte, Minerva e tutti gli dei, che, fino alla sera, non mi venne neppur l'ombra di un sospetto. Non fu che tardi, dopo il tramonto, che mi giunse qualche notizia, ed ecco, d'un tratto, la reggia, è circondata, e tutti gridano, mentre io penso a ciò che si dovesse fare, e non credo a me stesso. Io mi trovava solo in una camera vicina a quella di mia moglie, allora ancor vivente. Di là, guardando il cielo, da un'apertura nella parete, mi prosternai a Giove. Diventando sempre più forte il rumore, e gridando tutti, giù nelle sale della reggia, io supplicai il dio di darmi un segno, ed egli me lo diede, e mi rivelò che doveva cedere e non oppormi alla volontà dell'esercito. Malgrado questo segno, io non fui pronto ad arrendermi, ma resistetti finchè mi fu possibile, e non accettai nè il titolo nè la corona. Se non che, mentre a me non riusciva di acquietare nessuno, gli dei, i quali volevano che tutto ciò avvenisse, eccitavano i soldati sempre di più, e ammollivano, invece, la mia risoluzione, così che, verso l'ora terza, non so qual soldato, strappandosi una collana, me ne circondò il capo, ed io entrai nella reggia, sospirando, come lo sanno gli dei, dal profondo del cuore. Io ben sapeva che doveva affidarmi al segnale divino, ma mi doleva assai il parere di non serbarmi, sino alla fine, fedele a Costanzo.

«V'era, intorno alla reggia, molto turbamento. Gli amici di Costanzo, pensando di cogliere una buona occasione, mi tendono un'insidia, e distribuiscono del danaro ai soldati, nell'aspettazione di una di queste due cose, o di vederli dividersi gli uni dagli altri, o gittarsi tutti quanti apertamente contro di me. Essendosi [pg!70] accorto di questo segreto maneggio uno degli ufficiali di servizio di mia moglie, me ne dà tosto notizia, e, quando vede che io punto non me ne incarico, infuriato come un epilettico, si pone a gridare sulla piazza: — Soldati, stranieri, cittadini, non tradite l'imperatore! — Ed ecco che i soldati si esaltano, e tutti, con le armi, corrono alla reggia. Vedendomi vivo, lieti come chi, contro ogni speranza, ritrova un amico, mi circondano, mi abbracciano, mi portano sulle spalle, ed era cosa degna di vedersi, tanto parevano pieni di entusiasmo. Quando mi ebbero in mezzo, mi chiesero di consegnar loro gli amici di Costanzo, onde punirli. Quale lotta io dovetti sostenere per salvarli, lo sanno gli dei!»84.

Era proprio completamente sincero Giuliano in queste sue dichiarazioni di innocenza, in queste sue affermazioni di sorpresa e di meraviglia? Si può dubitarne, senza fargli gran torto. La condotta di Costanzo verso di lui era tale da non lasciargli alcun dubbio sulla sorte finale che lo aspettava. Se avesse fatto partire i suoi soldati, egli era un uomo perduto. A lui non restava altra difesa che la ribellione agli ordini ricevuti. Onde salvarsi, doveva dimostrare a Costanzo di avere a sua disposizione una forza maggiore della sua. Che, in tutte quelle esitazioni, in quelle suppliche agli dei, in quelle ripetute proteste, ci sia un po' di commedia, è naturale il supporlo. Ammiano ci racconta, e Giuliano ci conferma con gran calore, che gli dei gli avevano chiaramente manifestato il loro volere con un miracolo. Ma questi miracoli così opportuni non si verificano se non per [pg!71] coloro che li aspettano, onde sanzionare ciò che già hanno risoluto di fare. I soldati adoravano questo mistico filosofo al quale i gravi studi non impedivano di essere sempre il primo nei pericoli e negli stenti, e che li aveva condotti di vittoria in vittoria. Già, sul campo di battaglia di Strasburgo, avevan voluto proclamarlo imperatore85. Allora recisamente rifiutava perchè le circostanze non erano tali da costringerlo all'alternativa di ribellarsi o di perire. Ma i suoi continui successi, in guerra ed in pace, anzichè attenuare, avevano inviperiti i sospetti e la gelosia di Costanzo, così che, per salvarsi, l'eroico Cesare si trovò trascinato ad incoraggiare, se non a provocare, quella proclamazione ad Augusto, a cui, due anni prima, si era risolutamente opposto.

Che Giuliano nutrisse il presentimento ed il desiderio del suo alto destino, e che, pertanto, non sia stato del tutto estraneo al movimento soldatesco che lo ha portato al trono, si vede anche dalla lettera, diretta al fidato suo medico Oribasio, datata dagli ultimi tempi del suo cesarato86. Il sogno che vi è narrato è troppo chiaro per non essere l'espressione di un pensiero che già covava nella mente del sognatore. «Il divino Omero dice che due sono le porte dei sogni, e che, quindi, diversa è la fede che meritano le loro predizioni. Ma io credo, che tu, questa volta più che altra mai, hai veduto bene nel futuro. Poichè io stesso oggi ho avuto una visione simile alla tua. Mi pareva di vedere un alto albero, piantato in una vastissima sala, piegarsi a terra, e, dalle sue [pg!72] radici, sorgere un altro piccino, tutto a fiori. Io era in gran pena pel piccino, temendo che lo si recidesse col grande. Mentre mi avvicino, ecco il grande albero è disteso al suolo, ma il piccino è ritto e guarda il cielo. A tale vista, ansioso esclamai: — Quell'albero è caduto! E c'è pericolo che neppure il rampollo possa salvarsi! — Allora, uno, che mi era del tutto sconosciuto, disse: — Guarda bene, e fatti coraggio. La radice è rimasta nella terra, e il piccino è salvo e si consoliderà sicuramente».

Che questo medico Oribasio abbia avuto una parte importante nei maneggi che precedettero l'elezione di Giuliano, e che egli abbia adoperata la sua influenza ad accendere nel principe l'aspirazione alla dignità imperiale, non è improbabile, ed è affermato esplicitamente da Eunapio nella vita di Oribasio stesso87. Parrebbe, anzi, che Oribasio, nelle memorie da lui lasciate, si vantasse della parte avuta nell'avventura, aumentando la responsabilità dell'iniziativa in Giuliano, più di quello che ammettono Giuliano stesso ed Ammiano, pei quali la ribellione non sarebbe stata che un atto di necessaria difesa. Un fatto curioso e che può essere sintomatico è che Giuliano, a quel che narra Eunapio88, fece venire dalla Grecia in Gallia il gran sacerdote dei Misteri, l'ierofante, come si chiamava, e non si risolvette alla ribellione se non dopo aver compiuto con lui, nel massimo segreto, i riti sacri. Oribasio e il fido Evemero erano soli nella confidenza. Conoscendo l'animo superstizioso di Giuliano, reso [pg!73] ancor più superstizioso dagli insegnamenti avuti da Massimo, ben si comprende come egli volesse consultare gli dei, prima di risolversi, e come, quindi, gli riuscisse preziosa l'opera dell'ierofante. Ma la circostanza d'averlo fatto venire dalla Grecia a Parigi non può a meno di far nascere il sospetto della premeditazione. In ogni modo, son troppo scarsi i dati per poter innalzare con essi un edificio sicuro. Il meglio per noi è di attenerci alle narrazioni così precise e vivaci che troviamo nel Manifesto agli Ateniesi e nella storia dell'onesto ed imparziale Ammiano.

Quei moderni difensori di Costanzo, di cui già parlammo, e primo fra questi il Koch, in quel suo studio che è scritto con critica acuta e con grande erudizione, voglion vedere, nella rivolta di Parigi, una commedia di Giuliano, il quale vi avrebbe trovato il pretesto per ribellarsi apertamente all'imperatore. Se non che, pur non badando a quell'accento di verità che risuona nella parola di Giuliano, l'analisi, dirò così, psicologica degli uomini e della situazione persuade ogni osservatore spregiudicato, e che non sia ispirato dal demone dell'ipercritica, che il torto, in questo storico dissidio fra i due cugini, è intieramente dalla parte di Costanzo. Prima di tutto ricordiamo come sia impossibile togliere a quest'ultimo la responsabilità di quello spaventoso delitto che fu la strage della famiglia costantiniana, da lui voluta o tollerata alla morte del padre Costantino, quel delitto per cui Giuliano poteva pubblicamente chiamarlo «l'assassino del padre mio, dei fratelli, dei cugini, potrei dire il carnefice di tutta la nostra comune famiglia e parentela»89. [pg!74] Contro un uomo siffatto sono giustificate le più nere prevenzioni. Sospettoso di tutto e di tutti, Costanzo era sempre pronto ad aprire l'orecchio ai calunniatori. Primo, fra questi, quell'eunuco Eusebio, che gli stava al fianco, come ispiratore d'ogni suo atto, che lo spingeva sempre più avanti nella crudeltà, a cui naturalmente tendeva, e che fu il suo cattivo genio90. Costui lo aizzava contro Giuliano, in cui vedeva un temibile successore all'impero. Provava per lui quell'odio che le anime basse hanno naturalmente per gli uomini generosi e forti. Eusebio rappresentava la corruzione e il vizio regnanti nella Corte; Giuliano l'onesta semplicità e la rettitudine dello studioso, vissuto, lungi dagli intrighi, nell'ambiente puro di aspirazioni ideali. Eusebio doveva guardare l'avvicinarsi di Giuliano come il principio della sua rovina. Egli, pertanto, non cessava dal versar veleno nell'animo del credulo e perverso Costanzo. Se non fosse stata la salutare azione dell'imperatrice, Giuliano non sarebbe scampato ai sospetti del cugino. Certo, quei sospetti tacquero, per un istante, sotto la minaccia crescente delle invasioni germaniche, e Costanzo si lasciò persuadere dalla moglie a mandare il cugino in Gallia. E vogliamo anche ammettere che, sulle prime, fosse in buona fede, poichè, dopo tutto, ciò che più importava pel momento era di metter freno all'irrompere dei nemici. Ma i sospetti dovevano riaccendersi pei successi ottenuti da Giuliano e per la gloria che a lui ne veniva. E ripresero forza le influenze malvage che attorniavano l'imperatore, influenze che, scomparsa per morte la bella Eusebia, [pg!75] non avevano più ritegno. A me non par dubbio che l'ordine improvviso e sconsigliato con cui Costanzo, d'un tratto, chiamava in Oriente la parte migliore dell'esercito di Gallia fosse ispirato dal desiderio di mandar Giuliano a perdizione. Certo, la posizione di Costanzo, in Oriente, dopo la caduta d'Amida era scabrosa91, e la Mesopotamia correva pericolo di essere interamente invasa dai Persiani. Ma non erano i soldati che mancavano a Costanzo, mancava una saggia direzione della guerra, direzione resa impossibile dalle insinuazioni calunniatrici degli eunuchi che circondavano l'imperatore, dei quali Ammiano ci fa una così curiosa pittura92. In ogni modo, se Giuliano era riuscito, col suo valore, a rigettare i Germani al di là del Reno ed a ridare la pace alla Gallia, la sua posizione rimaneva pur sempre pericolosa, e non era dubbio che, lasciata la Gallia non sufficientemente difesa, le invasioni sarebbero ricominciate93. Costanzo, lasciando il Cesare indebolito davanti al pericolo risorgente, voleva ch'egli pure avesse la sua parte della vergogna di cui la caduta di Amida lo aveva coperto in Oriente.

Ma la considerazione più forte è che Giuliano, se non fosse stata evidente l'intenzione ostile dell'imperatore contro di lui, non si sarebbe ribellato, perchè non avrebbe avuto nessun interesse a farlo. In posizione eminente, unico rampollo della famiglia di Costantino, giovanissimo, pieno di gloria, adorato dai soldati, Giuliano non aveva che da aspettare. Costanzo, [pg!76] più vecchio di lui di quindici anni, non aveva figli. L'impero gli sarebbe caduto nelle mani naturalmente, mentre la ribellione lo esponeva ai pericoli di una guerra civile, la quale assai probabilmente sarebbe finita con la sua catastrofe. Pare, pertanto, non possa esser dubbio che Giuliano sia stato trascinato alla ribellione dalla necessità della propria salvezza. Piuttosto che abbandonarsi alla sorte che gli pendeva sul capo, decise di affrontare il pericolo. Può darsi che, nei preparativi della ribellione, egli abbia avuto una parte maggiore di quella che vorrebbe far credere. Ma sarebbe ingiustizia il farne risalire a lui la responsabilità.

Di ciò io sono tanto convinto che non esito a credere nella sincerità dei tentativi di accordi e di transazione da lui fatti con Costanzo, onde evitare la guerra civile. Era troppo grande il rischio, troppo incerta la sorte di un urto fra i due rivali, perchè Giuliano, nella temperanza e nella chiarezza del suo giudizio, non dovesse cercare ogni mezzo per evitarlo. E che egli lo facesse, con accettabile larghezza di proposte, lo dimostra Ammiano e lo confermano le parole stesse di Giuliano.

Ammiano ci dà il testo della lettera che Giuliano scrisse a Costanzo per dargli notizia degli avvenimenti e proporgli condizioni accettabili. Le condizioni erano queste. — Costanzo doveva riconoscere e sanzionare quanto era avvenuto; Giuliano si obbligava a mandargli ogni anno degli aiuti d'uomini e di cavalli. Costanzo avrebbe nominato il Prefetto del pretorio, come a dire il primo ministro della Gallia, ma tutti gli altri impiegati militari e civili sarebbero stati nominati da Giuliano. Nel finire la sua lettera, Giuliano dimostra l'inopportunità ed il pericolo del disegno di [pg!77] portare in Oriente le truppe galliche, abituate ai loro paesi ed ancor necessarie alla difesa della Gallia stessa, ed esprime la speranza che la concordia dei due principi giovi alla loro gloria ed alla salute dell'impero94.

I due messi di Giuliano, Pentadio ed il fidato Euterio, raggiungono Costanzo a Mazaca, città della Cappadocia, occupato nei preparativi della guerra persiana. Avuta comunicazione, in udienza solenne, della lettera di Giuliano, Costanzo si accende di terribile sdegno, e scaccia gli ambasciatori non volendo nè chiedere nè udir nulla. E manda, come suo ambasciatore a Giuliano, il questore Leona con una lettera, in cui gli ingiunge di contenersi nei limiti della concessa autorità di Cesare, e, in prova della sua risoluzione di non cedere nulla dei suoi diritti, gli presenta un lungo elenco di nuove nomine ai diversi uffici del governo della Gallia95. Giuliano, che egregiamente sapeva rappresentare la sua parte di pretendente e di ribelle, riunisce, nel campo militare, i soldati e i cittadini e fa leggere l'editto di Costanzo. Giunta la lettura al punto in cui era detto che a Giuliano doveva bastare l'autorità di Cesare, un immenso e terribile clamore s'innalza d'ogni parte, e gridano tutti, soldati e cittadini: — Giuliano Augusto come lo vogliono la Provincia, l'esercito e la repubblica! — Leona se ne parte vedendo la posizione disperata. Giuliano, in relazione alle condizioni da lui stesso offerte, accetta Nebridio come prefetto del pretorio. Ma cancella tutte le altre nomine di Costanzo, e sceglie, di sua autorità, gli impiegati degli altri uffici96.

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L'instancabile Giuliano non riposa nella nuova e suprema dignità di cui è rivestito. Prima che ricominci l'inverno, ripassa il Reno e conduce una rapidissima e fortunata campagna contro alcune tribù di Franchi, e poi, disposte le opportune difese, va a svernare a Vienna.

Nell'inverno dal 360 al 361, Giuliano è ancora incerto di prendere l'iniziativa della guerra contro Costanzo. Intanto egli celebra, con grande pompa, il quinto anniversario del suo governo nella Gallia, e si mostra al popolo ed ai soldati, cinto il capo di un diadema splendido di gemme. Se non che, in mezzo a questi festeggiamenti, lo coglie una grave sciagura, la morte della moglie Elena, avvenuta, per effetto di un lento veleno, propinatole, al dire di Ammiano97, tre anni prima, in Roma, dalla gelosa Eusebia, non tanto, narra lo storico, per ucciderla, quanto per impedirle di mai aver figli. Terribile accusa la quale rischiara di fosca luce il dramma d'amore che pare segretamente intessuto nella burrascosa esistenza del filosofo imperiale98.

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A troncare l'incertezza e la preoccupazione di Giuliano, sorge un fatto nuovo, pel quale egli acquista la convinzione di trovarsi esposto al più grave pericolo. Scopre che Costanzo congiurava, a suo danno, coi re barbari, così che, se non pigliava pel primo le mosse, quando ancor gli accordi non erano maturi, avrebbe finito per trovarsi circondato da ogni parte, e costretto a combattere insieme gli eserciti germanici e l'esercito di Costanzo, coalizzati contro di lui. Egli aveva potuto impadronirsi della corrispondenza fra Costanzo ed il re Vadomario, e, con un tranello, era anche riuscito a far prigioniero quel re ed a sventare la trama99. «Costanzo — scrive Giuliano agli Ateniesi — istigava i barbari contro di me, mi chiamava suo nemico, e li pagava affinchè devastassero la Gallia. Scriveva ai suoi luogotenenti in Italia di guardarsi da coloro che venivano dalla Gallia, e comandava che si raccogliessero, nelle città vicine ai confini della Gallia, trecento miriadi di medimmi di grano, ed altrettanto ne faceva preparare nelle Alpi Cozie, come se volesse marciare contro di me. Queste non son parole, son fatti constatati. Io ebbi in mano, portate dai barbari stessi, le lettere ch'egli scriveva, e mi impadronii delle preparate provviste»100. È vero, continua Giuliano, che Costanzo mandava a [pg!80] lui il vescovo Epitteto a promettergli la vita salva e sicura. Ma non faceva parola di accordo e di riconoscimento dei fatti compiuti. E, quanto ai giuramenti di Costanzo, questi erano per Giuliano tanto labili come se scritti sulla cenere. D'altra parte, conclude Giuliano «se, per voler rimanere nella Gallia e per evitare il pericolo, io mi fossi trovato chiuso d'ogni parte, circondato dagli eserciti barbari e preso di fronte dai suoi, io era perduto, e perduto con vergogna, ciò che, pei saggi, è ancor peggio di qualsiasi sciagura»101.

Forse, nell'accusa che Giuliano muove a Costanzo di stringere segretamente accordi coi barbari a suo danno, c'è un po' d'esagerazione. Stando al racconto d'Ammiano, tutto si riduce all'episodio di Vadomario, e la corrispondenza fra Costanzo ed i re barbari che Giuliano dice d'aver avuto in sua mano sarebbe rappresentata dalla sola lettera di Vadomario, che pur parrebbe, a quanto ne riferisce Ammiano, di non grande importanza. È vero che anche Libanio102 dà molto peso all'episodio e vi vede l'indizio di una vasta congiura. Ma Libanio, sempre interessante come pittore d'ambiente, non merita gran fede come narratore di fatti, perchè la retorica, troppo spesso, gli prende la mano. Certo, è probabile che Costanzo non rifuggisse dall'idea di avere, in qualche barbaro, un alleato contro l'aborrito cugino, e più probabile ancora che l'astuto Vadomario corresse incontro al desiderio dell'imperatore. Ma è lecito credere, senza fare un gran torto al nostro eroe, che, nelle sue relazioni [pg!81] posteriori, ingrandisse di molto le cose, onde trovarvi la giustificazione della propria condotta. Se, del resto, Costanzo non aveva ancora compiuto quel delitto di lesa patria, egli aveva tutta la capacità del delinquere. E Giuliano ben lo sapeva.

Durante questi mesi di incertezza, passati a Vienna, Giuliano tenne una condotta religiosa che gli è attribuita a colpa grave, come un atto di pretta impostura. Egli era ancora esitante sul momento opportuno di accendere la guerra civile, ma la riteneva ormai inevitabile. Era, dunque, naturale che cercasse di avere, intorno a sè, il maggior numero di fautori, di non crearsi dei nemici che lo disturbassero nella preparazione dell'impresa. Ora, Giuliano, come noi sappiamo, era, già da tempo, convertito al Paganesimo. Per quanto, per ragioni di prudenza, tenesse celata la cosa, pure se ne buccinava intorno, e gli amici dell'antico ne traevano argomento di compiacenza e di speranza. Ma, nelle circostanze difficili in cui si trovava, Giuliano non voleva inimicarsi i Cristiani i quali, probabilmente, già sussurravano contro di lui e ne temevano la vittoria. Ed egli credette necessario di dar loro una soddisfazione che disarmasse il sospetto. Nel giorno dell'Epifania, solennemente festeggiato dai Cristiani di Vienna, Giuliano entrò nel loro tempio e fece atto pubblico di preghiera al dio cristiano: «feriarum die, quem celebrantes, mense Januario, Christiani Epiphania dictitant, progressus in eorum ecclesiam, solemniter numine orato, discessit»103.

Non si può negare che, in quel momento, la ragione di Stato fosse prevalente, nell'animo di Giuliano, [pg!82] sulla voce della coscienza. E non c'è dubbio che, dal punto di vista religioso, quell'azione sia stata riprovevole. Giuliano non era solo un politico, era un filosofo, un pensatore. La sua coscienza di pensatore e di filosofo doveva protestare contro la transazione. Ma, talvolta, nella vita, le contraddizioni s'impongono e diventa impossibile il sottrarvisi; in quel momento supremo della vita di Giuliano, l'imperatore ed il filosofo venivano ad urtarsi, e la forza delle cose voleva che l'imperatore facesse tacere il filosofo.

Ma questo filosofo, se si può usare tale parola per un mistico entusiasta, riprendeva, nel secreto, la rivincita. Giunto l'istante della risoluzione suprema, Giuliano, prima di riunire i soldati onde annunciar loro la sua partenza per l'Oriente e la guerra dichiarata contro Costanzo, fa segretamente un sacrifizio a Bellona104. Poi, sentendosi come consacrato e sicuro per l'arrischiata impresa, si presenta all'esercito. Espone il piano di attraversare l'Illiria e di giungere nella Dacia, mentre quelle regioni erano sprovviste di difesa. Là prenderà consiglio su quanto converrà di fare. Chiede ai soldati di serbarsi fedeli a lui che già li ha condotti a tante vittorie. Il discorso di Giuliano è accolto con immenso applauso105; i soldati, brandendo le spade, giurano solennemente di esser pronti a dar la vita per lui. E, dietro i soldati, tutti i capi e tutti gli impiegati. Il solo Nebridio non volle seguirlo, dichiarandosi troppo legato a Costanzo da antichi benefici ricevuti. Giuliano salva dall'ira dei soldati l'onesto legittimista, ma, quando, rientrato nella reggia, [pg!83] lo vede venirgli incontro e chiedergli che, in segno di benevolenza, conceda a lui di stringergli la destra, gliela rifiuta, con un'ironia, non priva d'amarezza, dicendo: — «Credi tu, forse, di poter esser salvato ai tuoi amici a cui tanto premi, se si saprà che tu hai toccata la mia mano? Vattene da qui, e dove vuoi, sicuro»106.

Risoluta l'impresa contro Costanzo, Giuliano l'eseguisce con una rapidità fulminea e con un'audacia che rivela quale mirabile uomo d'azione diventasse all'occorrenza questo meditabondo sognatore. Non lascia indifesa la Gallia, e la consegna, col grosso dell'esercito, alle mani fidate ed abili di Sallustio. Poi, volendo far credere che si avanzasse sopra Costantinopoli con forze immense, divide i suoi soldati in tre squadre, di cui l'una, sotto il comando dei generali Giovino e Giovio, doveva attraversar l'Italia settentrionale; l'altra, guidata da Nevitta, passar per la Rezia; egli poi, con un manipolo fidato, toccata Basilea, per la selva nera, giungeva alla riva del Danubio107. La percorreva, finchè, trovato navigabile il fiume, continuava su di esso il suo viaggio, non fermandosi in nessuna città o accampamento, perchè a lui ed alla piccola sua truppa bastavano le provviste che portavano con sè. Intanto, nell'Italia e nell'Illiria, si spargeva la fama che Giuliano, annientati i nemici di Gallia e di Germania, si avanzava con poderoso esercito, e questa voce bastava a gittar lo sgomento e [pg!84] la confusione, ed a far fuggire dalle loro sedi, in quelle regioni, due dei più alti funzionari di Costanzo, già compromessi davanti a Giuliano, cioè, il noto Florenzio e Tauro che aveva tenuto mano agli accordi di Costanzo coi re barbari108.

Libanio narra come Costanzo, non ammettendo nessuna possibile conciliazione, munisse tutte le vie per le quali Giuliano poteva venire dalla Gallia in Oriente. «Ma questi, lasciando che i suoi nemici custodissero le vie comuni, ne percorse una, insolita e breve, e piena di ostacoli, come se Apollo lo guidasse e gli appianasse i passi difficili. Così, sfuggito a coloro che dovevano fermarlo, al momento opportuno, apparve, quasi sorgendo dall'abisso, simile ad un pesce, scampato dalla rete, che si nasconde sotto le onde del mare, non visto da quelli che stanno sul lido»109. Altrove il retore esprime tutta la meraviglia dei contemporanei per l'audace novità della via, scelta da Giuliano. «Che dobbiamo — egli esclama — ammirar di più? O la tua vigilanza, o il valore dei seguaci, o la nuova via, per la quale, navigando quasi sempre, mentre ti si aspettava per terra, desti segno del movimento a cosa compiuta, o la navigazione attraverso genti barbariche, o la bellezza dei doni che ti portavano sulle sponde del fiume, onde la tua flotta, navigando, si avvicinasse, a loro? Io amo il Danubio, che a me par più bello del bell'Enipeo, più utile del fecondo Nilo, perchè ha sostenuto, sulle sue onde propizie, le navi che portavano al mondo la libertà»110.

[pg!85]

Sul basso Danubio, a Sirmio, la capitale della provincia, trovavasi Lucilliano, il quale, raccolti, in fretta e in furia, dalle città vicine, i pochi soldati che poteva, pensava di resistere all'inaspettato invasore. Ma Giuliano, giunto a Bononea, l'attuale Bonistar, vicina a Sirmio, nell'oscurità della notte, scende a terra, e manda Dagalaifo a sorprendere Lucilliano. Il colpo riesce completamente, e Lucilliano è condotto al cospetto di Giuliano. Il generale di Costanzo è stupefatto e tremante, ma Giuliano cortesemente gli presenta a baciare la porpora imperiale. E Lucilliano, rassicurato ed inorgoglito: — È impresa — esclama — incauta e temeraria, o imperatore, arrischiarti con pochi in estranee regioni! — E a lui Giuliano con amaro sorriso: — Serba, risponde, per Costanzo queste parole di prudenza. Io ti ho sporta l'insegna della mia maestà non già perchè voglia i tuoi consigli, ma perchè tu finisca d'aver paura —111.

Nella notte stessa, Giuliano si avanza verso Sirmio. Ed ecco i cittadini tutti e i soldati gli escono incontro con fiaccole e fiori, gridandolo Augusto e conducendolo alla reggia. Lieto di questo primo e grande successo, Giuliano, facendo uno strappo alla sua severità, offre al popolo uno spettacolo di corse. Ma, al terzo giorno, impaziente di riposo e di indugio, corre ad occupare il passo di Succi, nei Balcani, ond'essere padrone della strada di Costantinopoli, e lo consegna alla difesa del fido Nevitta. Ridisceso a Nissa, provvede all'amministrazione della seconda Pannonia, che ormai è in suo potere, chiamando a reggerla lo storico Aurelio Vittore, e manda un manifesto al Senato [pg!86] di Roma, onde accusare Costanzo, annunciare e giustificare la sua assunzione all'impero112.

Intanto la posizione militare di Giuliano diventava inquietante. Egli aveva trovate, a Sirmio, due legioni della cui fedeltà verso di lui non era sicuro. Ed egli ebbe il pensiero di liberarsene, mandandole in Gallia. Ma quelle legioni non gradivano punto la nuova destinazione e non la gradiva nemmeno il loro capo Nigrino, natio della Mesopotamia. Esse partirono da Sirmio, ma, giunte ad Aquileja, chiusero le porte della città e si dichiararono, d'accordo con gli abitanti, partigiane di Costanzo113. Aquileja era città fortissima, il cui assedio avrebbe voluto gran tempo. Giuliano ordina a Giovino, che arrivava dall'Italia col grosso delle truppe, di fermarsi intorno ad Aquileja e di stornare, in qualche modo, il pericolo. Ma, intanto, si oscurava l'orizzonte nella Tracia stessa. Le truppe di Costanzo si riordinavano, e si avvicinavano al passo di Succi, sotto la condotta di Marziano. Se Costanzo arrivava dall'Oriente, prima che Giuliano avesse avuto vittoria degli eserciti vicini, quest'ultimo era perduto. Per verità Libanio non dubita che, anche nel caso di una battaglia fra i due cugini, la vittoria sarebbe stata per Giuliano. «Se anche si fosse dovuta risolvere la lite col ferro, lo scioglimento non sarebbe stato diverso. Solo sarebbe corso il sangue, ma poco e vile. Poichè, all'infuori di poche schiere, guadagnate da Costanzo, tutti i soldati vivevano per te, e pareva che a te corressero per esser da te ordinati e condotti»114. Ma Giuliano non partecipava [pg!87] affatto a tale sicurezza, probabilmente ispirata a Libanio dall'adulazione ed anche dall'affetto pel vincitore. Giuliano, anzi, sentiva la gravità estrema della sua posizione. Risolve d'abbandonare, pel momento, l'espugnazione di Aquileja a cui penserà più tardi, e chiama presso di sè l'esercito indugiante nell'Illiria, esercito fedele e provato nelle ardue campagne barbariche. Con un'attività veramente geniale di capitano e di organizzatore115, si prepara ad una guerra disperata, quando un improvviso avvenimento disperde la tempesta, e lo solleva, d'un colpo e senza contrasto, al sommo della fortuna.

Mentre Giuliano si avvicinava come usurpatore a Costantinopoli, Costanzo trovavasi ad Edessa, impigliato nella guerra contro i Persiani. Ad Edessa arrivava l'annuncio che Giuliano, rapidamente percorsa l'Italia e l'Illiria, aveva già occupato il passo di Succi e stava per invadere la Tracia. Lo stupore ed il furore si alternano nell'animo di Costanzo, ma egli non era uomo di perdersi di coraggio nelle discordie domestiche e civili. Raccoglie l'esercito, espone il tradimento di Giuliano e lo invita a punire il ribelle116. L'esercito lo acclama, ed egli, composte pel momento, come meglio poteva, le difficoltà persiane, manda avanti, con buon nerbo di truppe, i due generali Arbizione e Gomoario, quest'ultimo nemico personale di Giuliano, col proposito di seguirli da presso. Infatti va ad Antiochia, ed impaziente d'ogni indugio, insofferente di riposo, turbato da oscuri presentimenti, riparte tosto per Tarso. Le fatiche, l'ira, l'emozione [pg!88] lo avevano scosso. A Tarso è colto da lieve febbre. Ma egli afferma che il moto deve giovargli, e va avanti e giunge, per via faticosa, a Mopsucrene, al confine della Cilicia. Ne vuol ripartire il giorno dopo, ma non può per la violenza della febbre, e, in breve, muore, designando, si narra, col solo atto generoso di tutta la sua vita, successore suo il cugino, il ribelle Giuliano. Appena spirato Costanzo, si riuniscono i capi dell'esercito, e risolvono di mandare a Giuliano due ambasciatori, Teolaifo ed Aligildo, i quali, in nome dell'esercito stesso, lo invitassero ad assumere, senza indugio, la signoria di tutto l'impero117.

Giuliano, avuta l'inattesa ambasciata, in immensum elatus, come dice Ammiano, non pone tempo in mezzo, e muove, con tutti i suoi soldati e con seguito di gente innumerevole, verso Costantinopoli. Era una letizia, un trionfo non mai veduto. Sembrava la processione di un dio. Il passaggio dalle ansie di una guerra terribile, combattuta per l'impero, alla pacifica consacrazione col consenso di tutti, era stato tanto rapido da parere un miracolo. «Quando, narra Ammiano, si seppe, a Costantinopoli, del suo prossimo arrivo, uscì ad incontrarlo il popolo tutto, senza distinzione di sesso e di età, quasi credesse di vedere un'apparizione celeste. Ricevuto, alle Idi di dicembre, fra i devoti omaggi del Senato e gli applausi delle turbe popolari, in mezzo a schiere d'armati e di togati, Giuliano procedeva fra una moltitudine ordinata, e tutti gli occhi si volgevano a lui, non solo per curiosità, ma con grande ammirazione. Sembrava, infatti, un sogno che questo giovane, di figura [pg!89] esigua, già illustre per eroiche imprese, dopo lotte sanguinose con re e con popoli, passando, con non mai vista prestezza, da città in città, dovunque arrivava, avesse facile dominio e pronta adesione d'uomini e di cose, e, finalmente, ad un cenno divino, assumesse l'impero senza nessuna jattura della pubblica fortuna»118.

Chi mai avrebbe detto che quel sogno, in meno di due anni, sarebbe scomparso, e che questo giovane, a cui pareva si aprisse un avvenire fecondo di gloria e di fortuna, sarebbe, in men di due anni, perito, non lasciando di sè altro ricordo se non quello di aver miseramente sciupate le sue forze e le sue doti meravigliose in un folle tentativo di restaurazione religiosa!

Giuliano, entrato trionfante a Costantinopoli, volle, per prima cosa, purificare l'ambiente politico e morale. Ma qui egli non ebbe la mano felice, o, almeno, non si mostrò immune dalle abitudini del suo tempo. Si lasciò trasportare dal sentimento della vendetta e sanzionò le condanne pronunciate da una commissione inquirente, da lui nominata, per giudicare gli uomini più influenti del regno di Costanzo, nei quali egli sapeva o supponeva d'aver avuto dei nemici personali. L'onesto Ammiano deplora acerbamente alcune di queste condanne, e ne dà colpa principale ad Arbizione, generale di Costanzo, uomo infido e perverso, che Giuliano aveva avuto il torto di chiamare presso [pg!90] di sè e che, con gli eccessi del rigore e coll'acuire i rancori di Giuliano, cercava di guadagnarsi la grazia del nuovo padrone. Questo triste episodio è una macchia della carriera di Giuliano. Però, siccome i denigratori di Giuliano prendono da ciò argomento ad oscurarne la fama, osserveremo, in primo luogo, che Giuliano, per quanto uomo superiore, pure apparteneva al suo tempo, e, se anche noi vorremmo vederlo più generoso, non possiamo dimenticare che, venuto dopo imperatori crudelissimi come Costantino e Costanzo, egli, in un momento solo e in minima parte, ne ha seguito l'esempio. Delle cinque condanne a morte da lui sanzionate, tre, quelle di Apodemio, di Paolo e dell'eunuco Eusebio, sono approvate anche da Ammiano, tanti e tali erano stati i delitti di quei cortigiani di Costanzo. La condanna di Palladio non appare sufficientemente giustificata, e veramente riprovevole, secondo Ammiano, fu quella di Ursulo, ufficiale preposto alle elargizioni imperiali, che, per la sua parsimonia, era caduto in odio dell'esercito, durante le campagne persiane di Costanzo119. Certamente, Ursulo fu vittima di una vendetta di Arbizione, e Giuliano, con colpevole debolezza, non ha avuto il coraggio di salvarlo. E ne sentì rimorso, e cercò di rovesciare la responsabilità dell'ingiustizia commessa sugli infrenabili risentimenti militari120, e, come narra Libanio121, ne risarcì la memoria, col lasciare alla figlia una gran parte dei beni paterni. All'infuori di queste, non vi furono altre condanne [pg!91] a morte. Quei molti nemici che non avevano cessato di scagliare contro di lui accuse e calunnie furono condannati semplicemente all'esiglio, ciò che dà occasione a Libanio di esaltare la clemenza di Giuliano che li ha risparmiati e si è accontentato di mandarli a vivere nelle isole, dove «aggirandosi solitari avranno imparato a trattenere la lingua»122.

Ma, se tali rappresaglie, per quanto giustificate, in parte dai costumi del tempo, e in parte anche dagli spiegabili risentimenti di Giuliano, così ferocemente combattuto in tutta la sua vita, non son certo a lodarsi, e se decisamente riprovevole fu la condanna di Ursulo, pare, invece, degna di encomio la prontezza con cui ha ripulito la Corte di Costantinopoli delle turbe di parassiti che vi vivevano con lauti stipendi ed ammucchiavano ricchezze scelleratamente guadagnate123. Ammiano, che non risparmia i rimproveri al suo eroe, osserva che è stato troppo precipitoso in quest'opera di risanamento e che non ha mostrato lo spirito indagatore e prudente del filosofo. Ma la pittura ch'egli fa della corruzione della Corte di Costanzo può giustificare la radicale epurazione compiuta da Giuliano. Tale epurazione è considerata da Libanio come uno degli atti più lodevoli di Giuliano. La descrizione che il retore d'Antiochia tratteggia della Corte di Costanzo è ancor più spaventosa di quella di Ammiano. «Vi si vedeva una folla oziosa, sfacciatamente mantenuta, mille cuochi, in numero non minore i barbieri, ancor più numerosi i coppieri, sciami di scalchi, di eunuchi, più fitti delle mosche sugli armenti [pg!92] in primavera, e innumerevoli vespe d'ogni specie. E ciò s'intende, perchè per gli oziosi e pei ghiottoni non v'era rifugio tanto sicuro come l'esser iscritti fra i servitori dell'imperatore»124. E tutta questa turba viveva e prosperava di prepotenze e di eccessi125.

Finalmente Giuliano potè dare esecuzione al voto più ardente del suo cuore, a quel voto che era il segreto movente d'ogni sua azione. «Venuto il tempo di far ciò che voleva, rivelò gli arcani del suo petto, e, con decreto esplicito ed assoluto, stabilì che si aprissero i templi, che si presentassero le vittime agli altari, e si restaurasse il culto degli dei. E, per rendere più efficaci queste disposizioni, chiamava alla reggia i vescovi dissidenti dei Cristiani, con le loro plebi, e cortesemente li ammoniva che, sopite le discordie, ognuno, senza paura, servisse la propria religione. Giuliano ciò faceva nella convinzione che la licenza avrebbe aumentate le discordie, e così egli non avrebbe avuto, più tardi, a temere una plebe unanime contro di lui. Sapeva, per esperienza, che non vi sono belve tanto feroci contro gli uomini, quanto lo sono i Cristiani fra di loro»126. Ritorneremo, più [pg!93] avanti, su questo atto tanto curioso per un imperatore che voleva restaurare il paganesimo. Ora, seguiamolo nella sua vita politica.

Con la sua mirabile attività, Giuliano, nei mesi di sua dimora a Costantinopoli, attendeva all'amministrazione della giustizia e non trascurava le cose militari, munendo di opportune difese e di validi presidii il corso del Danubio, contro i possibili attacchi dei Goti. Lo consigliavano alcuni a tentare un'impresa contro questi barbari, così da debellarli per sempre. Ma egli diceva di voler nemici migliori, ed era, come or vedremo, guidato da un pregiudizio che lo doveva condurre alla rovina.

Intanto la fama della sua potenza e della sua saggezza si spandeva per tutto il mondo, ed a lui giungevano ambascerie dalle più lontane regioni, dall'India e dal misterioso Oriente, dal Settentrione e dalle regioni del Sole apportatrici di omaggi e doni, chiedenti pace ed amicizia127.

Ma Giuliano non era uomo da vivere contento e tranquillo in una così grande fortuna. Egli sognava ardue imprese e gloria. Erano, come già vedemmo, due uomini in lui, il pensatore e l'uomo d'azione, i quali portavano, nell'esercizio delle loro facoltà, la medesima irrequietudine e la medesima intensità di vita. Il pensiero di risollevare l'Ellenismo, oggetto del suo più vivo affetto, non bastava a riempire la sua esistenza. Il soldato, il capitano volevano la loro parte, e lo spingevano a qualche grande impresa. Ora, Giuliano era uomo del suo tempo, e partecipava alle antiche tradizioni del mondo greco-romano, ed a quel pregiudizio che, insieme al bisogno di fuggire dalla [pg!94] città che gli ricordava i suoi delitti128, aveva indotto Costantino a trasportare la capitale dell'impero da Roma a Bisanzio, il pregiudizio che il centro di gravità del mondo civile fosse l'Oriente, per cui lì si richiedevano le maggiori difese, lì era il maggior pericolo, lì doveva conservarsi e salvarsi la civiltà. Le invasioni e i tumulti barbarici, che costringevano gli eserciti imperiali a lotte continue al nord delle Alpi e lungo le rive del Reno e del Danubio, non erano che episodi gravi talvolta, ma che pareva non avrebbero mai compromessa la compagine dell'impero. Giuliano, che pur aveva combattuto, per cinque anni, corpo a corpo, coi Germani, non aveva, neppur lui, misurata la grandezza del pericolo, non aveva presentita la vicina rivoluzione del mondo. Nutrito, fino al midollo, di coltura ellenica, riviveva nel tempo in cui la Grecia aveva salvata la civiltà occidentale, resistendo con immortale eroismo alle armate di Dario e di Serse. L'idea di rinnovare quelle lotte gloriose e di sconfiggere la potenza persiana, che riappariva minacciosa, aveva per lui un'irresistibile attrattiva. Eppure, egli era vittima di un'illusione. La Persia era una forza pressochè esaurita, e che, in ogni modo, sarebbe stata sempre incapace di porre a serio repentaglio la sicurezza dell'impero. Ben altro era il pericolo barbarico. Un imperatore di genio avrebbe dovuto cercare di andar alla radice del male, togliendo l'impero alla minaccia di invasioni distruggitrici. Se Giuliano, seguendo l'illuminato consiglio che dalla Gallia gli mandava il fido Sallustio129, avesse lasciato in pace i Persiani, e poi, passando il [pg!95] Danubio, avesse radicalmente domati i Goti, e collocato, nel centro della Pannonia, un organismo di civiltà e di colonizzazione che impedisse il movimento delle orde orientali sui popoli germanici e il conseguente spostamento di questi dalle loro sedi, egli avrebbe, forse, davvero salvata la civiltà. Oppure, avrebbe potuto ritornare nella sua Gallia, e, padrone assoluto di tutte le forze dell'impero, far di questa un punto di partenza, per l'invasione e la soggezione della Germania, promuovendo a rovescio, cioè, verso la Persia e verso l'India, il movimento di emigrazione che riuscì fatale all'impero ed alla civiltà. Ma Giuliano non vedeva, non pensava che la Persia. Nel 337 il re Shapur o Sapore, come lo chiama Ammiano, aveva presa l'iniziativa della guerra contro l'impero, e Costanzo, durante il suo regno, era stato continuamente afflitto da quella preoccupazione, perchè la guerra si trascinava malamente, senza mai venire ad una definitiva conclusione. Quando Giuliano, apertamente ribelle, mosse contro il cugino, questi, come sappiamo, potè volgersi contro di lui, perchè esisteva col re Sapore una tregua, se non per accordo stabilito, almeno per tacita intesa. Ma le cose eran rimaste in una condizione di incertezza da giustificare, nell'apparenza, l'impresa che Giuliano desiderava di compiere. La campagna infelice, condotta da Costanzo contro i Persiani, nella quale, malgrado la grandezza dei preparativi, egli non aveva data altra prova che di debolezza e di paura, aveva siffattamente aumentato il prestigio del nome persiano da paralizzar del tutto l'energia dell'esercito imperiale. Libanio130 fa una vivace pittura [pg!96] dell'avvilimento dei soldati, prodotto dalla coscienza che essi avevano della superiorità dei Persiani. «Era tanto e così fondato in essi il timore dei Persiani, accumulatosi in molti anni, da potersi dire che essi li temevano anche dipinti». È certo che questa condizione dello spirito militare fu, per l'eroico Giuliano, uno stimolo a gittarsi nell'impresa, col proposito di risollevarlo mercè il vigore della condotta e l'esempio del valore, come, infatti, gli riuscì. «Questi uomini così avviliti quell'eroe, li condusse contro i Persiani. Ed essi lo seguirono, memori ancora dell'antico valore, e persuasi di attraversare intatti anche il fuoco, pur che seguissero i suoi consigli».

Risoluto di portarsi, col suo esercito, sull'Eufrate, l'imperatore lascia, nell'estate del 362, Costantinopoli, e va prender dimora ad Antiochia, onde esser più vicino al teatro della guerra, e farne il centro dei grandi preparativi che, nella sua sapienza delle cose militari, ben sapeva necessari all'audace impresa. Percorre, nel viaggio da Costantinopoli ad Antiochia, una regione a lui nota e cara. Si ferma a Nicomedia, e piange col popolo la rovina della già splendida città, presso che annientata dal terremoto, e rivede antichi amici e compagni di studio. Tocca Nicea, e fa una gita a Pessinunte onde visitare e venerare l'antico santuario della Madre Cibele. E qui, nella notte, l'infaticabile uomo scrive il suo lungo discorso intorno alla Madre degli dei, uno dei principali documenti della sua dottrina mistica e mitologica. Poi, passando per Ancira e Tarso, entra in Antiochia, orientis apicem pulcrum, come la chiama Ammiano che vi era [pg!97] nato, accolto fra immense acclamazioni, che lo salutavano come un astro salutare novellamente acceso in Oriente.

Giuliano rimase ad Antiochia dall'agosto del 362 al marzo del 363. Questi pochi mesi costituiscono uno degli episodi più interessanti della vita di Giuliano. Antiochia era una città di piaceri e di lusso. La sua popolazione mobile d'animo, leggera, rumorosa e maldicente, di null'altro desiderosa che di svaghi e di spettacoli, aveva accolto con entusiasmo il giovane imperatore, perchè aveva supposto di trovare in lui un promotore di divertimenti, un esempio di dissolutezza. Il disinganno è stato profondo ed acerbo. Giuliano amministrava la giustizia con somma equità e temperanza; egli stesso si occupava delle condizioni economiche della città, regolava i prezzi delle derrate, curava l'approvvigionamento, provvedeva ai bisogni edilizî, era infine, un sovrano esemplare, ma viveva, insieme, con sì grande severità di costumi, mostrava un tale aborrimento degli spettacoli pubblici, si sprofondava, con una così assorbente intensità di volere e di lavoro, nei suoi doveri civili e militari, che i frivoli Antiochesi passarono ben presto dalla meraviglia allo scherno ed al disprezzo. Quel giovane che rifiutava tutte le mollezze del lusso orientale, che affettava la rozzezza nel portamento e nel vestire, che portava la barba, che non aveva nessuno dei requisiti che essi si erano imaginati di trovare in lui, divenne per loro cordialmente antipatico e, siccome ben si sapeva che l'impertinenza sarebbe rimasta impunita, i poetastri e i libellisti approfittarono dell'indulgenza dell'imperatore e sparsero per Antiochia satire ed epigrammi che formavano la delizia della frivola città. Ma Giuliano, se non ha puniti gli impertinenti, come altri [pg!98] sovrani avrebbero fatto, ne prese una vendetta allegra, che sarà, più tardi, argomento del nostro studio.

Finalmente, compiuti con ansia febbrile i preparativi, distribuite le truppe nelle varie stazioni, fatti immensi e solenni sacrifici a Giove, nel marzo del 363, Giuliano parte da Antiochia diretto all'Eufrate. Poco prima di partire, aveva ricevuta una lettera del re di Persia, il quale, sgomentato dalla fama guerresca del giovine imperatore, lo pregava di accogliere una sua ambasceria e di comporre, con un trattato, il loro dissidio. «Tutti — scrive Libanio — applaudendo e compiacendoci, gridavamo che accettasse. Ma egli, gittando via con disprezzo la lettera, disse che sarebbe stato il più vile dei partiti il venir a trattative col nemico, mentre giacevano al suolo tante città distrutte. E rispose non esservi bisogno di ambasciatori, giacchè fra breve, egli stesso, sarebbe venuto a vedere il re...»131. Superba risposta, indizio eloquente del completo acciecamento, della folle ostinazione dell'apostata invasato che la mano di Dio, dicevano i Cristiani, spingeva al precipizio. Al re d'Armenia, suo alleato, raccomanda di tenersi pronto per eseguire gli ordini che verrà a ricevere. Nel lasciar Antiochia, nomina prefetto di Siria un severo amministratore, Alessandro, affermando che solo la severità ed il rigore potevano tener in pace l'insolente città, ed alla folla che lo accompagnava alle porte, e gli augurava felice ritorno, [pg!99] pentita del suo contegno verso di lui, rispondeva acerbamente che non l'avrebbero mai più veduto, perchè, ritornando dalla Persia, avrebbe svernato a Tarso. Non pare che gli Antiochesi si rassegnassero a questa specie di decapitazione, minacciata alla loro città, poichè da una lettera di Giuliano a Libanio, in cui narra il suo viaggio fino ad Jerapoli, vediamo che a Litarbo, la sua prima tappa, fu raggiunto dal Senato d'Antiochia, col quale egli ebbe una segreta conferenza. Giuliano non ne dice il risultato, riservandosi di parlarne a Libanio, se gli dei gli concederanno il ritorno132. Ma è certo che vi si trattò della pace fra l'imperatore e la città; pace, la cui conclusione stava tanto a cuore del retore antiochese che, onde promuoverla, scriveva due discorsi, l'uno agli Antiochesi, per indurli al pentimento delle offese fatte all'imperatore, l'altro all'imperatore stesso per indurlo al perdono.

Con la sua consueta rapidità, Giuliano passava l'Eufrate e giungeva a Carra, donde partivano due strade, di cui l'una, attraversando la Mesopotamia, da Ovest ad Est, raggiungeva il Tigri, l'altra scendeva al Sud lungo l'Eufrate. Manda per la prima Procopio e Sebastiano con 30,000 uomini, dice Ammiano133, con 18,000, dice Zosimo134, onde difendere il suo fianco, ed unirsi, se possibile, ad Arsace, il re d'Armenia, ed egli stesso, con un esercito di 65,000 uomini, discende all'Eufrate. Da Carra va a Callinice, dove celebra la festa solenne della Madre degli dei e riceve l'ambasceria dei Saraceni che si prosternano devoti innanzi a lui. Indi arriva a Circesio, al confluente dell'Abora coll'Eufrate. [pg!100] Qui assiste all'arrivo dell'immensa flotta, da lui allestita, che comprende mille navi onerarie, cariche di provviste e di strumenti bellici, più cinquanta altre da combattimento, ed altre ancora coi materiali da ponte135. A Circesio, Giuliano riceve una lettera del fido Sallustio, da lui nominato prefetto della Gallia, che lo supplica di non avventurarsi in un'impresa funesta, di non commettere un errore che potrebbe essere irreparabile. Giuliano non dà retta alla voce del lontano amico. Ma, nel suo campo stesso, intorno a lui, v'era un partito contrario alla spedizione. E questo partito cercava d'influire sull'animo di Giuliano, interpretando in modo sfavorevole alla spedizione tutti i segni, tutti gli indizi che l'accompagnavano. Nella restaurazione del Paganesimo, inaugurata da Giuliano, la superstizione teneva, come vedremo, un posto eminente. Il misticismo neoplatonico, che si fondava sull'ingerenza continua del soprannaturale nelle cose del mondo e che era tutto un complesso di miti e di simboli, dava un'enorme importanza alla scienza augurale. L'uomo, pur che ne tenesse la chiave, avrebbe potuto leggere, nei segni che lo circondavano, il suo futuro, e prenderne un consiglio infallibile. Giuliano aveva, dunque, con sè una schiera di auguri e d'interpreti, ai quali, ad ogni istante, ricorreva. Ora, è curioso che costoro gli dessero sempre delle spiegazioni tendenziose, miranti allo scopo di fermare l'impresa. Quegli auguri non hanno che presagi di disastri e di morte. È, dunque, evidente che quelle loro interpretazioni rispondevano a desideri ed a convinzioni che correvano almeno in una parte del campo di Giuliano. [pg!101] Ed è poi più curioso ancora il vedere come Giuliano, il quale aveva l'idea fissa di andar avanti, sa interpretare quei medesimi segni in un senso opposto e favorevole al desiderio suo. Per troncar ogni esitanza, Giuliano raccoglie l'esercito intorno a sè, e pronuncia un discorso infiammato, al quale i soldati, specialmente le fidate e provate legioni galliche, rispondono con acclamazioni e gridi di entusiasmo136.

Il racconto di questa spedizione persiana, che ci è fatto da Ammiano, il quale ne era parte e ci narra ciò ch'egli stesso ha veduto, è una delle relazioni più interessanti che l'antichità ci ha tramandate, e non è indegna di figurare presso i Commentari di Cesare o l'Anabasi di Senofonte. La narrazione di Ammiano è, in qualche parte, completata dal racconto che ne fa Zosimo137 che attingeva, evidentemente, oltre che ad Ammiano, a qualche altra fonte, e da quanto narra Libanio, nel discorso necrologico. Quest'ultimo non ha la pretesa di dare una relazione, rigorosamente militare, come quella d'Ammiano, od una narrazione ordinata, per quanto sommaria, come quella di Zosimo, ma ci presenta pitture ed episodî che riproducono vivacemente l'uomo, il paese e l'ambiente.

Ciò che più attrae, in tutti questi racconti, è lo spirito genuinamente eroico che muove Giuliano in ogni suo atto, in ogni sua parola. La sapienza del capitano che tutto prevede ed a tutto provvede, il valore incomparabile del guerriero, la magnanimità del vincitore, la comunione completa della sua vita con quella dei suoi soldati, l'arte con cui sa affezionarseli, [pg!102] ora rimproverandoli, ora lodandoli, ora esaltando la grandezza dell'impresa a cui si sono accinti, sono doti preziose che, unendosi in lui, fanno di lui una delle più cospicue e nobili figure della storia, certo la più nobile nella decadenza dell'impero.

Ma che profondo errore era mai quello che trascinava Giuliano nella sua folle impresa! Egli diceva al suo esercito: — «Io porrò sotto il giogo i Persiani, e così avrò restaurato lo scosso orbe romano!» — Era questa una specie di suggestione che tutti gli imperatori, buoni e cattivi, si trasmettevano l'un l'altro. E, intanto, mentre essi sciupavano le forze in questa inutile impresa, si addensava, nelle misteriose regioni del Settentrione, il turbine che tutto e tutti avrebbe travolto.

Avute in dedizione, quasi senza combattere, le città di Anatha e di Macepracta, Giuliano trova la prima ostinata resistenza nella fortezza di Pirisabora sull'Eufrate. L'imperatore vi compie prodigi di valore, gittandosi egli stesso sotto la testuggine degli scudi, e sconquassando le porte della città, mentre dall'alto precipita una tempesta di proiettili. Ma, resistendo i difensori, fa costrurre una macchina gigantesca, la quale incute loro tale spavento da persuaderli alla resa e ad invocare la sicura magnanimità del vincitore, il quale, presa Pirisabora, continua il suo cammino vittorioso, atterrando ogni ostacolo, superando le difficoltà della marcia in un terreno frastagliato dai canali d'irrigazione ed artificialmente inondato138. Assedia la città di Maiozamalca, presso [pg!103] la quale sarebbe caduto trucidato, durante un'arrischiata perlustrazione da lui stesso eseguita per riconoscere la posizione, se, con singolare prontezza e valore, non si fosse difeso139. Non riuscendo a vincere, con le sue macchine, la resistenza della fortezza, vi entra, per mezzo di un cunicolo sotterraneo, e se ne impadronisce. Superato questo punto di forte difesa, Giuliano, abbattendo tutti gli ostacoli che gli si paran davanti, giunge ad un immenso canale, già scavato da Traiano per mettere in comunicazione navigabile l'Eufrate col Tigri. Libanio ci dice che Giuliano già conosceva, per lo studio dei documenti, l'esistenza di questo canale, così che i prigionieri, da lui interrogati, trovarono inutile di fingere l'ignoranza alle sue domande, e gli rivelarono tutti i dettagli della costruzione140. I Persiani avevan chiuso e parzialmente otturato il canale. Ma a Giuliano quella via era preziosa, onde entrare, con tutta la flotta, nel Tigri. Egli, dunque, fa riaprire il canale, in cui fluiscono le acque dell'Eufrate, portando le navi imperiali, ch'egli fa seguire dall'esercito, il quale, passato su di un ponte il canale, va ad accamparsi sulla destra del Tigri. La sinistra era fortemente difesa dai Persiani e di difficile accesso. Ma l'audace imperatore pensa di assalirla e di conquistarla. Tutti i suoi capitani sconsigliano l'imprudente tentativo. Giuliano non si smuove. Di notte, manda alcune navi, con pochi volonterosi audaci, a sorprendere il campo nemico. Ma il nemico è vigile, e, gittando materie incendiarie, infiamma le navi. Il grosso dell'esercito che, sull'altra sponda del Tigri, [pg!104] aspettava ansiosamente il cenno per imbarcarsi, crede perduto il drappello valoroso. Quand'ecco Giuliano, con la sua solita prontezza di spirito, percorrendo la fronte e gridando: — Vittoria, vittoria! Quelle fiamme sono il segno convenuto che il colpo è riuscito, che la riva è nostra — trascina con sè i soldati che si precipitano alle navi, ed, attraversato il Tigri, si trovano di fronte i Persiani, e sono costretti a combattere141. Ne viene una grande battaglia che, dopo molte ore, si risolve in una completa vittoria per l'esercito romano. Giuliano che, durante la giornata, aveva compiuto prodigi di valore e di abilità tattica, può ormai credersi al termine di una gloriosa campagna che rammenta i fasti antichi e pare segni veramente il rifiorimento dell'impero.

Ma qui avviene un fatto strano, impreveduto, un fatto terribilmente funesto che basterebbe, anche solo, a provare come fosse poco equilibrata la mente di quel giovane geniale. La campagna si poteva dire guadagnata. Giuliano si trovava alle porte di Ctesifonte, la capitale persiana. Questa città era difesa da un esercito sconfitto; il prestigio militare di Giuliano era, per sè stesso, l'arma più potente. In ogni modo, il vincitore di Pirisabora, di Maiozamalca, l'audacissimo fra i condottieri non poteva arretrarsi davanti all'ultimo sforzo. Che fa, invece, Giuliano? Si ferma cinque giorni ad Abuzata, presso il campo della sua vittoria, e vi raccoglie un consiglio di guerra. E questo è unanime nel dissuadere l'imperatore a tentare la presa di Ctesifonte, perchè, si dice, sarebbe pericoloso impegnare l'esercito in questa operazione, mentre potrebbe [pg!105] sopraggiungere il re Sapore, col suo esercito, che, fino allora, era stato lontano dai luoghi dell'azione142. Quel Giuliano che non dava mai retta ai consigli altrui, che non obbediva nemmeno agli auguri, se non quando predicevano ciò ch'egli desiderava, che, malgrado le preghiere, gli scongiuri di tutti i suoi generali, aveva tentato l'arrischiatissimo passaggio del Tigri, questa volta si arrende e rinuncia, per un pericolo ipotetico, a quell'ultimo atto della guerra che pareva dovesse esserne il termine glorioso. Ciò vuol dire che l'abbandono di Ctesifonte era già prestabilito nell'animo di Giuliano. Ma perchè? Forse l'inquieto avventuriero era già stanco dell'impresa persiana, che ormai gli sembrava troppo facile, o, almeno, aveva perduto per lui il fascino dell'ignoto. La gloria di Alessandro balenava ai suoi occhi. Le sue aspirazioni non si fermavano all'Eufrate ed al Tigri; i fiumi dell'India lo chiamavano con un'attrattiva potente appunto perchè vaga e lontana. — Tendeva il pensiero ai fiumi dell'India — dice Libanio143.

Ora, la difficoltà di procedere alla presa di Ctesifonte era un buon pretesto per slanciare l'esercito nell'avventura di un'impresa in terreni ignoti. Infatti, se era difficile andar avanti, era non meno difficile tornare indietro, facendo risalire alle molte navi la corrente del Tigri e dell'Eufrate. Ci sarebbe voluto, dice giustamente Libanio, la metà dell'esercito, impiegata al rimorchio, ciò che avrebbe lasciata indifesa agli assalti dei Persiani tutta la spedizione144. Ed allora [pg!106] Giuliano fa questo piano, ancor più folle che audace — abbandonare le vie fluviali che erano state fino allora la sua base d'operazione, bruciare la flotta con tutte le provviste, onde impedire che cadesse in mano del nemico, e gittarsi nell'interno del paese, dove sapeva di trovare terre fertili, erbaggi e messi abbondanti. Senza credere all'esistenza di quel complotto persiano, di cui parla Gregorio di Nazianzo145, e di cui egli, con scherno vittorioso, addita, in Giuliano, la vittima stolta, si può ammettere la probabilità, riconosciuta anche da Ammiano146, che guide ignoranti o false abbiano illuso e traviato l'infelice imperatore, sempre troppo facile a credere ciò che gli andava a genio. Stabilito il piano, con quella prontezza di risoluzione, che era un elemento di riuscita nelle buone idee, ma un precipizio di rovina nelle cattive, Giuliano lo mette in esecuzione. Abbrucia tutta la flotta con le sue immense provviste, non conservandone che dodici da portar seco per la costruzione dei ponti, ed abbandona, con tutto l'esercito, la sponda sinistra del Tigri.

L'Imperatore Giuliano l'Apostata: studio storico

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