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CAPITOLO VIII.
DA CALATAFIMI A RENNE.

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La vittoria

È sul brando del forte.

(Autore conosciuto).

La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 1860.

Era un vero bisogno d’iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl’immensi presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell’isola.

Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri.—Vi furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite.—Per me però il combattimento decisivo fu Calatafimi.—Dopo il Pianto dei Romani, i nostri sapevano che doveano vincere; e quando s’inizia una pugna con quel prestigio, si vince!

Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l’Italia, non tanto per le perdite nostre d’uomini e di mezzi, quanto per la boria dei nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che si spinge avanti coi calci dei fucili.

E non dubito: gli oppressori nostri s’inganneranno, ove la gente italica sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.

Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono disputate.—In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere la confusione della ritirata.

Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d’aver iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.

Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non cesserò di ammonirli sulla necessità di costanza, sia nel durare alle fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia nelle giornate di pugna grandi o piccole.

A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del nemico, decise della giornata.

Al Volturno, iniziata la battaglia prima dell’alba, il nemico era ancora padrone del campo di battaglia alle 3 pomeridiane; quando giunsero alcune riserve da Caserta che influirono a cacciarlo dentro Capua in men d’un’ora.

Non dirò di Palermo, ove vi fu non solo costanza da parte dei pochi militi nostri e della inerme popolazione, ma sfacciataggine di cacciar via dalla città ventimila soldati che potevan far l’orgoglio di qualunque generale.

Alle prime prove dell’Italia contro i suoi eterni nemici, vi vorrà un Fabio che sappia temporeggiare: ed il nostro paese è tale da poter guerreggiare come si vuole; accettare o no una battaglia quando convenga, gettando frattanto alle spalle del nemico e su tutte le sue comunicazioni tutta la parte virile della nazione, non in guanti bianchi come soglionsi ricevere gli invasori—ma col ferro e col fuoco—fucilando il traditore che ha dato un bicchier d’acqua ad un assassino. Poichè è assassino chi invade proditoriamente la casa di un vicino e se ne fa padrone.

Allora verrà presto la parte di Marcello della spada di Roma, che potrà senza cerimonie attaccar di fronte il borioso nemico, e finalmente Zama, ove un nuovo Scipione torrà ad esso la voglia di venir ancora a mangiare i nostri fichi.

Anche in questo mi tormenta l’idea del prete, che vuol fare degli Itali tanti sagrestani.—E se l’Italia non vi rimedia, è un affare serio! I gesuiti non ponno far altro che: ipocriti, mentitori, e codardi! Vi pensi chi deve che, per marciare e dar delle splendide baionettate vi vuol gente forte.

Calatafimi sgombro dai nemici fu da noi occupato. La maggior parte dei nostri feriti era stata trasportata a Vita.

A Calatafimi trovammo i più gravi dei feriti nemici, e furon trattati da fratelli.—Avean qualche rimorso queste dominatrici famiglie dell’Italia, nell’aizzare le nostre popolazioni infelici, siccome mastini, le une contro le altre?

Rimorsi! Ma che rimorsi! Tutto il loro studio non era forse d’inimicarle, e tutto il loro interesse?—acciocchè continuasse ad esser difficilissimo, se non impossibile, l’unificazione della patria Italiana?

Sarebbe lunga la storia delle corruzioni e dei tradimenti di codesti signorotti per il diritto divino, oggi felicemente mendicanti per la maggior parte; tuttora però, traditori e pervertitori della nazione.

Le genti della Trinacria frattanto accorrevano ad ingrossar le fila dei Mille. Alcamo accoglieva i vincitori con tutto l’entusiasmo di cui sono capaci quei fervidi Meridionali.—Partinico fece di più: vedendo i nemici che sì crudeli eran stati cogli abitanti, ora sbandati e fuggenti, quella popolazione diede loro addosso, e sino le donne trucidarono di quei disgraziati.

Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati Borbonici per le vie divorati dai cani!!!

Eran pure cadaveri d’Italiani che, se educati alla vita dei liberi, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese, ed invece come frutto dell’odio suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati e mutilati dai loro proprii fratelli con tale rabbia da far inorridire i Torquemada.

Dalle belle pianure d’Alcamo e di Partinico la colonna ascendeva per Borgetto sull’altipiano di Renne, da dove dominava la conca d’oro e la Regina dei Vespri—che confesso—se fra le sue cento città, Italia avesse una mezza dozzina di Palermo—da molto tempo lo straniero non calpesterebbe questa nostra terra.—E certo il Governo dei birri e delle spie o marcerebbe diritto o il diavolo se lo sarebbe portato via.

Renne sarebbe una posizione formidabile, se nello stesso tempo ch’essa domina lo stradale da Palermo a Partinico non fosse dominata dalle alture immediate a mezzogiorno e tramontana che appartengono ai monti irregolari che circondano la ricca vallata della capitale. Renne è famosa nella campagna dei Mille per due giorni di copiosa pioggia, passati senza il necessario per affrontare le intemperie, ove fu assai incomodata la gente, ma ove quel pugno di prodi provò: esser disposto ai disagi siccome a disperate battaglie.

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